Una storia italiana, ma non solo \2

L’Unione Sovietica ha bisogno di importare grano e tecnologia dall’Occidente: il grano viene venduto a prezzo di favore dagli Stati Uniti e le banche occidentali sono felici di concedere alla potenza del socialismo mondiale crediti a lungo termine che vengono regolarmente ripagati. L’URSS infatti, fino alla sua fine, ha sempre avuto un eccellente record per quanto riguarda la restituzione dei debiti contratti con le banche, potendo contare su abbondanti riserve di valuta pregiata (dollari e sterline) che le derivano dall’esportazione di materie prime pregiate come petrolio e gas.

Come già detto, negli anni settanta tutte le grandi corporations stipulano contratti con l’Unione Sovietica per la vendita o la fornitura di tecnologia all’avanguardia, oppure per la realizzazione di impianti “chiavi in mano”, cioè completi di macchinari e attrezzatura. Nel 1974 il Congresso degli Stati Uniti approva il Trade Act, cioè una nuova legislazione sul commercio che concede al Presidente in carica una sorta di binario privilegiato per negoziare accordi commerciali che il Congresso può solo approvare e disapprovare, ma non emendare. All’epoca il presidente americano era il repubblicano Gerald Ford, che il 26 marzo 1976 saluta l’accordo per la realizzazione del complesso petrolchimico nel porto di Fiume da parte della Dow Chemical con un messaggio augurale nel quale auspica “un’ulteriore intensificazione dei rapporti di collaborazione economica tra Stati Uniti e Jugoslavia”. Il Washington Post scrive che l’iniziativa “è di fondamentale importanza nel trasferimento, passo per passo, della tecnologia statunitense in uno stato del socialismo”.

Tutta la tecnologia? No, perché in realtà non tutto è liberamente trasferibile nei paesi comunisti: mentre la lista delle aziende americane disposte a cooperare con le autorità sovietiche cresce giorno per giorno il trasferimento di tecnologia militare non decolla. I colossi del settore non sembrano intenzionati a sfidare i veti governativi che, per quanto riguarda il settore strategico degli armamenti, sono ancora molto rigidi.  Il clima della Distensione, però, ha favorito ormai l’apertura di canali per il trasferimento di questo tipo di tecnologia: è sufficiente solo trovare il modo per aggirare l’embargo istituito dal governo americano.

La soluzione si trova con l’aiuto di uno dei paesi che fanno parte del Movimento dei Paesi Non-Allineati, un raggruppamento di nazioni del Terzo Mondo che si sono appena scrollate di dosso il dominio coloniale. Grazie alla mediazione di Tito e della Jugoslavia (e del Partito Laburista britannico), l’India si dice disposta a far giungere le armi dall’Occidente all’Unione Sovietica e a far compiere agli armamenti il percorso inverso, cioè dalla patria del socialismo ai paesi dell’Africa e dell’Asia impegnati in guerre di liberazione o in guerre civili tout-court.

Grazie a questi canali informali e privilegiati, l’Unione Sovietica diventa il primo paese esportatore di armi al mondo e incassa così un’ulteriore quantità di valuta pregiata che potrà utilizzare per ripianare il deficit della bilancia dei pagamenti. Ancora nel 1987, alla vigilia della crollo del comunismo, l’URSS risulterà esportare più armi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia messi assieme. Nel 1974 vede la luce anche il Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, che alla fine degli anni ottanta darà vita agli Accordi di Basilea in materia di requisiti patrimoniali delle banche, la base per la riforma del commercio mondiale.

Ma la verità più amara, che alla fine della Guerra Fredda si ritorcerà contro la Jugoslavia, è che i paesi comunisti, per poter acquistare e vendere armi in giro per il mondo, hanno bisogno di affidarsi a mediatori d’affari che, ideologicamente, si trovano agli estremi opposti rispetto alla cultura politica del Movimento dei Paesi Non Allineati. Tanto è vero che negli anni settanta alcuni paesi, come l’Angola, verranno letteralmente fatti a pezzi da una sanguinosissima guerra civile. D’altra parte, senza i proventi derivanti dalla vendita di armi, né l’Unione Sovietica, né la Jugoslavia sarebbero in grado di pagare le forniture di tecnologia militare provenienti dall’Occidente. Quando il presidente Bush, nel quadriennio 1988-1992, rinegozierà gli accordi commerciali con un’Unione Sovietica i cui dirigenti sono ansiosi di approdare alle sponde del capitalismo, una delle condizioni imposte dal presidente americano sarà proprio che gli Stati Uniti riprendano in mano il traffico di armi mondiale: non a caso nel 1994 le statistiche sull’export di armamenti vedono il capovolgimento della situazione del 1987, con il crollo da parte della Russia e la leadership mondiale ormai saldamente in mano agli Stati Uniti. Il prezzo della riorganizzazione del mercato delle armi verrà fatto pagare, secondo un crudele contrappasso, ai popoli della ex Jugoslavia e del Rwanda. (continua)

 

Nella foto Gerald Ford, presidente americano dal 1974 al 1976

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Una storia italiana, ma non solo \1

Nel 1975 i ministri degli esteri di Italia e Jugoslavia, Mariano Rumor e Milos Minic, siglano il Trattato di Osimo che chiude definitivamente la partita degli indennizzi agli esuli dell’Istria e della Dalmazia, nel senso che nega definitivamente agli italiani la possibilità di rientrare in possesso dei beni a loro espropriati dal regime di Tito.

Per il leader jugoslavo il Trattato è un successo che gli spalanca le porte del capitalismo internazionale: siamo nell’epoca della Distensione e pochi mesi prima, in agosto, il Trattato di Helsinki aveva sancito l’inviolabilità delle conquiste territoriali fatte dall’Unione Sovietica durante la Seconda Guerra Mondiale nell’Europa dell’Est. I due trattati creano le condizioni perché le multinazionali di tutto il mondo, americane e non, possano investire nei paesi comunisti esportando così tecnologia all’avanguardia, che i sovietici non erano riusciti ad acquisire neppure attraverso il canale dello spionaggio: computer e relativi componenti ( processori, memorie, semiconduttori, periferiche etc…); elettrodomestici di ogni tipo tra cui videoregistratori di ultimo modello; macchinari e attrezzature per fabbriche di automezzi; sistemi radar e componentistica elettronica allora costosissima. Tutto ciò finisce per incrementare il livello delle conoscenze degli ingegneri russi e le capacità dei lavoratori che ottengono la possibilità di essere addestrati dai dipendenti delle aziende multinazionali.

