L’orrore del vuoto in mostra a Cattolica

800x600-copertina libroPer fortuna ci sono ancora persone che non si rassegnano all’idea che la cultura debba limitarsi a ripetere all’infinito contenuti già logori senza inventare nulla di nuovo. Queste persone, pur non avendo rapporti con prestigiose case editrici e senza comparire nei talk show televisivi, sono convinte che sia possibile esprimere concetti letterari ricchi di attualità, al fine di fornire al pubblico gli elementi necessari per interpretare la realtà presente.
Giuseppe Vanni è uno di questi: insegnante appassionato di poesia, da alcuni anni espone una mostra itinerante per parole e immagini intitolata “Horror Vacui – La grande crisi” dal titolo di una raccolta di poesie da lui stesso composta e ora disponibile anche in formato e-book.

I temi trattati sono quanto di più attuale si possa immaginare: dallo strapotere della finanza, che ha asservito la politica e prodotto l’impoverimento culturale della nostra società, al precariato lavorativo, causa principale della mancanza di stabilità emotiva e psicologica per tante persone, fino alla sterilità dei rapporti umani, segnati, anche nella vita privata, da una preoccupante condizione di incomunicabilità. Tutto ciò come conseguenza di un ordine tecnocratico sempre più piatto e alienante, nel quale solo la razionalità scientifica, da sempre al servizio dell’utile, sembra meritare il benevolo assenso delle elites al potere, mentre il sapere umanistico, al contrario, riesce a sopravvivere solo se accetta di essere declassato a puro ornamento, visto che lo sviluppo delle capacità critiche dell’individuo non viene ritenuta un’attività capace di produrre plus-valore.

Fornire una nuova interpretazione, un nuovo sguardo d’insieme sulle cose, può produrre una visione del mondo innovativa, in grado di fecondare un orizzonte di cambiamento. Per adesso, però, predomina la disillusione e la fatica, sia di comunicare che di farsi ascoltare: ne sono testimonianza “Transizione”, “Stabilità”, la criptica “Afasia”, “Allucinazione” e “Contagio”, che manifestano l’amara impressione di essere stati espropriati del bene della democrazia per essere gettati in una dimensione scialba e insignificante, nella quale le poche voci che si ergono per spezzare la monotonia del quotidiano vengono messe a tacere dagli ingranaggi di una tecnocrazia impietosa. Conta solo mantenere le condizioni di stabilità necessarie a garantire gli investimenti delle multinazionali e delle grandi banche, tutto il resto viene messo da parte, complice attiva un’umanità che sembra incapace di fare i conti con i dilemmi e le angosce dell’esistenza, presa com’è dal perseguimento del mero interesse economico o dalle preoccupazioni concrete della vita quotidiana.

vanni

“Un lungo esilio vissuto in assenza di ragione” recitano i versi di “Default; “Delocalizzazione” è una denuncia dell’economia globalizzata che, portando lo sfruttamento dell’uomo alle estreme conseguenze, ha reso precaria persino la schiavitù; “Dipendenza” esplicita il topos dell’assenza, percepita come un’intuizione universale del vuoto che ci circonda: vuoto incolmabile prodotto dalla forza del nostro desiderio che, conducendoci attraverso la coscienza della morte e l’accettazione del Nulla, fonda nell’uomo la spiritualità, estremo limite della speranza di sfuggire al deserto generato dalla “Finanza globale”.

E poi ancora “Finzione”, “Frammenti”, “Identità”, “In silenzio”, “Illuminazioni”, sono testimonianze crude e autentiche dell’inganno generato dal privatismo esasperato dei nostri anni, l’illusione cioè che la vita privata possa inglobare le diverse facce dell’esistenza umana e riempire quest’ultima di un significato che, al contrario, sembra scivolare via in continuazione, come un sogno al risveglio mattutino. La ricerca di senso si rivela così una chimera mandata in frantumi dall’onnipresente invadenza dei vincoli finanziari, il cui rigore castrante diviene metafora dell’aridità dei rapporti umani, fuori e dentro l’ambito familiare.

La poesia di Giuseppe Vanni è un’occasione importante per fare i conti con i tormenti e le ansie dell’era presente, una possibilità di arricchire un soggiorno turistico sulla Riviera romagnola, tra una cena di pesce e una puntata nell’entroterra.

La mostra per poesie e immagini dal titolo “Horror Vacui – La grande crisi” a cura di Giuseppe Vanni, Matteo Serafini e Valerio Denicolò si terrà presso la Galleria Comunale Santa Croce, a Cattolica, dal 12 aprile al 4 maggio. Apertura: sabato e domenica dalle 17 alle 20.

