Biennale 2013


Dovrei ricevere due messaggi, o due telefonate, in ogni caso non potrei rispondere perché l’appuntamento era per le 17,15 – 17,30 e sono le 17 e quindici e sono già nell’ufficio del cliente. Mi dovevano chiamare sia l’editore che l’agente ma non si sono fatti vivi e io sono sempre più serenamente convinto che non me ne frega più nulla di pubblicare un altro romanzo. Sono qui nell’ufficio del cliente in bermuda e infradito. Quando sono salito in macchina per partire ho pensato che sarebbe stato meglio che avessi quantomeno indossato le scarpe ma la mattina sono andato a scuola a parlare col direttore e le scarpe nuove mi hanno provocato due abrasioni dietro le caviglie. Ritengo sia una cosa che di solito succede ai turisti. Soprattutto a quelli giapponesi. Quando sono entrato in ufficio il padre del cliente era in piedi vicino al bancone della reception e mi ha guardato senza salutarmi e mi ha squadrato da capo a piedi soffermandosi sulle infradito, non ha fatto caso alla borsa nera che tengo nella destra e che contiene il computer. Probabilmente è abituato alle persone che entrano in ufficio portando borse. Mi giustifico spiegando che mi sono fatto male ai piedi, lui non dice niente ed esce. Ora sono solo nell’ufficio. Da una porta sul fondo entra un’impiegata che saluto e mi saluta e mi guarda i piedi e così le spiego che mi sono fatto male mentre lei mi chiede se ho appuntamento e io dico di sì. Così lei telefona e mi dice che il titolare arriva subito. Sono stanco. Ieri ho nuotato molto e ora fa caldo. Di solito quando fa caldo è meglio ridurre l’attività sportiva. Credo. In ogni caso ho nuotato pure stamattina, di meno e con minore foga ma ora sono davvero molto stanco. Poso la borsa su un divanetto di bambù sul quale non oso sedermi, in ufficio c’è molto silenzio e sedermi sul bambù potrebbe fare rumore, potrei scricchiolare. Pertanto sto in piedi e aspetto e mi giro a sinistra dove individuo una nicchia che contiene un quadro astratto che mi sorprende molto. È piccolo, quaranta per quaranta, massimo cinquanta per cinquanta e pare protetto come la Gioconda al Louvre. È nero e grigio polvere e il tratto nero è stato fatto con un pennello molto grande a formare una intricata matassa che pare riprodurre continuamente il simbolo dell’infinito e così penso sia un’opera concettuale e mi pare davvero strano che in questo ufficio tengano un dipinto di questo genere perché la volta scorsa il titolare si era mostrato perplesso per il logo nuovo che gli avevo proposto. Gli pareva troppo troppo… ardito ho detto io e lui ha detto sì. Così vedere quel quadro ora mi pare davvero strano perché non riesco più a collocare il mio cliente a nessun livello culturale. Teoricamente potrebbe essere semplicemente pazzo e so che gli affari gli vanno bene e quindi di questi tempi mi pare tutto perfettamente logico perché in tempi come questi solo ai pazzi gli affari vanno bene. Probabilmente non paga le tasse e evade l’Iva. E poi è strano che ad un’opera così costosa abbiano messo un vetro riflettente perché ora nel quadro spunta il braccio di una gru di cui sento il rumore alle mie spalle. Sicuramente una superficie trasparente antiriflesso avrebbe valorizzato maggiormente l’opera. In ogni caso il titolare arriva, mi saluta e mi guarda i piedi e così gli spiego la faccenda e lui si gira verso l’impiegata che gli dice che è arrivato un camion polacco da caricare e che suo fratello non c’è. Così il titolare si gira verso di me e mi dice che suo fratello non c’è e che tocca a lui caricare il camion polacco se posso aspettare mezz’ora. Poi guarda l’orologio e dice che però io alle 19 devo andare via e io confermo quello che gli avevo detto ieri al telefono quando abbiamo fissato l’appuntamento e pertanto concordiamo di vederci con maggiora calma venerdì intorno alle 15, che di venerdì non ci sono mai camion da caricare. Ribadiamo diverse volte che la cosa da fare è quella, che è meglio spostare l’appuntamento a venerdì e lui si scusa per avermi fatto andare lì inutilmente e poi concordiamo ancora per altri cinque minuti buoni che è meglio fissare un appuntamento che ci conceda più tempo per discutere di tutto venerdì alle quindici. Io dico che va bene e lui mi informa che ora i loghi da fare sono due e mi conferma che il sito va fatto e stiamo per salutarci e lui sta per andare a caricare il camion polacco quando io gli chiedo se mi dice di che artista è quel quadro e guardo alla mia sinistra. Quale quadro? mi chiede lui e io alzo il braccio, punto il dito e dico quello. Lui mi guarda stranito e mi dice che quella è la finestrella che dà sul capannone e solo in quel momento vedo il nero del cemento in ombra sullo sfondo del capannone e il tracciato della polvere tirata via malamente con uno straccio asciutto e capisco che la gru che ho visto stava transitando all’interno dell’edificio. Guardo il cliente imbarazzato e lui e l’impiegata per contro mi guardano imbarazzati. Per un secondo non so che dire e poi dico che devo smettere di andare alla biennale e lui mi chiede cos’è, ma si vede che ha fretta perché sa che il camionista polacco ha fretta e così gli dico che ci vediamo venerdì. Alle tre dice lui e io confermo e lui esce. L’impiegata fissa impassibile lo schermo del suo pc. Io le dico buonasera, lei mi dice buonasera e io apro la porta e esco. Fa molto caldo e dentro con l’aria condizionata accesa si stava molto meglio. Ma non vuol dire niente.