Anche in Jugoslavia, che era un po’ la sorella minore dell’Unione Sovietica, nella seconda metà degli anni settanta tutti i principali gruppi europei e americani fanno la fila per investire. Grazie ad essi, Tito intende coronare il suo sogno di rendere Fiume il primo porto dell’Adriatico, espropriando Trieste del primato storico.

Infatti, il Trattato di Osimo contiene una clausola che stabilisce la creazione di una zona franca alle spalle del porto di Trieste, una grande area industriale che dovrebbe estendersi per un terzo in Italia e per due terzi in Slovenia, con la funzione di gestire il flusso di merci in entrata e in uscita dal porto di Trieste, compresa quindi l’eventuale lavorazione, oltre che lo stoccaggio. Questa zona, che non verrà mai realizzata, nelle intenzioni dei firmatari del Trattato doveva ospitare il nuovo tessuto industriale della città triestina: in pratica, Tito intende espropriare Trieste delle sue aziende per trasferirle in Slovenia, sfruttando la remissività del governo italiano di allora, che, almeno a giudicare dalla relazione al parlamento del ministro Rumor, sembra accondiscendere al progetto del leader jugoslavo.

I cittadini di Trieste, intuendo il pericolo, si ribellano all’accordo e danno il via a una raccolta di firme, che sancirà l’inizio di un braccio di ferro protrattosi fino all’inizio degli anni ottanta. Alla fine la zona franca rimarrà solo sulla carta, ma nel frattempo la comunità internazionale si fa in quattro per aiutare la Jugoslavia a colmare il deficit della bilancia dei pagamenti che risulta perennemente in rosso. Nel 1979, ad esempio, i ministri degli esteri della CEE riescono a far approvare dalla Banca Europea degli Investimenti un prestito di 220 miliardi di lire a favore del paese balcanico. La somma viene giudicata troppo modesta dai rappresentanti del governo italiano, che dichiarano di essersi battuti invano per ottenere un trattamento più generoso e si lamentano che alla fine abbia prevalso la linea del risparmio. Ormai si parla apertamente di far entrare la Jugoslavia nella CEE.

In effetti il prestito di 220 miliardi di lire è troppo esiguo. Ma per cosa? Troppo esiguo per pagare tutte le opere che le multinazionali stanno per realizzare nei pressi del porto di Fiume per renderlo in grado di reggere la concorrenza dei grandi porti internazionali: autostrade, ferrovie, oleodotti, impianti di trasporto e di stoccaggio delle merci, svincoli ferroviari e autostradali, raffinerie e gasdotti. Il progetto prevede che Fiume diventi il collegamento tra i porti del Centro Europa e i paesi del Terzo Mondo, con i quali Tito ha stabilito da tempo legami fortissimi, anche economici, oltre che politici: i cantieri navali di Fiume hanno costruito il 40% della flotta mercantile dell’India e la totalità di quella del Sudan.

La Dow Chemicals, colosso americano della chimica, costruisce nel porto istriano un intero impianto petrolchimico; la Citroen vi apre uno stabilimento per fabbricare auto; la Fiat, che ha già inaugurato uno stabilimento in Serbia, concede alla Jugoslavia la licenza di costruire motori per le navi su un proprio brevetto.

Tutta l’economia dell’Europa Centro-Orientale viene riorganizzata per soddisfare le esigenze e le ambizioni di Tito: le merci della Cecoslovacchia, che potrebbero raggiungere comodamente i porti sul Mar Baltico, vengono inviate a Fiume via treno. E a Fiume arriva anche il petrolio dalla Libia, che un oleodotto nuovo di zecca costruito dalle multinazionali del settore trasportano verso l’Europa Centrale, accentuandone la dipendenza dalla Jugoslavia.

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Prestiti scaduti

“Che cos’è una rapina in banca paragonata alla fondazione di una banca?”. Con questa citazione tratta da L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht inizia il lungo viaggio romanzato di Petros Markaris nella crisi economica e finanziaria che travaglia la Grecia di oggi.

Il viandante che Markaris sceglie per addentrarsi nell’Ade dell’Europa contemporanea è il commissario di polizia Kostas Charitos, che nelle prime pagine del romanzo è alle prese con un lieto evento della sua vita familiare: le  nozze della figlia Caterina. Tra i commenti sull’abito da sposa, i preparativi per la cerimonia, le note dell’orchestrina che suona e la commozione dei genitori emergono i primi commenti sulla traballante situazione economica del paese e fa capolino l’ansia  dovuta alle spese sostenute in vista del lieto evento. Non si sa ancora, infatti, se il commissario Charitos e i suoi colleghi, nell’anno in corso, potranno beneficiare di una tredicesima non decurtata, come è avvenuto negli anni precedenti.

Il giorno seguente, mentre Charitos è intento a distribuire bomboniere ai colleghi, i quali trasudano rancore verso la Merkel e verso l’Unione Europea, irrompe la notizia dell’omicidio di un banchiere, decapitato con una spada nel giardino di casa sua. Il banchiere aveva stretti legami con gli ambienti della finanza internazionale, pertanto il commissario, sollecitato dai suoi superiori perché giunga velocemente alla soluzione del caso, è costretto a immergersi anima e corpo nelle indagini.

Da qui in avanti la trama del libro sarà scandita dai contorcimenti e dalle convulsioni dell’infinita crisi greca: le manifestazioni di piazza contro il governo, gli scontri con la polizia, i racconti disperati di chi è stato rovinato dalla crisi e la preoccupazione di chi, nonostante i benefici ottenuti in passato, teme comunque di essere risucchiato nello strato sempre più ampio dei senza lavoro e senza prospettive.