Per chi volesse acquistare la raccolta di poesie, l’edizione cartacea del libro sarà disponibile presso la Galleria Santa Croce durante la mostra, mentre l’edizione digitale è acquistabile ai seguenti link:

http://www.ultimabooks.it/horror-vacui-la-grande-crisi

http://www.amazon.it/Horror-vacui-grande-Giuseppe-Vanni-ebook/dp/B00HL9MZVA

http://books.google.it/books/about/Horror_vacui_la_grande_crisi.html?id=25zjAgAAQBAJ&redir_esc=y

Cartolina2014

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Armi e bagagli dalle Brigate Rosse

armiBagagliEnrico Fenzi è un ex docente di letteratura dell’Università di Genova che verso la fine degli anni settanta decide di entrare nelle Brigate Rosse, partecipando alla “gambizzazione” di Carlo Castellano, un dirigente dell’Ansaldo vicino al Pci.

Arrestato nella primavera del ’79, viene rilasciato per insufficienza di prove, ma in carcere fa conoscenza con gli esponenti del nucleo storico delle Br, Renato Curcio ed Enrico Franceschini, e quando esce è diventato ormai un punto di riferimento per tutti coloro che gravitano nell’orbita dell’estrema sinistra.

La parentela con il leader degli “irriducibili” Giovanni Senzani, del quale Fenzi ha sposato la sorella, lo spinge a fare il grande salto verso la clandestinità: così nel 1981 lascia il lavoro e la famiglia (la moglie è in attesa del terzo figlio) per recarsi a Milano dove gli viene affidato l’incarico di riorganizzare la colonna Walter Alasia in collaborazione con Mario Moretti, altro esponente storico del brigatismo rosso.
Da notare che in questo periodo, mentre è ricercato dalle forze dell’ordine, Fenzi trova il tempo di concludere un saggio su Dante per una casa editrice, di consegnarlo e riscuotere il relativo compenso.

In questo libro, Armi e Bagagli, pubblicato nel 1987, Enrico Fenzi ripercorre le tappe della sua militanza cercando di chiarire ancora una volta le ragioni che lo hanno portato ad abbracciare la lotta armata, passando dalla tranquilla vita dello studioso di storia e di letteratura a quella tumultuosa di terrorista latitante, finendo per consumare in carcere la sua esperienza: come per tanti altri della sua generazione, nella sua formazione è decisiva l’esplosione della contestazione studentesca nel ’68, il coinvolgimento attivo nelle assemblee e i primi contatti con militanti già su posizioni molto più radicali delle sue riguardo allo Stato, al Pci e al ruolo della classe operaia nel conflitto sociale.

Scritto in uno stile densamente soggettivo, per nulla incline alle divagazioni ideologiche, Armi e Bagagli è una sorta di diario esistenziale con il quale l’autore tenta di riafferrare, pur ribadendo la dissociazione risalente al 1982, le ragioni della sua adesione alla lotta armata, al fine di evitare che la sconfitta storica, politica e giudiziaria del terrorismo di sinistra si trasformi in una discesa a precipizio verso l’inferno dell’autodistruzione, conseguenza inevitabile della rimozione del nesso tra ciò che si è fatto e del perché lo si è fatto.

Partendo dalla constatazione che solo i folli ignorano i motivi delle proprie azioni, l’autore riannoda i fili della propria partecipazione alle Brigate Rosse, a partire dal primo contatto con la cellula genovese nell’estate del 1976, dopo l’omicidio del giudice Coco, per passare attraverso la collaborazione con le frange più radicali della classe operaia del capoluogo ligure, fino ad arrivare all’eliminazione di Guido Rossa, un sindacalista della Cgil che denuncia alcuni operai che distribuiscono volantini delle Br dentro l’Italsider, episodio che segnerà l’inizio del declino delle formazioni di estrema sinistra in tutta Italia.

Emerge da queste pagine tormentate un bisogno di assegnare un senso diverso e più profondo alla propria militanza politica, che si coglie fin da subito nelle righe con le quali Fenzi commenta il clima di euforia creatosi all’interno della sinistra genovese in seguito all’omicidio del giudice Coco : “Era un gran parlare, riunirsi, ammiccare, alludere: era un gran girare a vuoto che io detestavo. Nella mia grossolanità, trovavo la doppiezza dei compagni più sgradevole di quella dei benpensanti. Tutto quel compiacimento mi pareva impastato di paura, di opportunismo: una moda dietro la quale non c’era niente, un tifo tanto sciocco quanto inutile. […] Pensavo solo che, bene o male, quelli fossero ormai i termini della questione, quella l’unica scommessa di fronte alla quale occorreva prendere partito, magari anche così, a occhi chiusi…prendere o lasciare. E io, a differenza di quelli che vedevo scambiarsi sorrisi e ammicchi su Coco, non volevo affatto lasciare.”