Posted in racconti | Leave a comment

Email

Sono sul divano che leggo un libro e lui è in camera. La camera è a due stanze dal salotto dove sto io e in mezzo c’è il corridoio. Ho chiuso la porta della camera tre volte e ogni volta lui l’ha riaperta, dice che soffoca, gli dico di aprire la finestra e lui mi dice che entrano le mosche. Lo sento lamentarsi. Sta litigando con i suoi figli, dice loro che lasciano tutto in giro e che la casa è un casino. Sono figli immaginari, io sono il suo unico figlio e lui è in camera da solo e a un certo punto comincia a urlare che non ce la fa più a essere lo schiavo di tutti e che pretende un minimo di considerazione per tutto quello che fa. Urla e urla e alla fine inizia a piangere forte e sento dei colpi contro l’armadio che prende a sberle e pugni. Mi alzo e torno da lui e gli chiedo cosa succede e lui pare non sentirmi e continua a dare colpi sull’armadio lamentandosi forte così di nuovo gli chiedo cosa succede e lui si calma e mi dice, lascia che ne faccia un altro. No papà, gli rispondo. Un altro e basta, dice lui. No, nessun altro. Tu non ti fidi di me. Papà per causa tua ora c’è qualche miliardo di persone che non se la sta passando troppo bene. Hai messo in giro delle dinamiche che provocano un sacco di dolore e pare che l’unico sistema di cui dispongono per difendersi sia l’indifferenza, il distacco o usare sostanze dannose che riescono a procurarsi con una certa facilità. Poi stanno pure peggio. Stavolta sto attento, ribatte lui. Non puoi fare altro? gli chiedo, in giardino l’erba è alta e le aiuole sono senza fiori e la siepe è da potare e il tetto del capanno è da riparare, gli dico. Non c’è niente da creare in giardino, mi dice lui. Non te ne lascio fare un altro. Mi ritieni un buono a nulla. Vuoi vedere la mia casella email? Ci sono richieste degli anni ottanta che ancora non sono riuscito a leggere, oramai le leggo a caso e la maggior parte delle volte non posso fare nulla. A volte leggo mail esaudibili ma i mittenti sono già morti. Ci sono giorni che per la nausea non accendo nemmeno il computer. Se ne faccio un altro ti prometto che mi arrangio in tutto e per tutto. E allora perché non ti arrangi con questo? Perché non ci badi tu al casino che hai creato? Chiedo allargando le braccia e fissando il mio sguardo nel suo. Mi sono venuti male, piagnucola lui, con quelli non ci riesco e poi oramai sono troppi. Papà li hai fatti pazzi, continuano ad accumulare cose per poi perderle e alla fine perdono tutto, si disfa tutto, si sbriciola tutto, va tutto a pezzi da qualsiasi parte e in qualsiasi modo, corrono tutto il giorno e sono a pezzi come le cose che vanno in pezzi, che siano pazzi mi pare il minimo. Non hanno carattere, dice arrabbiato. Papà, non c’era niente, era tutto vuoto, lo hai creato tu quel carattere. Fammene fare un altro, starò attento. Vai a sistemare il giardino, ora io torno a leggere. Sei un bastardo, urla puntandomi il dito. Perché non ti lascio farne un altro o perché dovevo dire che mio padre era il falegname? Vattene non capisci un cazzo, vattene! grida. Così mi giro e torno in sala a leggere. Per una decina di minuti in casa c’è silenzio e poi lui ricomincia a lamentarsi. Se lo lascio solo lo fa di nuovo, ne sono certo. Ora dice che la scrivania è tutta piena di fogli scarabocchiati. Sulla scrivania non c’è niente. Dice ai suoi figli immaginari di mettere a posto, di rassettare e sistemare che lui da solo non ce la fa più. Da qualche parte dentro di sé è divorato da un rimorso irreparabile e se solo leggesse un paio di minuti dentro la mia casella email impazzirebbe del tutto. Riesco a leggere nonostante il suo lamento che striscia per la casa. Viene sera. Viene notte. Di notte parla nel sonno. Se smette di parlare mi sveglio di scatto, anche se so che di notte non può creare niente.