L’ironia disincantata di Charitos coglie alla perfezione le contraddizioni causate dalle politiche economiche applicate dai passati governi: i finanziamenti concessi con generosità dagli organismi internazionali e accettati senza troppo riflettere, pur avendo favorito la modernizzazione del paese, hanno provocato nella popolazione, anche nelle fasce più istruite e professionalmente preparate, uno sbandamento morale e culturale frutto della rassegnazione di fronte a eventi che appaiono come impossibili da controllare e da gestire.

In alcuni passaggi del romanzo si ha veramente l’impressione che la Grecia di oggi sia un paese senza direzione e senza meta, una nave in balia delle onde, sballottata impietosamente dalle fluttuazioni della finanza internazionale e la cui classe dirigente, privata ormai della possibilità di riprendere il comando, pensa solo a mantenere inalterati i propri privilegi anche a costo di buttare a mare il resto dell’equipaggio, come se fosse un inutile peso morto.

In un caos dal sapore tipicamente mediterraneo, cioè non privo di una certa saggezza di fondo, si snoda l’indagine del commissario Charitos, mentre gli omicidi si susseguono, la rabbia contro le banche rischia di sfociare in rivolta aperta e i suoi colleghi della sezione Antiterrorismo cercano strenuamente di indirizzare i sospetti verso una presunta e fantomatica cellula di terroristi islamici.

Il grande merito del libro è che, alla fine, la soluzione del mistero, oltre a svelare il colpevole, fornirà un’interpretazione acuta e brillante della crisi greca e della disperata mediocrità del mondo di oggi.

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Armi, un affare di stato

Il libro, edito da Chiarelettere, parte in maniera promettente con un’analisi dettagliata dell’escalation delle spese militari avvenuta in Italia, in Europa, negli Stati Uniti e nell’intero pianeta durante l’ultimo ventennio. Gli autori portano a sostegno della loro tesi dati largamente attendibili che dimostrano come la riorganizzazione del settore militare nel mondo post-Guerra Fredda abbia assorbito ingenti risorse dei bilanci nazionali, sottraendole a settori importanti della vita civile, come i servizi sociali e l’educazione scolastica.

Peccato che poco o nessuno spazio venga dedicato alla disamina dei processi storici che hanno favorito la nascita e lo sviluppo di un gigantesco apparato militare negli Stati Uniti e in Europa, e di come questo apparato sovvenzionato da fondi pubblici sia stato in grado di sopravvivere alla fine del confronto con l’Unione Sovietica e di riprodursi in un’epoca nella quale la democrazia trionfante avrebbe dovuto procedere al suo smantellamento.
I tre autori, Duccio Facchini, Michele Fasso e Francesco Vignarca, si guardano bene dall’indagare le ragioni del persistere di questo perenne stato di vigilanza armata che ormai domina inesorabilmente i rapporti tra i paesi del mondo che dispongono di un patrimonio tecnologico all’avanguardia e le altre nazioni meno sviluppate sul piano economico, destinate spesso a fare da ricettacolo e da smaltimento della produzione bellica, con costi umani, politici e sociali smisurati.

Viene citato, con ragione, il caso dell’intero continente africano dove da decenni imperversano le guerre civili e nel quale, grazie al continuo rifornimento di armi provenienti dal nord del pianeta, gruppi di miliziani locali sono riusciti a imporre il proprio dominio su milioni di persone utilizzando una politica di sistematica violazione dei diritti umani. Esemplare è il caso del Darfur, la regione meridionale del Sudan ricca di petrolio i cui abitanti, che vorrebbero l’indipendenza, si trovano sottoposti da quindici anni alle incursioni di milizie armate appoggiate dal governo sudanese. Nel 2000 il conflitto, secondo cifre dell’Onu, aveva prodotto già 400.000 morti.

Anche l’Italia, nonostante sia, o debba essere, parte dei paesi più avanzati, e nonostante si trovi in perenne difficoltà finanziaria, investe quantità ingenti di denaro per la costruzione o l’acquisto di armamenti non solo inutili, ma il cui costo aumenta in corso d’opera senza alcun controllo: è il caso della portaerei Cavour, il cui costo di costruzione è lievitato in continuazione anche per effetto dell’assenso che il Parlamento italiano ha concesso al progetto prima ancora di avere tutti gli elementi a disposizione per valutarne la complessità e il costo definitivo. Oppure, ancora, del famigerato F-35, un progetto della Lockheed per la costruzione di un aereo in grado di trasportare ordigni nucleari, con un sistema di comando computerizzato interamente progettato dagli ingegneri americani e quindi accessibile solo a loro. Il che rappresenta anche uno smacco per la nostra sovranità militare, visto che il velivolo non potrà mai essere usato contro gli Stati Uniti, ma solo a fianco di essi.

Oltre all’esauriente descrizione delle attività del gruppo Finmeccanica in paesi dal pedigree democratico molto scarso quali Libia, Siria o Egitto; oltre alla trattazione delle tecniche utilizzate dai trafficanti per eludere i controlli delle dogane e della corruzione che regna nel sistema degli appalti internazionali, nel quale è impossibile muoversi per qualsiasi azienda senza pagare mazzette a qualche alto esponente militare, va segnalato il capitolo che descrive la commistione tra politica e mercato delle armi, con particolare riferimento al ruolo ambiguo dei vertici militari, molti dei quali, una volta andati in pensione, vengono arruolati come consulenti dalle stesse aziende produttrici di armamenti.

Tutto ciò è molto interessante e merita di essere letto, anche se sconcerta la quasi totale assenza di riferimenti al ruolo svolto dai grandi fondi di investimento pubblici, come quello norvegese, nella riorganizzazione dell’intera filiera delle armi. Stupisce anche come, nella descrizione dei sanguinosi conflitti scatenati dall’avidità rapace dell’industria degli armamenti e delle banche che la sovvenzionano, non compaia quello avvenuto nella ex-Jugoslavia, che ha fatto da ponte tra il mondo dei vecchi e possenti apparati militari usciti dalla seconda guerra mondiale e quello attuale, dominato da organizzazioni altamente specializzate, molto più flessibili e dinamiche.