Per arrivare infine ad asserire, nell’appendice intitolata “Vent’anni dopo”, redatta alla fine degli anni novanta: “…nessuna storia del movimento e tanto meno di quello del ’77 è in realtà possibile, nella coscienza di tutti, direi, se si pretendesse di passare sotto silenzio o mettere tra parentesi quella che, piaccia o meno, è stata l’espressione più radicale e conseguente che i movimenti nati a partire dal ’68 hanno finito per assumere: quella della lotta armata.”

Il libro quindi si chiude con un’orgogliosa rivendicazione del ruolo svolto dalla lotta armata nei conflitti sociali e politici dell’Italia a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta, quando era in atto un processo di ristrutturazione della grande industria che aveva come obiettivo quello di espellere le frange più radicali e combattive della classe operaia dai centri nevralgici dell’economia: in questo contesto, secondo Fenzi, la violenza era l’unica strada per opporsi a questo tentativo. Questa, almeno, sembra essere la giustificazione che l’autore fornisce dell’esperienza storica del terrorismo, negando legittimità a quelle componenti che negli stessi anni si battevano pacificamente per il cambiamento e che da sempre sostengono che il terrorismo spinse l’intero movimento in una strada senza uscita.

Infine l’autore, quasi beffardamente, sostiene che lo scontro con il Pci, e in particolare con le correnti riformiste di Emilia e Toscana, fu salutare in primo luogo per lo stato maggiore del principale partito comunista dell’Occidente, che ebbe così la possibilità di fare subito i conti con le componenti più radicali; questo, a giudizio di Fenzi, ha facilitato molto la transizione seguita alla fine del comunismo nell’Europa dell’Est, perché il peso di quella rottura sarebbe stato molto più doloroso se si fosse consumata mentre le componenti più combattive del proletariato industriale fossero state ancora presenti all’interno del partito.
Il libro chiude così, con questo linguaggio criptico e sibillino, la rievocazione umana ed esistenziale di quasi quarant’anni di storia politica italiana.

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Romanzo di una strage

locandinaRappresentazione di un periodo storico ancora avvolto nel mistero, anche se questo film racconta molte più verità di quante non appaiano allo spettatore dopo una prima superficiale visione.
Ambientato nel periodo a cavallo della strage di Piazza Fontana, “Romanzo di una strage” ci presenta il solito guazzabuglio di personaggi legati all’attentato e ormai divenuti celebri, almeno per la mia generazione: anarchici perennemente perseguitati da poliziotti pervicacemente convinti della loro colpevolezza; esponenti dell’estrema destra, veneta e romana, convinti che il modo migliore di rigenerare l’Italia sia piazzare bombe sui treni e nelle stazioni; agenti dei servizi segreti che infiltrano sistematicamente i gruppi politici dalle tendenze più estreme per spingerli a farsi la guerra e sprofondare il paese nel caos, non si capisce a beneficio di chi; infine i soggetti più sfortunati, le vittime della strage e dei giochi politici di quegli anni, i cui familiari, come la vedova dell’anarchico Pinelli, non riusciranno mai a ottenere giustizia dallo stato italiano.

Rispetto alle interpretazioni proposte fino ad ora il film di Marco Tullio Giordana si differenzia per la raffigurazione di tre personaggi chiave che spiccano sopra tutti gli altri: l’anarchico Giuseppe Pinelli, interpretato magistralmente da Pierfrancesco Savino; il commissario della Questura di Milano Luigi Calabresi, impersonato da uno straordinario Valerio Mastandrea e Aldo Moro, all’epoca dei fatti Ministro degli Esteri e qui interpretato da Maurizio Gifuni.

Di ognuno di questi personaggi il regista riesce a delineare le passioni, i dubbi e le contraddizioni legate al ruolo pubblico che essi incarnano: Pinelli è un ferroviere di estrazione piccolo-borghese e di formazione cattolica che guida un circolo di anarchici e che, per tale motivo, viene preso di mira dal capo dell’Ufficio Politico della Questura di Milano, il commissario Luigi Calabresi, il quale lo sospetta di essere coinvolto in alcuni attentati ai treni e lo tampina con tutti i mezzi, leciti e illeciti, estorcendo informazioni sul suo conto ai suoi collaboratori attraverso l’intimidazione e il ricatto.

Turbato e innervosito dal fatto di essere scaraventato in una dimensione tanto lontana dal suo temperamento personale, Pinelli finisce risucchiato in un vortice di tensioni distruttive che avrà come tragico esito l’interrogatorio fiume negli uffici della Questura di Milano, nei giorni seguenti all’attentato alla Banca dell’Agricoltura.