Posted in racconti | Leave a comment

Open space

Il Signor FT era solito fare venti chilometri a nuoto ogni settimana, i suoi colleghi di lavoro e gli amici lo sapevano e lo guardavano con ammirazione. Solo Anna rimaneva dubbiosa e sorrideva debolmente, e solo per cortesia, quando il Signor FT dava nuove conferme delle sue prestazioni atletiche. Un giorno il Signor FT, senza apparente motivo, smise di nuotare e alla richiesta di un collega su come andasse in piscina dichiarò candidamente che niente, si era stancato e non ci andava più. Un vero peccato disse Emma che per il Signor FT aveva sempre avuto un debole. Ti serve una pausa disse Antonio che faceva parte di un gruppo amatoriale di ciclismo. Dopo tre giorni il Signor FT devastò e rase al suolo l’intero open space in cui lavorava con la sola forza delle braccia, del corpo e delle gambe, ferendo anche gravemente alcuni colleghi. Quel giorno Anna non era al lavoro, si era presa ferie.
Posted in racconti | Leave a comment

Come se nulla fosse

Quando ho lasciato uscire il mostro in giardino, la prima volta intendo, dopo le sue infinite insistenze, a colazione, a metà mattinata, a pranzo e a cena e un paio di volte a notte fonda, l’ultima volta in particolare, alle quattro di notte, mentre sognavo di sfrecciare in basso giuliva sullo scivolo dell’AquaFan per schizzare nel tuffo ristoratore ecco la sua voce, sempre uguale, voglio uscire, sempre e solo quelle due parole, ripetute all’infinito, lo scivolo rassicurante nella sua larghezza si è piegato e contorto come fosse di lamiera e mi sono ritrovata per aria e poi al buio e poi a letto e poi la sua sagoma che si stagliava contro la luce accesa del corridoio, lui appoggiato allo stipite che ripete voglio uscire e io di colpo inaspettatamente per me inaspettatamente cedo, crollo dentro e gli dico domani esci, e lui mi guarda in controluce non lo vedo in faccia, mi guarda e esita e poi mi chiede se voglio solo farlo tornare a letto per dormire in pace e io gli dico no, domani esci, e lui se ne torna a letto e il giorno dopo eccolo là, in giardino, lo guardo dalla poltrona, vedo la sua sagoma balzellante oltre la tenda bianca e poi mi alzo e scosto la tenda e lo guardo chinarsi e toccare l’erba, ne stacca un filo e lo annusa, poi lo mette in bocca e lo mangia e fa la stessa cosa con una foglia d’ulivo mentre dal lato opposto della strada la vicina esce sul balcone e lo guarda incuriosita per qualche istante e poi rientra e penso ecco ora chiama i carabinieri o la polizia, ma d’altra parte meglio così, non lo potevo tenere ancora chiuso in casa, mi impazziva, mi faceva del male o si faceva del male, ci facevamo del male, ora arriva la polizia e questa storia finisce e gli porto la frutta e i dolci nel posto dove lo rinchiuderanno dopo che la vicina avrà digitato 112 o 113, qualcuno di loro ora arriva, la legge, o il 118, anche l’ambulanza perché no? e mi stupisco quando la vicina esce da sotto, dall’ingresso, mano nella mano con suo figlio che tiene sottobraccio un pallone e si avvicinano al mio mostro e lei si mette a chiacchierare con lui che le dà la mano e poi fa un saluto al bambino e poi lei se ne va lasciando suo figlio e la palla in compagnia del mostro che comincia a giocare con il figlio dei vicini. Sono incredula. Li guardo. I loro corpi diventano figure e mi si annebbiano e offuscano nelle lacrime. Piango a singhiozzi. Piango forte e mi lamento di gioia. Mio dio mio dio. Tutta la mia paura in tutti questi anni. Sono stata una stupida. Quanto abbiamo sofferto? La prima cosa che è successa è stata giocare a palla, cosa mi credevo? Non hanno visto il mostro, poi anche gli altri, quando si è sparsa la notizia che c’era uno nuovo nel quartiere, non vedevano il mostro, ci giocavano, lo cercavano, telefonavano, ho dovuto comperargli il cellulare. E dopo una decina di giorni, tredici per essere esatta, alla compagnia in giardino, abbiamo il giardino più grande del quartiere, a tutti quanti quei ragazzi si è aggiunto un altro mostro, non ho capito di chi sia, ma la cosa certa è che l’ho visto solo io, l’ho riconosciuto solo io, solo io ho visto che era un mostro, tutti gli altri là fuori giocavano con lui e col mio mostro. Come se nulla fosse.

Posted in racconti | Leave a comment

Incipit ed explicit – Sisifo verticalizzando

Quel che so è che ci ho perso metà dei miei risparmi. Era un bel gruzzolo messo da parte nel corso di molti anni senza rubare niente a nessuno. Col sudore della fronte come chiede il dio in voga da queste parti. E quel che so, a dispetto dei mio personale vantaggio, è che i barbari hanno fatto bene. Che dovevano dare un segno. Fare una strage. Dovevano fare capire all’impero che ha rotto il cazzo e che il mondo è stanco della loro politica di dominio incontrastabile. Quello che so è che ci va sempre di mezzo chi non c’entra niente perché i generali e i presidenti non stanno mai in prima linea e comunque a anche se ci andassero sarebbe uguale. Di persone in malafede che attendono il loro turno sulla sedia c’è la fila. È una macchina fatta così, e a noi europei non ci hanno tirato giù due torri, ci hanno messo nel culo la Lehman Brothers. Stessa cosa no? Quello che so è che ora come ogni giorno premo il tasto di accensione del mio pc e comincio a lavorare.

………………….