Ma quello che stupisce è soprattutto il finale: dopo aver letto una vagonata di dati e di cifre agghiaccianti riguardo ai costi umani della moderna produzione bellica e all’enormità delle somme sottratte alla collettività, il lettore si aspetta dagli autori un’invocazione furente e sdegnata in favore dello smantellamento dell’industria militare, o quantomeno del taglio di un buon 50% dei finanziamenti pubblici ad essa destinati.

Invece il saggio si conclude con la sommessa richiesta di una misera riduzione del 5% delle spese militari al fine di “liberare risorse preziose per la collettività senza penalizzare troppo i produttori di armi”: la preoccupazione di non danneggiare le aziende produttrici di armi, dopo tutto quanto hanno scritto i tre autori nel corso del libro, lascia veramente sconcertati ed è la chiara dimostrazione, a mio avviso, di quanto il “business della morte” si sia radicato in profondità nella nostra economia e nella nostra società, e di come sia difficile parlarne in maniera esauriente e completa, al di là delle buone intenzioni.

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I diritti umani nella seconda repubblica

Qualche settimana fa, il 10 ottobre, il Presidente della Serbia, Tomislav Nikolić, in carica solo da pochi mesi, è stato ricevuto al Quirinale dal suo omologo e nostro Presidente Giorgio Napolitano. Un servizio trasmesso dal Tg2 sull’incontro mostrava Nikolić affermare energicamente che “a Srebrenica non è avvenuto alcun genocidio” e Giorgio Napolitano, invece di zittirlo, si affannava invece a sottolineare con entusiasmo gli ottimi rapporti di amicizia esistenti tra Italia e Serbia. Il Presidente serbo rincarava la dose ironizzando su quegli italiani (cioé quasi tutti) che hanno contestato la decisione di Marchionne di portare gli stabilimenti in Serbia dopo aver preso vagonate di soldi dal governo italiano: se questo avviene è perché la Fiat trova nel nostro paese condizioni migliori per investire, ha spiegato Nikolić. Se le avesse trovate in Italia, avrebbe mantenuto gli stabilimenti in Italia (per inciso Nikolić la scorsa primavera ha presenziato a Ginevra all’inaugurazione della nuova Cinquecento, dietro invito di Marchionne).

Il servizio del Tg2 a questo punto mostrava agli esterrefatti ascoltatori, almeno io lo ero, un sempre più entusiasta Giorgio Napolitano auspicare caldamente l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea, entità che ha appena ricevuto il Nobel per la Pace dai petrolieri e dagli armatori norvegesi.

Per quanto riguarda le condizioni di lavoro degli operai serbi che lavorano negli stabilimenti Fiat vi rimando a quest’articolo apparso sul giornale di Marco Travaglio. Per quanto riguarda invece l’incontro tra Napolitano e Nikolić, oltre alla pagina ufficiale del sito web del Quirinale con il video di parte della conferenza stampa, i principali quotidiani e agenzie di stampa online hanno riportato solo resoconti piuttosto stringati, nei quali sono state ignorate del tutto le dichiarazioni del Presidente serbo sull’eccidio di Srebrenica.

L’impressione, molto inquietante, è che in questo paese esista una volontà omertosa, da parte di tutti i mezzi di informazione, di coprire le malefatte del Presidente della Repubblica, perché ormai esiste la consapevolezza che di quelle malefatte, negli anni novanta del secolo scorso, sono stati corresponsabili un numero altissimo di politici italiani, di destra e di sinistra, impegnati a riciclarsi o a rimanere a galla dopo il naufragio del comunismo e la riorganizzazione generale che ne è seguita. Oltretutto, Giorgio Napolitano è un politico scafatissimo ed è probabile che la sua strategia di dare un colpo al cerchio e uno alla botte gli abbia accattivato le simpatie di una schiera molto ampia di “stakeholders”.

Ho spiegato, in altri articoli, per quale motivo il capitalismo internazionale voleva la distruzione della Jugoslavia, dopo averla sovvenzionata e nutrita per tutta la Guerra Fredda: quella guerra civile, tra le altre cose, ha dato la possibilità a molte aziende pubbliche, tra cui la nostra Finmeccanica, di ristrutturarsi investendo nella produzione di armamenti ad alto livello tecnologico.

Nel 2007 la Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu ha prosciolto la Serbia dall’accusa di complicità nel genocidio avvenuto in Bosnia-Erzegovina dal 1992 al 1995, compresi gli eccidi di Srebrenica. Secondo il magistrato Carla Del Ponte, che è stato Procuratore Capo nel tribunale istituito dall’Onu per giudicare i crimini di guerra nella ex Jugoslavia, esistono centinaia di documenti, da lei visionati personalmente, che provano chiaramente il ruolo giocato dalla Serbia nella guerra in Bosnia: si tratta, in gran parte, di verbali di riunioni tra leader politici e militari jugoslavi in tempo di guerra, il Consiglio Supremo di Difesa.

Secondo il magistrato svizzero, i verbali del Consiglio Supremo di Difesa forniscono la prova inconfutabile che la Serbia ha diretto lo sforzo bellico delle truppe serbe in Bosnia-Herzegovina, spiegando fin nel dettaglio in che modo Belgrado finanziava e alimentava i serbi di Bosnia. I documenti dimostrano che le forze serbe hanno contribuito alla presa di Srebrenica e al massacro dei suoi abitanti. Esiste persino un video, disponibile su YouTube, che mostra i membri di un’unità paramilitare nota come gli Scorpioni, affiliata al ministero degli Interni serbo, mentre conducono sei giovani prigionieri su un’altura e li ammazzano due alla volta, sparandogli nella schiena. Il video è stato incluso anche nel documentario di Roberta Biagiarelli, “Souvenir Srebrenica”, ed è stato proiettato nell’aula del Tribunale durante il processo a Milosevic.

La Serbia ha ottenuto dal Tribunale per la Jugoslavia che le sezioni più critiche di tali documenti venissero tenute segrete all’opinione pubblica, ma i giudici della Corte Internazionale avrebbero potuto prenderne visione ugualmente, se avessero voluto. Gli avvocati che presentavano il caso della Bosnia avevano chiesto alla Corte di imporre alla Serbia la consegna di una versione incensurata dei documenti, ma i giudici si sono rifiutati di farlo affermando che avevano già a disposizione “prove abbondanti”.