La rappresentazione di Luigi Calabresi è quella che risente maggiormente del clima di revisionismo storico con il quale, negli ultimi anni, una parte della magistratura e del mondo politico hanno inteso chiudere il conto su quegli anni, senza dare in definitiva alcuna risposta certa sul piano della verità storica, ma facendo affidamento unicamente sulle testimonianze, ampiamente contestate, di alcuni personaggi dalla condizione molto dubbia. Di Calabresi il film rivela giustamente le asprezze legate al ruolo di capo dell’Ufficio Politico della Questura di Milano, ma tende continuamente a mitigarne l’immagine mostrandocelo più volte nell’intimità familiare, come se questo potesse bastare a chiarirne le responsabilità nella morte di Giuseppe Pinelli il quale, come è noto, cade, non si sa quanto incidentalmente, dalla finestra del suo ufficio mentre è sottoposto a un durissimo interrogatorio, in un momento nel quale il commissario è assente.

Dal punto di vista cinematografico, il lato più umano del personaggio emerge dopo che lo stesso viene additato all’opinione pubblica come il responsabile della morte di Pinelli. A questo punto, sottoposto sia alle pressioni della stampa che all’indifferenza dei suoi superiori, che hanno i loro bravi scheletri nell’armadio da tenere nascosti, Luigi Calabresi decide di farsi carico, pur se in forma privata, dell’accertamento di una verità che appare tanto complessa quanto sfumata nei suoi contorni.

Il film si chiude con l’immagine tragica del suo cadavere disteso sull’asfalto in seguito all’agguato di cui cadde vittima, senza che il regista faccia il minimo tentativo di spiegare se la causa dell’attentato sia da ricercare nell’estremismo dei gruppi della sinistra extraparlamentare oppure in una decisione dei servizi segreti, che ormai lo consideravano un fastidio per i troppi segreti di cui era venuto a conoscenza nel corso delle sue indagini private sulla strage di Piazza Fontana.

Ma la forzatura più clamorosa, a mio avviso, è quella che riguarda Aldo Moro: nel film è uno dei personaggi più affascinanti e ricchi di tensione drammatica perché in preda a un travaglio spirituale che gli fa avvertire più chiaramente rispetto ad altri il momento di pericolo corso dalle istituzioni democratiche e la necessità di impegnarsi a fondo per salvarle. Il Moro di Giordana vive con lucidità una disperazione esistenziale che lo spinge a cercare nell’impegno politico un’alternativa all’isolamento e all’incomprensione da parte dei colleghi di partito, fino ad arrivare più volte allo scontro con il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat sulla questione fondamentale della proclamazione dello stato d’emergenza.

Con tutto il rispetto per il regista, e anche per Aldo Moro, non ho mai avuto l’impressione che il Moro reale abbia percorso la politica italiana di quegli anni animato dalla ricerca di una totalità esistenziale attraverso la quale affermare e realizzare se stesso. Anzi, la fine malinconica nel covo delle Brigate Rosse, durante la quale scriveva lettere intrise di umana e sincera disperazione per la fine che gli appariva imminente, ce lo hanno restituito come una persona dai sentimenti molto comuni e per nulla legato all’immagine di uomo di potere estraniato dal consesso umano.

Tutti i personaggi che appaiono in questo dramma cinematografico sembrano riflettere un’ansia di un riesame critico di uno dei periodi più bui della nostra storia e, per pochi attimi, si ha l’illusione che l’azione di alcuni magistrati coraggiosi possa riuscire dove le altre istituzioni democratiche hanno fallito. Ma è solo una breve illusione, perché i titoli di coda ci riportano subito alla realtà ricordandoci che il processo per la Strage di Piazza Fontana si è concluso senza colpevoli e che, ancor più amaramente, i parenti delle vittime sono stati persino costretti a pagare le spese processuali.

La chiusura del film, con il corpo del commissario Calabresi riverso sul selciato, omicidio per il quale sono stati condannati i vertici di Lotta Continua dell’epoca, lascia aperti dubbi e perplessità sul ruolo svolto dai protagonisti di quelle vicende e sul senso di una democrazia sulla quale pesano, fin da allora, ombre che si allungano fino a noi.