Certo i grattacieli fanno risparmiare spazio a terra. Ho superato il colloquio venti giorni fa e oggi non c’è più il mio posto di lavoro e per quanto mi sia dannato a disinvestire subito tutti i fondi i quindici giorni tecnici che servono all’addebito in conto mi faranno di nuovo perdere metà di tutto quanto. Ho cambiato sette lavori nella mia vita perché alle multinazionali non interessa se sei bravo ma chi è bravo e costa meno. C’erano molti giovani al colloquio ma stavolta ha avuto la meglio l’esperienza. Ero molto soddisfatto ma comunque. Quello che so è che ho fatto colazione e ora accendo il pc e cerco di capire se alla Thun cercano un product manager. Non ho mai visto un palazzo della Thun con più di due piani.

Posted in racconti | Leave a comment

una storia per Giulia

Che ci fai qua da sola Giulia?
E dove sono andati i tuoi amici?
Ah, non ti hanno iscritta i tuoi all’asilo estivo?
Sì, se vieni da me una favola te la racconto.

Ti piacciono i biscotti?
La conosci la Bibbia?
E quindi non conosci la favola del serpente

Vieni qui siediti accanto a me
È morbido il divano
No, non mi importa se ci fai le briciole
Non sono come tua mamma, se fai briciole poi pulisco
Quindi non conosci la favola del serpente
C’era un serpente e c’era un albero di mele

Lo sai che qui poi diventeranno come mele?
Sì come tua mamma o meglio
Ti piacciono i biscotti?
Vuoi della Coca Cola?
Te la vado a prendere
La vuoi fresca vero?
Ok, sì fresca è meglio

No, non lo dico ai tuoi dei biscotti e della coca cola
E tu non dici loro della favola che ti racconto
Sono segreti nostri questi
Ti piacciono i segreti?
Che tua sorella si tenga i suoi se i tuoi sono più belli

Lo sai che io ho un serpente?
No non avere paura
Non è pericoloso
È un serpente amico

Te la racconto la storia?
Va bene allora ti faccio vedere il serpente
Lo tengo qua

Te l’ho detto che non è pericoloso
Lo puoi toccare
A lui piace
Sì come alla tua gatta
Sì così
È la nostra storia segreta

Vuoi un altro biscotto?
Hai ancora sete?

Va bene
Allora facciamo la storia

Posted in racconti | Leave a comment

un posto al sole (il rovente muro d’orto rivisitato)