La decisione di assolvere la Serbia, secondo Carla Del Ponte, è stata ispirata dalla volontà politica dell’allora amministrazione Bush di far entrare il paese balcanico nella Partnership for Peace, un programma di cooperazione militare fra gli stati europei che prelude all’ingresso nella NATO.

La benevolenza con la quale gli organismi internazionali hanno trattato la Serbia negli ultimi anni lascia sconcertati: secondo Osservatorio Balcani e Caucaso, dal 2000 al 2011 l’UE ha donato al paese del Presidente Nikolić oltre 4 miliardi di euro, prima davanti alla Germania con 700 milioni e agli USA con oltre 500 milioni. Per non parlare poi delle grandi aziende: a parte la Fiat di Marchionne, la U.S. Steel, colosso americano dell’acciaio con sede a Pittsburgh, nel 2003 comprò lo stabilimento di Smederevo e vi investì milioni di dollari per dare lavoro a 5.500 operai e trasformarlo nel maggiore esportatore del paese balcanico. Nel 2010 l’impianto incideva per circa il 10% sulle esportazioni serbe, con vendite all’estero per 27 milioni di euro, prima che la crisi economica costringesse gli americani a svenderlo al governo serbo per la cifra simbolica di un dollaro.

Visto tutto ciò, l’entusiasmo dimostrato da Napolitano per la visita di Nikolić mi lascia in balia del tetro presagio che il nostro paese stia per essere investito da una valanga di fango e di merda che farà impallidire il ricordo di Tangentopoli.

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Gli assassini di Cristo – Ivo Tiberio Ginevra

Nell’immaginario comune di Scrafani, in Sicilia, accade che un gruppo di folli facciano irruzione nelle chiese e distruggano a colpi di mazza statue e simboli sacri.

Le indagini vengono affidate a due esponenti del locale commissariato, il commissario Mario Falzone e il vice-questore Pietro Bertolazzi, entrambi appena raggiunti da un ordine di trasferimento verso sedi remote a causa di dissapori e dissidi con i propri superiori. I due si gettano a capofitto nell’indagine nella speranza che la felice soluzione del caso possa attirar loro le simpatie dei vertici ecclesiastici e evitare così l’ingrato trasferimento lontano da Scrafani.

Uno dei due in particolare, il commissario Falzone, vive una situazione personale resa problematica dal recente divorzio, aggravata dalla difficoltà a versare alla moglie regolarmente  gli alimenti e dalla conseguente rappresaglia da parte di lei, che consiste nel rendere difficoltosi i rapporti dell’ex marito con i figli.

L’autore, Ivo Tiberio Ginevra, è un esperto ornitologo che nel tempo libero coltiva la passione dei romanzi gialli. Tra l’altro, una delle peculiarità de “Gli assassini di Cristo” è proprio quella di derivare i nomi dei luoghi e dei protagonisti dal mondo degli uccelli. In fondo al libro l’autore ha aggiunto un piccolo dizionario che spiega l’origine dei nomi utilizzati, con tanto di etimologia ornitologica.

“Gli assassini di Cristo” è un thriller molto particolare, dall’andatura lenta e intensa allo stesso tempo, dovuta al rapporto serrato e nevrastenico che intercorre tra i due protagonisti, entrambi impegnati in una corsa contro il tempo per evitare il trasferimento. Le vicende personali di Mario Falzone e Pietro Bertolazzi, però, non prendono mai il sopravvento sulla trama del romanzo: la ricerca della verità e la tensione investigativa rimangono sempre a dettare ritmi e tempi della narrazione. L’ironia, le battute amare e gli scherzi da caserma tra i due colleghi non oscurano mai il senso principale della loro azione che è quello di trovare la verità, obiettivo che, nonostante alcuni momenti di surrealismo tipicamente pirandelliano, rimane comunque al centro dei loro pensieri come qualcosa di precisamente individuabile e definibile: la possibilità di una lotta vittoriosa contro l’ingiusto da parte del giusto è sempre al centro delle motivazioni del commissario Falzone, che non a caso rifiuta più volta l’offerta di aiuto da parte di un amico primario per evitare il tanto temuto trasferimento, fiducioso com’è nel trionfo finale della sua opera.

Conciliare il ritmo di dialoghi brillanti e densi d’ironia con la tensione narrativa è un’operazione non banale, nella quale alcuni autori, anche molto celebrati, finiscono spesso per perdersi, provocando una sfilacciatura del racconto che porta il lettore a perdere di vista la ragione principale delle azioni dei protagonisti e a sprofondare, di conseguenza, in una sensazione di irritante noia. Ivo Tiberio Ginevra, al contrario, riesce a rappresentare i sentimenti personali dei due poliziotti del commissariato di Scrafani senza mai scadere nel trito e nel banale.

“Gli assassini di Cristo” è un romanzo ben costruito, con una trama avvincente e una soluzione finale non scontata, anche se, per essere compreso e apprezzato fino in fondo, vista la complessità dei temi trattati, richiede, a mio avviso, una seconda lettura.

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Come sopravvivere al lavoro ed essere felici

Ho pescato per caso questo libro in un autogrill, diretto verso un fine settimana di relax in riva al mare, sperando di garantirmi alcune ore di piacevole lettura sdraiato sotto l’ombrellone. Ho dovuto constatare, con sorpresa, che “101 modi per liberarti dagli stronzi e trovare soddisfazione sul lavoro” non è solamente piacevole, ma tratta in maniera approfondita ed esauriente le difficoltà che insorgono in un ambiente lavorativo a intrattenere rapporti umani, ogniqualvolta si affaccia all’orizzonte qualcuno che ha la ferma intenzione di avvelenarli con il proprio comportamento di stampo teppistico.

Luca Stanchieri è uno psicologo che svolge da vent’anni attività di consulente e formatore verso aziende e organizzazioni in generale, sia del settore pubblico che di quello privato. In questo volume, edito da Newton Compton, ha raccolto 101 casi di disagio lavorativo tratti dalla sua esperienza personale, maturata a contatto con un’ampia gamma di professioni (dai medici agli insegnanti, dagli agenti di commercio agli informatici, dagli imprenditori agli infermieri, fino ai telefonisti, ai consulenti della formazione e persino ai disoccupati) e di ambienti di lavoro (ospedali, scuole, aeroporti, beauty farm, agenzie immobiliari etc…).