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Carnage di Roman Polanski

carnage roman polanskiQuesto film, tratto dal testo teatrale “Il dio del massacro” di Yasmina Reza, che ha curato anche la sceneggiatura, mette in luce le nevrosi distruttive di una società che sembra non riuscire a fare i conti con la violenza che essa stessa genera, all’interno e all’esterno, e finisce per trasformare le proprie insufficienze culturali in fattori disgreganti della vita civile.
“Carnage” è la storia di due coppie sposate, appartenenti alla classe media americana, che si incontrano per dirimere la lite scoppiata tra i rispettivi figli maschi in un parco cittadino e che si è conclusa con il ricovero in ospedale di uno di essi con la faccia gonfia e un paio di denti rotti.
Inizialmente le due famiglie si sforzano di mantenere un contegno civile e conciliante, ma poco alla volta, anche per la difficoltà di trovare una spiegazione logica per un gesto tanto violento, la rabbia e la frustrazione hanno il sopravvento sul clima cordiale ed emergono inesorabilmente le idiosincrasie, le avversioni e l’ istinto di sopraffazione. Alla fine, quello che doveva essere un incontro di riconciliazione, degenera in una zuffa con tanto di urla, pianti e scontri fisici.
I genitori del ragazzino aggressore, i coniugi Cowan, sono una coppia benestante: lui è un avvocato di successo mentre lei è un’operatrice finanziaria dall’aria nervosa e insoddisfatta. Il marito, Alan, interpretato da Christoph Waltz, viene chiamato in continuazione al telefonino dai dirigenti di una grossa casa farmaceutica, i quali rischiano di subire una class-action per aver messo in vendita un farmaco dannoso per la salute. La moglie Nancy, Kate Winslet, nonostante le apparenze, sembra più subire che amare il ruolo di madre e di moglie fedele, e riesce a liberarsi delle sue false convinzioni solo grazie all’alcool.
I genitori del ragazzino aggredito, i coniugi Longstreet, se la passano meno bene dei Cowan: lui, Michael, interpretato da John C. Reilly, è un rappresentante di articoli per la casa mentre la moglie Penelope, interpretata da Jodie Foster, è un’aspirante scrittrice appassionata di arte che si barcamena lavorando part-time in una libreria.
Sullo sfondo delle discussioni attorno alla centralità della famiglia e al ruolo dei genitori nell’educazione dei figli si agita la consapevolezza delle violenze che la civiltà occidentale infligge al resto del mondo, in particolare all’Africa, consapevolezza che si manifesta negli sfoghi di Jodie Foster, sempre più furiosi mano a mano che la sua sensibilità di intellettuale e di scrittrice si scontra con l’ostentata indifferenza dei due uomini, i quali, con il passare del tempo, realizzano una sorta di fratellanza di genere, rozza e scurrile, quasi eccitati di fronte all’angoscia della donna, che non sa spiegarsi per quale motivo essi siano così insensibili alle tragedie del Darfour e, forse, non riesce neppure a spiegarsi perché lei se le prenda tanto a cuore.
L’alter ego della Foster è l’avvocato della casa farmaceutica, che in Africa viaggia spesso per lavoro e che, pur avendo visto con i suoi occhi gli orrori che non fanno dormire la scrittrice, li accetta con sereno cinismo, arrivando a pronunciare la frase che da il titolo alla commedia teatrale dalla quale è tratto il film. “E’ il dio del massacro che fa la storia” afferma l’avvocato, nel tentativo di chiudere un incontro che si sta facendo sempre più conflittuale; la sua frase, però, ha l’effetto non voluto di scatenare i fantasmi che albergano nella psiche della moglie la quale, esasperata dall’atteggiamento del marito, gli strappa il cellulare e lo getta dentro un vaso pieno d’acqua, provocandone lo sconcerto e l’abbattimento, come se la sua esistenza fosse realmente legata al funzionamento del telefonino.
L’episodio provoca un momentaneo avvicinamento tra le due donne, ma dura poco perché la voglia di scontro e di divisione della Foster finisce per rovinare presto il clima di armonia appena instaurato.
L’episodio di partenza, l’aggressione al figlio di una delle due coppie, viene progressivamente relegato sullo sfondo, mentre rimane in primo piano la sensazione dell’ineluttabilità del dolore e della sofferenza umana, rafforzata dal corollario amaro che una società come la nostra, che pretende di ignorare i massacri che scatena in Sudan, in Congo o in qualsiasi altro posto, rischia di sprofondare in una nevrosi ossessiva e senza sbocchi, alimentata dall’incapacità di comunicare e di comprendere. Il male che facciamo, quindi, si ritorcerà fatalmente contro di noi, rendendo invivibile l’ambiente in cui ci muoviamo.

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La verità sul caso Harry Quebert – Joel Dicker

veritaQuesto romanzo rappresenta il tentativo molto ambizioso di spiegare, utilizzando la metafora letteraria del thriller, il perché negli ultimi anni, cioè a partire dal 2006, gli anni settanta sono tornati nuovamente in voga nella cultura di massa. Molti film di successo, quali “La regola del silenzio” di Robert Redford, “Frost/Nixon” di Ron Howard oppure “Mio fratello è figlio unico” di Daniele Lucchetti, hanno ripreso tematiche, situazioni e personaggi di quegli anni, come se avessero ancora una rilevanza nel dibattito politico-culturale attuale, e in effetti ne hanno, nonostante le grandi differenze che la società di oggi presenta rispetto a quella di quarant’anni fa.