Io detto e tu scrivi. Ok? Sei pronta? Bene
Sapevi dove trovarmi sto e aspetto. No un momento, sto lì è aspetto te. Hai corretto? Ok. Al sole mi possono anche vedere tutti e non me ne frega. Sto con la gonna mi metto la gonna sempre, cancella sto con la gonna, mi metto sempre la gonna e quando ti vedo la tiro, tiro la stoffa, in modo che si alza e tu, e a te piace. Sì ok, correggi e mettila bene. Sto appoggiata al muro con una gamba a terra e l’altra col piede sui sassi. Sto sempre così sai? No questo lo dicevo a te Annamaria, non lo scrivere. Scrivi. Ti piacciono i miei sandali rossi e me li metto perché mi hai detto che ti piacciono. E anche le camicie. Sì Annamaria metti i punti dove ti dico io, lascia come ti dico io, altrimenti non pare che l’ho pensato io. Scrivi. La mia camicetta bianca a fiori ultima che ho messo ti piace? Li ho presi per fare come un posto al sole. Hai visto che non ho messo il reggiseno? Mi prendono in giro. Perché sono minorata. Allora faccio la scema ancora di più. Che mi possono dire. Sì giusto metti il punto interrogativo a quelli pensaci tu. Dove siamo arrivate? Ah sì. Che mi possono dire? Lo dicono già che sono scema. La mongola. Metti la emme maiuscola. La Mongola. E lo faccio per te se non lo sai. Io credo, che dici glielo scrivo che lo amo? Sì che sono sicura. Ok. Ti amo. Ce lo hai messo il punto esclamativo? Allora metticelo. Ti amo! È per te se lo sai che faccio ancora peggio la scema. Voglio che mi prendi e mi sposi. Una mongola e il primo della classe. Perché. Tu te lo chiedi? Io lo so. È facile. Ti lamenti e io che per scriverti ho chiesto a mia sorella se mi aiuta mi pare di avere capito che i primi della classe fanno lavori di merda. E hanno le macchine grosse per niente. Quello che vogliono appartamenti anche in centro se vogliono, e tutti per loro senza affitto. A te non ti piace quello che hai né quello che fai. Non si dice cosa? Allora metti giusto. Ok. A te non piace quello che fai. Ma però ti piace quello che faccio. Uffa Annamaria no basta lascialo ma però, non si capisce lo stesso se lasci ma però? Ok se si capisce lascialo altrimenti finiamo domani. Aspetta che dove eravamo? Ah sì. Ti piace quello che fa questa mongola a tutti quanti e la vuoi tutta per te. Sì vede come va perché è sempre così che non si sa mai niente di quello che arriva. Poi si muore tanto. Che ne so? Non so nemmeno contare fino a dieci senza saltare sempre il sette. Appena sposati mi confesso che se anche poi il curato lo dice in giro tutto quello che ho fatto al campetto tu sai già tutto e la gente dirà una cosa in più. Da mongola a mongola troia forse magari sale la stima degli uomini che sono maiali. E non vado all’inferno