Il filo conduttore dei casi narrati è come fare fronte al deterioramento dei rapporti umani quando siamo costretti a convivere per diverse ore al giorno con persone che non abbiamo scelto: “Il capo stronzo rende la vita impossibile, il cliente stronzo ti rovina la giornata, il collega stronzo ti irrita;[...] Supponenza, diffidenza, controllo, aggressività, invasività, presunzione, arroganza e, perché no, idiozia: la stronzaggine è un fenomeno relazionale che sembra avere il proprio luogo di elezione nel posto di lavoro. Questo libro si pone l’obiettivo di riconoscere e riassumere gli atteggiamenti e i comportamenti tipici di questa categoria e offrire mezzi di tutela e difesa.”

Un manuale di autodifesa da coloro che tentano di avvelenarci la vita mentre svolgiamo l’attività essenziale per vivere, introducendo stress, tensione e aggressività al solo scopo di rompere l’armonia delle relazioni, rendendo immensamente frustrante lo svolgimento delle mansioni che ci consentono di guadagnarci il necessario.

Lo Stronzo Infinito, o SI, si può annidare ovunque: può essere un collega, un manager o un consulente esterno, oppure qualcuno capace di proporsi in maniera accattivante per conquistare la nostra simpatia e la nostra fiducia, ma con l’intenzione, sempre e comunque, di “intervenire nelle relazioni sociali in modo da creare profondo malessere e insoddisfazione alle proprie vittime.”  Spesso riuscendoci, purtroppo, perché il lavoratore coscienzioso che pensa solo a svolgere al meglio il proprio lavoro per trarne la maggior soddisfazione possibile, oltre che lo stipendio, una volta che viene “toccato” dalla bacchetta magica (in senso inverso) dell’SI finisce inevitabilmente per cadere nella sua spirale di negatività, guastandosi così l’esistenza.

Ci sono naturalmente alcuni accorgimenti per evitare le trappole tese da coloro che spesso riversano nell’ambiente di lavoro il bagaglio di fallimenti e delusioni della propria vita privata, la cui personalità è segnata spesso da carenze sul piano psicologico e affettivo. Il libro ne è pieno e anche se parecchi di questi accorgimenti sembrano solo dettati dal buon senso (tentare di dare un senso positivo alle attività che si svolgono, coalizzarsi con gli altri colleghi per fare fronte al “nemico” comune etc…) chi ha sperimentato il disagio generato da un SI sa bene quanto sia difficile applicarli e quanta fatica costi sottrarsi allo stress indotto da questo genere di persone, che ci costringono a sottrarre energie che dedicheremmo volentieri al lavoro e alla vita organizzativa.

L’importante è non farsi prendere dal pessimismo, cercare di cogliere comunque le opportunità che ci si presentano e non cedere alla tentazione di scontrarci apertamente con l’SI di turno, perché anche mandandolo a quel paese come si merita finiremmo per liberare una carica di energia negativa che si spanderà per tutto l’ambiente, peggiorando la situazione (in certi casi è comunque inevitabile farlo).

Il lavoro è una necessità e svolgerlo al meglio può comportare delle gratificazioni molto piacevoli, purché ci si sforzi di mantenerlo inquadrato in un contesto nel quale esso rappresenta solo una delle componenti che contribuiscono alla nostra felicità generale. Ciò che non si deve fare è trasformarlo in una sorta di religione, nella quale gli adepti sono dei fanatici aspiranti al martirio che rinunciano alla propria vita privata non perché siano più bravi e volenterosi degli altri ma perché, semplicemente, sono incapaci di coltivare affetti, passioni e rispetto per se stessi. Chi rinuncia alla propria vita per il lavoro lo fa solo perché la vita privata è troppo avara di soddisfazioni per dedicarvisi e tenta di affogare l’infelicità annullandosi nello stress lavorativo.

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La gatteria di piazza delle erbe

Nell’Antico Egitto i gatti erano considerati animali sacri, con proprietà e caratteristiche che li  rendevano del tutto simili alle divinità mitologiche. Se ne veniva ucciso uno, anche accidentalmente, il responsabile doveva essere punito con la morte. In caso di incendio, il gatto doveva essere messo in salvo prima di ogni membro della famiglia e degli oggetti che si trovavano nella casa. Quando un gatto moriva, per le persone ad esso legate cominciava un lungo periodo di lutto e siccome gli Egizi credevano che anche per i felini esistesse l’aldilà, li mummificavano e li seppellivano con tanto di funerale, assieme al cibo necessario a sopravvivere alla traversata verso il mondo dei morti.

Per gli antichi Egizi il gatto era associato, tra l’altro, al culto di Iside, la dea che aveva il proprio regno nella notte, che è il tempo del riposo per gli esseri umani e dell’azione per gli animali, quando la natura si anima di presenze e di movimenti misteriosi e segreti, legati al culto della fertilità e della dea madre. Con l’avvento del cristianesimo, però, le cose cambiarono: i culti pagani vennero cancellati o addirittura estirpati, nei casi in cui non fu possibile assimilarli. Molti antichi dei divennero demoni, creature maligne da combattere, Iside per prima. E il gatto nero, suo tradizionale alleato notturno, seguì lo stesso destino, diventando nell’immaginario popolare un essere maligno e pericoloso, addirittura menagramo, fino a essere bruciato assieme alle streghe, nel Medio Evo.