“La verità sul caso Harry Qubert” narra la storia di Marcus Goldman, scrittore di origine ebrea che nel 2006 diviene famoso grazie a un bestseller che vende milioni di copie. Sospinto verso la celebrità da un successo tanto ampio quanto, probabilmente, immeritato, il giovane Goldman è costretto a subire tremende pressioni da parte della casa editrice per sfornare un altro romanzo di successo. Impresa tutt’altro che semplice, perché lo scrittore si incaglia in un blocco creativo di quelli capaci di stroncare un’intera esistenza, oltre che una carriera, e non riesce più a buttar giù una pagina neanche a spararsi fino a quando, preso dalla disperazione, non decide di contattare un suo ex professore universitario di nome Harry Quebert.
Quebert, secondo Goldman, è “uno degli autori più letti e rispettati degli Stati Uniti” fin dal lontano 1976, quando un suo romanzo composto nel corso dell’estate precedente batté ogni record di vendite. Il romanzo si intitola, in modo inquietante, “Le origini del male” e nasconde dietro la sua realizzazione una serie di misteri che toccherà proprio a Marcus Goldman dipanare. Quebert, infatti, viene arrestato il 12 giugno del 2008, dopo che nel giardino della sua casa nella città di Aurora, nel New Hampshire, vengono rinvenuti i resti di una ragazzina scomparsa nell’agosto del 1975: Nora Kellergan, figlia di un pastore protestante della cittadina del New England.
A questo punto il giovane scrittore decide di lanciare il dado e di varcare il Rubicone: si trasferisce ad Aurora nella casa di proprietà del suo mentore, anche se non potrebbe visto che si tratta di una scena del crimine, e inizia a frequentare gli stessi luoghi e le stesse persone che Harry Quebert aveva conosciuto nella sua gioventù. Dopo un viaggio a ritroso nel tempo lungo quasi ottocento pagine, nel quale la verità cambia volto in continuazione tanto che appare impossibile assegnarle un volto definitivo, Goldman riesce a ricostruire i fatti che hanno portato alla morte di Nora Kellergan e a scagionare il suo amico dalle accuse.
Le prime centocinquanta-duecento pagine sono scritte impeccabilmente, secondo un canovaccio molto seguito dalle case editrici, poi il libro sprofonda in una melassa di banalità e luoghi comuni veramente irritante, tanto che si viene presi dalla tentazione di saltare a piè pari interi capitoli, con il conseguente rischio di perdere dei dettagli importanti per la comprensione della vicenda. Le ultime duecento pagine, infine, riabilitano parzialmente l’autore, che ci conduce al traguardo attraverso un crescendo mozzafiato di colpi di scena e ribaltamenti di prospettiva veramente notevoli.
Ciò che manca alla soluzione finale, a mio avviso, è quel pizzico di genialità e di estrosità che sta alla base dell’impostazione del libro, il vero punto di forza del romanzo: pubblicato nel 2011, narra una vicenda accaduta nel 2008 (l’arresto di Harry Quebert) per sbrogliare la quale il protagonista deve fare luce sugli avvenimenti dell’estate del 1975, che a loro volta rimandano all’estate del 1969 e, ancora più indietro, agli anni cinquanta. Il tutto immerso in una sorta di meta-rappresentazione della condizione dello scrittore moderno che assomiglia a un manuale di retorica, con tanto di consigli dispensati a piene mani per ottenere il maggior successo di pubblico possibile. Indubbiamente è questo canovaccio l’elemento di maggior fascino dell’opera, perché la mediocrità della scrittura fanno dubitare che si tratti di farina del sacco di Joel Dicker e che, al contrario, qualche austero direttore di casa editrice abbia intessuto sapientemente questa intelaiatura per offrire a un giovane e raccomandatissimo rampollo dell’establishment ginevrino la possibilità di promuovere la propria carriera di scrittore.
Come voto finale, tenuto conto di tutto, gli assegno un bel sette perché in fondo penso che sia valsa la pena acquistarlo, anche se non mi sento di consigliare ad altri di spendere i diciotto euro richiesti dall’editore. Inoltre vi avviso che per comprenderlo a fondo è necessario possedere un’ottima, sottolineo ottima, conoscenza degli avvenimenti storici degli ultimi quarant’anni, inclusi quelli che di solito non compaiono nei libri di testo. Decidete voi se comprarlo o meno.

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Profondo rosso

profondo_rossoHo rivisto di recente questo film ormai leggendario di Dario Argento, datato 1975, e devo dire di esserne rimasto ancora impressionato, nonostante conosca quasi a memoria i passaggi salienti e il sorprendente finale.
La storia è quella di uno psicopatico, noi diremmo un serial killer, che uccide per nascondere un segreto nascosto nel suo passato. La musichetta infantile che scatena la sua furia omicida è entrata anch’essa a far parte della storia del cinema, così come la colonna sonora dei Goblins, che fa salire alle stelle la tensione ogni volta che le prime note rimbalzano metallicamente fuori e dentro lo schermo.