se siamo sposati. Tu prendi molti soldi e il matrimonio in chiesa fa sempre contenti tutti perché possono sparlare della sposa e me lo immagino ma io e te se i patti sono chiari l’amicizia rimane lunga. Se vuoi quello che vuoi garantito come le macchine con l’assicurazione che ti pagano anche se vai contro al muro da solo… si dice casko? E lo capiscono tutti? Allora metti casko. Sono garantita come una casko e prometto di riservarla tutta per te. Passando dalla chiesa mi piace tantissimo e potremmo fare suonare qualcosa di rock all’organo ma della musica ne sai tu quindi scegli. Io non sempre capisco bene quello che dicono le persone e ho bisogno a volte che me lo ripetano. Ma questa cosa delle cose che piacciono è facile da capire e i soldi e il sesso sono di quelle. Ho fatto tutto secondo come ho capito. È come se io ti do il mio telecomando e tu mi dai il tuo. Dimmi di no se sei capace. Ho tirato su tutta la gonna e mia sorella ride. Ciao.

Posted in racconti | Leave a comment

il rovente muro d’orto

Sapevi dove trovarmi e dove ti aspettavo. Al sole perché tutti mi vedano se vogliono. E quando arrivi tocco la gonna in modo che l’orlo salga e tu te ne accorga. Sto appoggiata al muro con una gamba a terra e l’altra col piede sui sassi. Ti piacciono i miei sandali rossi? E la mia camicetta bianca a fiori? Li ho presi per la tua scena. Hai visto che non ho messo il reggiseno? Per fare la scema. Perché sono minorata. E. Per te se non lo sai. Ti amo. E per te se lo sai. Voglio che mi prendi e mi sposi. La mongola col primo della classe. Perché? Tu te lo chiedi? No, tu lo sai. Ma diciamolo a tutti. È semplice. Ai primi della classe capitano lavori di merda. E macchine grandi per niente. Appartamenti in centro se vogliono, e di proprietà. Non ti piace quello che hai né quello che fai. Ma ti piace quello che faccio. Ti piace quello che fa la mongola a tutti quanti e lo vuoi solo per te. Finché dura. Finché duri. Fin ch’è duro. Poi si muore forse. Che ne so? che non so nemmeno contare fino a dieci senza saltare ogni volta il sette. Perché col tuo stipendio mi puoi garantire un buon contratto a termine finché morte non ci divida matrimonio in chiesa e tutti gli stupefatti felici e contanti e noi benedetti e se i patti sono chiari l’amicizia rimane lunga. Come quello che hai nella patta. Mi pare. Che. Siamo in pieno sole. Se vuoi quello che vuoi io prometto di riservarlo tutta per te. Tutta per te. Passando dalla chiesa non è magnifico? Da quando ho intuito il gioco. A grandi linee direi. Ho giocato secondo le regole in modo chiaro e netto. Io ho il comando perché tu hai il comando e nessuno può interferire. Dimmi di no se sei capace. Oppure. Fottimi.