Beatrice Nefertiti, lo si intuisce anche dal nome d’arte, condivide per i gatti la stessa passione spinta fino all’adorazione sacrale che era propria degli Antichi Egizi. Per esaltare le qualità dei felini ha scritto un libro di racconti intitolato “La gatteria di Piazza delle Erbe”, edito da Anguana Edizioni, che narra le vicende di due comunità di gatti: un gruppo di “regolari”, cioè risiedenti presso famiglie, che si ritrovano però nella piazza, all’ombra dei tigli o sotto i banchi del mercato di frutta e verdura, e un secondo gruppo di randagi che hanno eletto a loro rifugio un giardino chiuso al pubblico nei pressi del palazzo della Prefettura. Tra tutti i felini, di varia indole, lignaggio e provenienza, spicca Merlino, il gatto samurai, che un giorno fa la conoscenza di una signora triste e dimessa, sposata ad un marito altrettanto triste e dimesso. Incuriosito dalla pietosa condizione dei due umani, Merlino cerca di capire che cosa li abbia ridotti in quella condizione e sente così pronunciare per la prima volta la parola “lavoro”. Così una mattina Merlino segue la poveretta e scopre il luogo nel quale trascorre le sue giornate: un palazzo dove “nei secoli, tante persone sono state prigioniere, hanno subito torture, sono morte”. Insomma un luogo di pena e di dolore per la nostra sventurata che viene vessata in continuazione dai suoi superiori che la vogliono costringere ad andarsene, cosa che lei non può fare perché le hanno spostato a tradimento in avanti l’età della pensione e se molla quel lavoro, muore di fame. Il gatto samurai parla della triste sorte della loro amica agli altri gatti e tutti insieme decidono di aiutarla, ordendo raffinate trame per punire i suoi aguzzini. Ne nascono una serie di avventure rocambolesche nel corso delle quali i generosi gatti di Piazza delle Erbe riescono a infliggere una serie di clamorosi rovesci agli umani che lavorano nel “palazzaccio”, liberando finalmente la loro amica umana dall’oppressione e dandole così soddisfazione delle tante umiliazioni subite.

La Gatteria di Piazza delle Erbe è un’opera tenera e dolce, piena di ironia e di affetto per il mondo dei felini, un mondo trattato a volte con disprezzo da esseri umani che hanno perso il senso e la considerazione per i valori fondamentali dell’esistenza, afflitti e ingrigiti come sono da una realtà lavorativa piatta e disumanizzante, nella quale credono di trovare la loro realizzazione e che, al contrario, finisce solo per spossessarli dei loro istinti vitali. Così, a volte è bello chiudere gli occhi e credere di esser parte di una comunità di gatti che crede ancora nella fiducia e nell’affetto per gli altri, con la convinzione che insieme si possa affrontare qualsiasi pericolo, superare ogni ostacolo e che sia possibile condividere sentimenti di fratellanza e di solidarietà senza timore di essere traditi o pugnalati alle spalle.

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Let me please introduce myself \5

A partire dal 1870 alcuni economisti tedeschi sostengono l’idea di creare un’unione doganale tra i paesi europei, che consentirebbe alla Germania di assicurarsi un regolare approvvigionamento di materie prime e, nello stesso tempo, garantirebbe alle aziende tedesche gli sbocchi commerciali ai propri prodotti industriali, prodotti che un mercato nazionale troppo ristretto non è in grado di assorbire. Una tale unione, raggruppante gli Stati dell’Europa centrale e dei Balcani, dovrebbe avere un peso politico ed economico sufficiente a far fronte alla competizione delle grandi potenze come gli Stati Uniti, la Russia e l’Impero Britannico. Il progetto raccoglie il consenso di tutta la borghesia europea, in particolare di quella francese, che appoggia fin da subito il piano del cancelliere Bismarck di unificare la Germania sfruttando la potenza militare della Prussia. Un processo di unificazione di questo tipo, completamente verticistico e militarizzato, imprimerà alla vita politica ed economica tedesca un’impronta autoritaria che non sarà più possibile correggere fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Consapevole di ciò, la borghesia francese intende facilitare la costruzione dell’egemonia tedesca sul continente europeo concedendo, mediante la sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1870, la regione dell’Alsazia Lorena, i cui giacimenti minerari saranno alla base dell’imponente espansione produttiva della neonata nazione tedesca. “La libertà nell’ordine”, motto fondante della Terza Repubblica, indica l’intenzione di tenere alla larga i movimenti radicali di stampo giacobino come la Comune di Parigi per non spaventare la componente moderata della popolazione francese, in particolare i cattolici. Il massacro dei comunardi, fucilati a migliaia a colpi di mitragliatrice, suggella con un bagno di sangue la nascita della Terza Repubblica e, con essa, segna l’inizio del processo di costruzione dell’unità economica d’Europa.
Gli industriali tedeschi vogliono estendere il loro campo d’azione al mondo intero, ma sono consapevoli del fatto che l’espansione fuori dal continente è impossibile senza prima avere realizzato una solida egemonia in Europa. Per questo motivo, da oltre centocinquant’anni, la Germania si batte per rimuovere, nei paesi confinanti, ogni possibile ostacolo alla propria penetrazione economica, eliminando vincoli, regole e diritti con l’obiettivo di creare un grande spazio aperto alla diffusione dei propri prodotti.
Se la guerra franco-prussiana del 1870 costituisce la prima fase dell’organizzazione dell’economia europea attorno al potenziale produttivo della Germania, le guerre di aggressione di Hitler ne rappresentano il definitivo consolidamento, grazie all’assorbimento delle principali industrie del continente da parte delle grandi aziende tedesche e alla promozione, nei posti chiave dell’industria, dei trasporti e della pubblica amministrazione, di uomini graditi al Terzo Reich. Inutile dire che tale riorganizzazione mirante a subordinare gerarchicamente le industrie del continente all’economia tedesca è ben vista dalla borghesia francese, inglese e belga: da qui nascono i favoritismi che fanno apparire l’avanzata di Hitler inarrestabile, come il trasferimento delle riserve auree della Cecoslovacchia alla Germania da parte dell’allora direttore della Banca d’Inghilterra, Norman Montagu.
Il terzo atto di questo processo, quello dell’euro, ha comportato la creazione di un grande spazio finanziario europeo, nel quale i capitali possono muoversi liberamente da un paese all’altro cercando gli investimenti più veloci e redditizi a scapito della qualità della vita dei lavoratori e dei loro diritti.
Ognuno dei tre passaggi ha avuto come necessaria premessa il sanguinoso annientamento di masse inermi di persone per potersi realizzare: i militanti della Comune di Parigi nel 1871, i quaranta milioni di morti conseguenza delle guerre di Hitler nel corso della Seconda Guerra Mondiale e infine, gli orrori della guerra civile nella ex-Jugoslavia, corollario indispensabile alla costruzione di uno spazio finanziario europeo libero dalle ingerenze degli stati nazionali.
In ognuno di questi tre momenti, in particolare negli ultimi due, troviamo grandi masse di persone trattate come sterco al fine di trasformarne il dolore e la sofferenza in quantità di denaro da spendere liberamente nei circuiti dell’economia internazionale. L’equivalenza tra sterco, denaro ed esseri umani è la vera eredità che l’economia europea e mondiale ci hanno lasciato a furia di riorganizzazioni e assestamenti, a partire dalla guerra franco-prussiana del 1870 e per tutto il XX secolo:  la consapevolezza, cioè, che in determinate condizioni, la vita umana possa valere quanto la spazzatura e possa essere trattata come tale, perché qualcuno possa trarne il massimo profitto possibile. ( fine )