Sulle tracce dell’assassino si mettono subito le forze di Polizia, capitanate da uno sgangherato e svogliato commissario dall’accento marcatamente toscano. Il vero investigatore, però, si rivelerà essere un pianista jazz inglese che, venuto in Italia per una tournèe, assiste casualmente al primo delitto mentre vagabonda nel centro di una città che nella finzione è Roma, anche se il film, oltre che nella capitale, è stato girato a Perugia e Torino.
Burbero e scontroso come solo gli inglesi sanno essere, il musicista dimostra però una vitalità e un sangue freddo micidiali grazie ai quali prima riesce a sfuggire a un agguato nella sua stessa casa e poi trova la forza per addentrarsi nei meandri di una villa dal passato oscuro, nella quale scopre la traccia decisiva per individuare l’assassino.
Al suo fianco, fin dalle prime battute del film, c’è una giornalista italiana spregiudicata e sensuale, interpretata magnificamente da Daria Nicolodi, che non disdegna di utilizzare il suo fascino femminile pur di ottenere informazioni rilevanti sugli omicidi e fare lo scoop che darà la svolta alla sua carriera.

Il film si trova a cavallo tra il genere giallo dei primi film di Dario Argento (L’uccello dalle piume di cristallo, Quattro mosche di velluto grigio, Il gatto a nove code) e il genere horror paranormale della seconda fase della sua carriera, cominciata con Suspiria. Per questo motivo la trama, pur se ben costruita, presenta una serie di falle piuttosto notevoli dal punto di vista logico, sopratutto se si considera la soluzione finale; ciò nonostante il film riesce a trasmettere allo spettatore una tensione e una suspense incomparabili, grazie alla tecnica ormai classica di far capire alla vittima che l’assassino è penetrato nel territorio che si ritiene più sacro e inviolabile, quello della propria abitazione (tutti i delitti avvengono in case private) e di scatenare così una situazione di panico che finisce per accelerarne la fine.

La particolarità di questo film, infatti, è che le vittime appaiono sempre vulnerabili e indifese, quasi volessero inconsciamente offrirsi in sacrificio al loro aguzzino il quale, al contrario, dimostra sempre una razionalità e una freddezza glaciali: sembra conoscere ogni anfratto, ogni passaggio, ogni nascondiglio dei luoghi in cui entra non soltanto per uccidere, ma anche per captare i segnali di avvicinamento alla verità da parte dei suoi inseguitori e agire di conseguenza. Tutto ciò appare più come la proiezione degli incubi e delle angosce del regista che come la rappresentazione fedele del modus operandi di un vero serial killer, eppure è di un’efficacia sensazionale nel tenere inchiodato lo spettatore alla vicenda e nel lasciargli addosso una sensazione di paura difficile da rimuovere.

Profondo Rosso è un grande classico, splendidamente recitato, anche se, lo ribadisco, un’analisi puramente razionale della trama e della soluzione ne mostra diverse falle. Ma il bello dell’arte è riuscire a rendere verosimile anche le cose più assurde, anche perché, in fondo, chi può dire cosa sia verosimile e cosa non lo sia quando si parla di situazioni tanto estreme? Come dice uno dei protagonisti del film: “la nostra mente non ci fa vedere la verità, ma solo la versione della verità che noi vogliamo vedere”.

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(a)Simmetria comunicativa

L’articolo che segue non è mio, ma del linguista Raffaele Simone. E’ apparso sulla rivista “Italiano & Oltre” nel lontano 1992 e lo ripropongo perché il contenuto mi sembra fortemente attuale, oltre che  premonitore.


Qualche tempo fa, in treno da Milano a Roma, sono stato svegliato da un trillo un po’ smorzato ma sensibile. Ho aperto gli occhi e ho visto il signore seduto di fronte a me che tirava fuori dalla borsa un telefonino portatile; dopo i soliti convenevoli, si svolgeva una conversazione più o meno così: “Adesso stiamo passando per Firenze” – battuta dell’ignoto interlocutore – e poi “Si va bene ti richiamo quando sono a Roma”.

L’assoluta inessenzialità di questa conversazione mi ha ricordato un altro fatto somigliante, che mi era capitato in un ristorante: un signore entrò col telefono all’orecchio e si sedette biascicandoci dentro qualcosa; allungando l’orecchio sentii che diceva: “Sì sì proprio mò me sto a séde” (traduzione per chi non conoscesse il romanesco: “Sì sì mi seggo proprio adesso”) e chiudeva la comunicazione.

Che cosa c’è in queste microconversazioni per telefonino che possa interessare ai lettori di “Italiano, e oltre”? C’è, secondo me, l’indizio di un mutamento in atto. Non cambiano infatti solo le lingue; cambiano anche i modi di usarle e i mezzi per farle circolare, e, più indietro nel tempo, un mutamento della stessa natura era stato il telefono. Oggi, la ruota delle modalità di trasmissione del parlato e del linguaggio si è rimessa a girare e la novità del giorno è il telefonino.