Posted in racconti | 1 Comment

le lucertole

Ci incontriamo al campetto dietro le scuole perché là se fumi una sigaretta non ti vede nessuno e qualsiasi cosa tu faccia non ti vede nessuno. Sarebbe il luogo ideale per commettere un omicidio. Non ci sono case intorno e non è un luogo di passaggio, per andarci devi infilarti dove il vecchio muro è crollato, ma che ci vai a fare? Non c’è l’erba, non ci sono panchine, non ci sono alberi e non ci sono fontane. Ci sono solo dei blocchi di pietra abbandonati e noi ci sediamo là sopra e ora che è estate sotto al sole è un delirio, ma ci possiamo fare gli affari nostri indisturbate e i ragazzi sanno che ci possono trovare là. Ci chiamano le lucertole per questo, e siamo abbronzatissime e vorrebbero stanarci e portarci altrove ma noi da lì non ci schiodiamo. Siamo in quattro. Io sono Annamaria, Petra è di origine slava, Giulia è nera come il carbone e mia sorella Clara è mongoloide. Si dice down, lo so, ma sticazzi, io preferisco mongoloide perché è multietnico. Un’italiana, una slava, una nera e una mongoloide. Per me è molto più politicamente corretto di down che pare la caduta di Lucifero agli inferi, una specie di colpa insomma. I mongoli sono cavalieri abilissimi e mia sorella è molto agile, mongola e agile, più di me sicuramente. I miei hanno cominciato a mandarla con me per il controllo. Lei è una chiacchierona e le piace fare la spia ma al suo ultimo compleanno le ho fatto un discorso e le ho detto Clara tu vieni con me e stiamo assieme e ci possiamo divertire davvero se poi tu non racconti tutto a mamma e papà. Lei mi ha guardata perplessa perché non capiva bene di cosa stessi parlando e allora dato che la catechesi le ha abbastanza rovinato la visione del mondo le ho spiegato che ci sono un sacco di peccati divertenti come fumare o baciare i ragazzi o bere birra e che se si voleva divertire doveva smettere di raccontare tutto a casa. Lei è rimasta muta per qualche istante e poi mi ha chiesto se poi si doveva confessare e io le ho detto di no, che il curato chiacchiera più di lei. Allora mi ha detto che le faceva paura perché sarebbe finita all’inferno e io le ho risposto di stare tranquilla perché ci saremmo andate tutte e quattro all’inferno e se ce ne fosse stato bisogno noi l’avremmo difesa. Altro silenzio e poi un ok che mi ha fatta felice. Dal giorno che ha compiuto dodici anni abbiamo cominciato a divertirci davvero noi lucertole là al campetto. Era chiaro che quel che facevamo noi lo avrebbe fatto pure lei e quindi il primo bacio con la lingua è stato il suo. Tra me e lei perché con Piero era curiosa ma aveva anche paura che le facesse schifo. Allora le ho detto Clara vieni qua e bacia me, se non ti piace smetto, ma le piaceva eccome tanto che mi sono sentita io a disagio per l’effetto che stava cominciando a farmi la sua lingua attorcigliata alla mia. E poi la sua domanda: ma se ai ragazzi piace e vengono qua per questo non possiamo dirgli di portare qualcosa? Qualcosa come? Tipo da bere, dei dolci, dei fumetti, musica da mettere sull’mp3. Io, Petra e Giulia. Sei occhi si sono dilatati molto a quelle parole e poi sei palpebre sono scese a mezz’asta. Mica scema la mongola e inizio dell’età dell’oro per le lucertole. I ragazzi poi, dapprima sdegnosi di lei per il fatto che le sue fattezze sono meno canoniche delle nostre, si sono presto resi conto che la sua passione superava la nostra e che i suoi premi erano proprio meritati. Insomma Clara da passaporto obbligatorio per arrivare alle nostre grazie è diventata oggetto di desiderio ambito perché pare che con la bocca sia un’esperienza quadrimensionale. Escono tutti spettinati da dietro il blocco di marmo più grosso e siamo tutte certe che Clara non ha assolutamente toccato le loro chiome. Le lucertole insomma sono tutte e quattro molto felici di come sta passando questa estate e Clara pare tra tutte la più contenta. Una sera mentre tornavamo a casa chiacchierando Petra mi ha preso per un braccio e mi ha tirata da parte senti una cosa. Cosa? Ma te non hai paura che tua sorella si innamori di qualcuno? E per quale motivo? Pensaci, dice. Ci sto pensando, dico, ma non capisco. Potrebbe avere una grossa delusione e rimanerci molto male. Ho guardato Petra un attimo per trovare le parole esatte e poi le ho detto. Perché invece io te e Giulia siamo in garanzia?