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Let me please introduce myself \4

Gli stabilimenti delle aziende tedesche nella Germania occupata dall’Armata Rossa vennero confiscati e nazionalizzati. La divisione delle due Germanie contribuì al relativo indebolimento del potenziale produttivo tedesco e favorì il tentativo, da parte dei governi vincitori della guerra, di metterne sotto controllo politico la produzione industriale. Naturalmente, tale controllo era possibile solamente attraverso una coalizione che mettesse insieme tutti i paesi vincitori, a prescindere dal reale contenuto politico dei loro regimi. Era la cosiddetta “coalizione antifascista” la quale, per oltre quaranta anni, cercò di controbilanciare il potere del capitalismo industriale e finanziario che aveva sostenuto il Nazionalsocialismo facendo leva sul fatto che ora una grossa fetta delle materie prime necessarie alla produzione e allo sviluppo economico dell’Occidente proveniva da paesi nei quali era lo Stato, e quindi il Partito Comunista, a detenerne il controllo. Questo vale sia per l’Unione Sovietica che per la stragrande maggioranza dei paesi del Terzo Mondo che, nel giro di pochi anni, si scrolleranno di dosso il dominio delle potenze coloniali e diverranno indipendenti.
L’occupazione tedesca, però, non aveva favorito solo la concentrazione delle aziende nei settori chimico-farmaceutico e siderurgico, ma aveva anche promosso nei posti chiave della pubblica amministrazione dei paesi occupati uomini graditi al regime nazista. Molto spesso si trattava di persone non iscritte al partito, o comunque non impegnate in politica, ma con una visione del mondo strettamente affine a quella promossa dai gerarchi del Terzo Reich. In alcuni post precedenti ho fatto riferimento a Kare Kristiansen, che negli anni ottanta, dal 1983 al 1986 per la precisione, ricoprì la carica di Ministro del Petrolio in Norvegia. Kristiansen era un cristiano conservatore, affiliato alla Chiesa Luterana Norvegese, che iniziò la sua carriera lavorativa nelle Ferrovie di Stato giusto un paio di mesi dopo che le truppe tedesche avevano occupato il paese. Come lui, tanti altri hanno fatto ingresso nei settori chiave dei trasporti, dell’industria, delle banche e della pubblica amministrazione proprio negli anni in cui l’Europa era sotto il dominio nazista. Una volta terminata la guerra questi uomini sono rimasti ai loro posti, sfuggendo a qualsiasi tipo di epurazione e, lentamente, hanno salito tutta la scala gerarchica fino ad arrivare, negli anni ottanta del secolo scorso, ai vertici dei loro settori di appartenenza. Questi personaggi sono stati i grandi protagonisti della svolta antisindacale promossa da Reagan e dalla Thatcher negli anni ottanta e in seguito, una volta crollato il comunismo in Russia e negli altri paesi dell’Europa dell’Est, hanno preso in mano le redini della riorganizzazione dell’economia internazionale, con la decisa intenzione di punire i paesi che per oltre quarant’anni avevano tenuto in scacco l’Occidente cristiano.
Sono sicuro, ad esempio, che i funzionari della Banca per la Ricostruzione Internazionale che nel 1988 definirono i criteri degli accordi di Basilea, furono gli stessi che, entrati da giovani nell’istituto, si erano adoperati assieme all’allora governatore della Banca d’Inghilterra, Norman Montagu, e al presidente della Banca Centrale tedesca, Hjialmar Schacht, per riciclare il denaro depredato agli ebrei e alle popolazioni civili dei paesi conquistati, trasferendo sui conti correnti della Reichsbank le riserve auree della Cecoslovacchia.
Gli accordi di Basilea, come è noto, stabilirono criteri più restrittivi riguardo ai requisiti patrimoniali delle banche che intendevano operare sui mercati internazionali, imponendo di accantonare almeno l’8 per cento del capitale prestato, non investibile in nessun altra attività di qualsiasi tipo, al fine di garantire “solidità e fiducia nel sistema creditizio”.
Questa decisione costituì una sentenza di morte per quei paesi, come la ex-Jugoslavia, che negli anni della Guerra Fredda avevano fortemente beneficiato dei prestiti concessi con generosità dalle banche tedesche e italiane grazie al ruolo politico svolto dal proprio governo, ma che ora non avevano alcuna possibilità di diminuire la propria massa debitoria se non concorrendo, con una cruenta guerra civile, alla riorganizzazione su scala mondiale delle aziende produttrici di armi, nelle quali proprio in quegli anni il Fondo Petrolifero Norvegese investì in maniera massiccia. Tutte le banche che si erano impegnate, per motivi politici, a prestare denaro al paese balcanico furono costrette, per rispettare le nuove regole imposte dalla BIS, a far rientrare i capitali prestati, pena l’esclusione dai mercati internazionali. Così, visto che la Jugoslavia non possedeva materie prime e la sua economia non sarebbe mai stata in grado di produrre beni a sufficienza per restituire le somme avute a prestito, il ruolo che le fu assegnato dalla comunità d’affari internazionale, erede del nazionalsocialismo, fu quello di fungere da agnello sacrificale per la costruzione della nuova Europa. (continua)

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