Dovrei ricevere due messaggi, o due telefonate, in ogni caso non potrei rispondere perché l’appuntamento era per le 17,15 – 17,30 e sono le 17 e quindici e sono già nell’ufficio del cliente. Mi dovevano chiamare sia l’editore che l’agente ma non si sono fatti vivi e io sono sempre più serenamente convinto che non me ne frega più nulla di pubblicare un altro romanzo. Sono qui nell’ufficio del cliente in bermuda e infradito. Quando sono salito in macchina per partire ho pensato che sarebbe stato meglio che avessi quantomeno indossato le scarpe ma la mattina sono andato a scuola a parlare col direttore e le scarpe nuove mi hanno provocato due abrasioni dietro le caviglie. Ritengo sia una cosa che di solito succede ai turisti. Soprattutto a quelli giapponesi. Quando sono entrato in ufficio il padre del cliente era in piedi vicino al bancone della reception e mi ha guardato senza salutarmi e mi ha squadrato da capo a piedi soffermandosi sulle infradito, non ha fatto caso alla borsa nera che tengo nella destra e che contiene il computer. Probabilmente è abituato alle persone che entrano in ufficio portando borse. Mi giustifico spiegando che mi sono fatto male ai piedi, lui non dice niente ed esce. Ora sono solo nell’ufficio. Da una porta sul fondo entra un’impiegata che saluto e mi saluta e mi guarda i piedi e così le spiego che mi sono fatto male mentre lei mi chiede se ho appuntamento e io dico di sì. Così lei telefona e mi dice che il titolare arriva subito. Sono stanco. Ieri ho nuotato molto e ora fa caldo. Di solito quando fa caldo è meglio ridurre l’attività sportiva. Credo. In ogni caso ho nuotato pure stamattina, di meno e con minore foga ma ora sono davvero molto stanco. Poso la borsa su un divanetto di bambù sul quale non oso sedermi, in ufficio c’è molto silenzio e sedermi sul bambù potrebbe fare rumore, potrei scricchiolare. Pertanto sto in piedi e aspetto e mi giro a sinistra dove individuo una nicchia che contiene un quadro astratto che mi sorprende molto. È piccolo, quaranta per quaranta, massimo cinquanta per cinquanta e pare protetto come la Gioconda al Louvre. È nero e grigio polvere e il tratto nero è stato fatto con un pennello molto grande a formare una intricata matassa che pare riprodurre continuamente il simbolo dell’infinito e così penso sia un’opera concettuale e mi pare davvero strano che in questo ufficio tengano un dipinto di questo genere perché la volta scorsa il titolare si era mostrato perplesso per il logo nuovo che gli avevo proposto. Gli pareva troppo troppo… ardito ho detto io e lui ha detto sì. Così vedere quel quadro ora mi pare davvero strano perché non riesco più a collocare il mio cliente a nessun livello culturale. Teoricamente potrebbe essere semplicemente pazzo e so che gli affari gli vanno bene e quindi di questi tempi mi pare tutto perfettamente logico perché in tempi come questi solo ai pazzi gli affari vanno bene. Probabilmente non paga le tasse e evade l’Iva. E poi è strano che ad un’opera così costosa abbiano messo un vetro riflettente perché ora nel quadro spunta il braccio di una gru di cui sento il rumore alle mie spalle. Sicuramente una superficie trasparente antiriflesso avrebbe valorizzato maggiormente l’opera. In ogni caso il titolare arriva, mi saluta e mi guarda i piedi e così gli spiego la faccenda e lui si gira verso l’impiegata che gli dice che è arrivato un camion polacco da caricare e che suo fratello non c’è. Così il titolare si gira verso di me e mi dice che suo fratello non c’è e che tocca a lui caricare il camion polacco se posso aspettare mezz’ora. Poi guarda l’orologio e dice che però io alle 19 devo andare via e io confermo quello che gli avevo detto ieri al telefono quando abbiamo fissato l’appuntamento e pertanto concordiamo di vederci con maggiora calma venerdì intorno alle 15, che di venerdì non ci sono mai camion da caricare. Ribadiamo diverse volte che la cosa da fare è quella, che è meglio spostare l’appuntamento a venerdì e lui si scusa per avermi fatto andare lì inutilmente e poi concordiamo ancora per altri cinque minuti buoni che è meglio fissare un appuntamento che ci conceda più tempo per discutere di tutto venerdì alle quindici. Io dico che va bene e lui mi informa che ora i loghi da fare sono due e mi conferma che il sito va fatto e stiamo per salutarci e lui sta per andare a caricare il camion polacco quando io gli chiedo se mi dice di che artista è quel quadro e guardo alla mia sinistra. Quale quadro? mi chiede lui e io alzo il braccio, punto il dito e dico quello. Lui mi guarda stranito e mi dice che quella è la finestrella che dà sul capannone e solo in quel momento vedo il nero del cemento in ombra sullo sfondo del capannone e il tracciato della polvere tirata via malamente con uno straccio asciutto e capisco che la gru che ho visto stava transitando all’interno dell’edificio. Guardo il cliente imbarazzato e lui e l’impiegata per contro mi guardano imbarazzati. Per un secondo non so che dire e poi dico che devo smettere di andare alla biennale e lui mi chiede cos’è, ma si vede che ha fretta perché sa che il camionista polacco ha fretta e così gli dico che ci vediamo venerdì. Alle tre dice lui e io confermo e lui esce. L’impiegata fissa impassibile lo schermo del suo pc. Io le dico buonasera, lei mi dice buonasera e io apro la porta e esco. Fa molto caldo e dentro con l’aria condizionata accesa si stava molto meglio. Ma non vuol dire niente.
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