Posted in racconti | Leave a comment

resurrecturis

Sto qua al banco della limonata a cinque centesimi per tutti i beati e sto qua in paranioa. Ok ok. Andavo alle riunioni di Lucifero e all’ultimo mi sono dissociato, me ne sono tirato fuori, ma la mia partecipazione risulta al Capo e ora sto qua al banco della limonata a cinque centesimi. E non è esattamente questa da barista la mia paranoia. La mia paranoia sta nel fatto che mi devo occupare della resurrezione della carne. Di tutti i credenti. Uno a uno. Come soldatini. Tutti i credenti. Tutti. Cazzo! Lo so da sempre lo so e ditemi ora, cari ragazzi, vi pare strano che io abbia remato contro? Voglio dire. Da qui alla fine del mondo quanta gente devo far risorgere? Uno a uno. In carne e ossa voglio dire. Ragazzi. Mi pare evidente che quello che ha fatto Gesù non sia nemmeno il trailer di quello che dovrò fare io. Prendi una crociata e prendi tutti quei deficienti che sono morti contro gli infedeli. Mio dio. Da mangiarsi le mani. A non saper predirre il futuro. Ho mandato Buddha cinquecento anni prima. E ho mandato l’Olimpo ai greci e Maometto agli arabi. Li ho mandati tutti io i focolai di miscredenza. Prima e dopo Cristo. Cristo! Sempre io tra un resto di cinquanta centesimi e cinque limoni per una caraffa da un litro. Con ghiaccio. E con Maometto poi mi scoppia il casino delle Crociate. Cantiamo. Datemi un martello! Che cosa ne vuoi far? Darmelo sui coglioni, direi cari. E poi tutto il resto. Un papa si riconcilia con gli ebrei e il pallottoliere me ne mette di colpo in conto sei milioni solo per colpa del nazismo. Ma non vi voglio tediare con tutte le circostanze. Sta di fatto che servo limonate e vedo numeri di cadaveri innumerevoli farsi al quadrato e al cubo e alla enne sapendo che dovrò fare tutto da solo e che non ho il permesso di buttarmi avanti col lavoro. Che ansia. Devo aspettare la fine del mondo. In ansia fino alla fine del mondo. Perché è quello il momento. Il mio momento. E allora. Peggio di una fila in banca quando scade l’irpef. Peggio di Gardaland a ferragosto. Perché allo sportello Resurrecturis sarò da solo. Se posso dire una cosa. Davvero. Io ora preferirei essere all’inferno. Ma si sa. Un dissociato sta sulle palle a tutti. A tutti e tutte. Che manco su Skype riesco a vedere un paio di tette per una sega. Per dire.

Posted in racconti | Leave a comment