Che cosa cambia il telefonino nelle nostre abitudini comunicative? Almeno  due cose: a) altera il rapporto tra il costo del mezzo e il valore del fine (formula solenne che ridurrò in soldoni tra un attimo); b) modifica il regime di riservatezza che è tipico di ogni conversazione. Cominciamo dal primo punto.

Siccome la conversazione verbale è un bene immateriale, che non si può né pesare né vendere a chili, per diffonderla bisogna scegliere mezzi proporzionali, come costo, al valore pratico della comunicazione stessa. Sarebbe assurdo se, per mandare alla nonna una cartolina di auguri dal mare, scegliessi il corriere DHL; allo stesso modo, sarebbe privo di senso che telefonassi in Australia per dire che ora è in Italia in un dato momento (salvo che, per qualche ragione, tutti gli orologi australiani non fossero andati in malora di colpo). Certo, questa regola di economia comunicativa elementare viene spesso violata, ma quasi sempre “pour cause”: gli adolescenti che fanno torrenziali telefonate interurbane per mormorarsi le loro prime novità amorose hanno una buona ragione per (fare) spendere decine di migliaia di lire; e se, invece che alla nonna, la cartolina dal mare la mandassimo ad una o (un) amante ardentemente passionale, la spedizione via DHL diventerebbe indispensabile.

La conversazione via telefonino viola tutte le regole e le restrizioni di questa economia comunicativa. Essendo costosissimo a comprarsi e a usarsi, ci aspetteremmo di trovarlo in mano di manager potenti, di politici lacerati dagli impegni e dalle decisioni, o di militari in zona operativa. Nulla di più falso: in realtà lo vediamo in mano a persone assolutamente qualunque, spesso impegnate (come i due di cui ho riferito) più in spente radiocronache delle loro ovvietà che nella trasmissione di decisioni da eseguire in tempo reale. La poca esperienza che mi sono fatto in questo campo mi lascia pensare, inoltre, che queste telefonate servano spesso più ad annunciare telefonate vere (quelle che si fanno da un telefono da tavolo) che a trasmettere messaggi autentici.

Ma fin qui, si dirà, poco male: sono fatti loro, e non ci riguardano più che tanto. Di maggior interesse pubblico è la seconda delle modificazioni che il telefonino sta inducendo. La conversazione è tenuta normalmente riservata, fatta cioè in modo tale che nessuno la senta. Non sta scritto da nessuna parte che

debba essere così, ma di fatto la riservatezza è talmente generale che in moltissime lingue esistono motti e frasi che invitano a rispettarla: da “fatti i fatti tuoi” a “pensa a te”, a “mind your business” ecc., la riservatezza, se non è praticata da tutti, è almeno teorizzata come una virtù. Per conseguenza gli impianti telefonici di tutto il mondo sono fatti in modo da consentire una zona di rispetto alla conversazione: le cabine telefoniche (da quelle bellissime dell’Inghilterra di  una volta a quelle più somiglianti a ghigliottine dell’Italia di oggi), i <<gusci>> in cui si infila la testa per sentire meglio e non farsi sentire, e via discorrendo.

Ognuno di noi si risentirebbe se la riservatezza di una sua conversazione, anche assolutamente candida, fosse violata da qualcuno. Si tratta forse di una forma di discrezione biologica, la stessa che ci spinge a infastidirci se qualcuno, a qualche distanza, legge il <<nostro>> giornale. Devo credere, quindi, che tra le tanto lodate massime di conversazione di Grice bisognerebbe introdurne un’altra che chiamerò (con la solennità un po’ futile di cui alcuni linguisti si fanno schermo) “massima della riservatezza bidirezionale”, e che potrebbe dire più o meno così: “parla in modo da non essere ascoltato se non da chi vuoi tu e ricevi in modo da non ascoltare se non chi ti sta parlando”.

Ora, il telefonino è  una pericolosa crepa nel rispetto della massima di riservatezza bidirezionale. Chi lo usa, oltre a dire facilmente scemenze, è portato a dirle in faccia alla gente, facendosi sentire, senza costruire alcuno spazio di rispetto comunicativo attorno a sé. Troviamo gente che usa il telefonino al bar, per la strada, sui marciapiedi, nei negozi; praticamente ovunque. Tutti ci raccontano i fatti loro, impedendoci di applicare anche solo unidirezionalmente la massima di riservatezza, e il trend andrà accentuandosi via via che il costo di acquisto e di uso di questi aggeggi si ridurrà.

Questa mancanza di riservatezza è dovuta, per ora, al fatto che il telefonino è relativamente raro, e quindi opera come status symbol: le persone che usandolo fanno sapere a tutti quel che dicono, in realtà trasmettono un solo messaggio sociale: “io ce l’ho e voi no”, e la soddisfazione per questa semplice proposizione non detta deve essere tale da giustificare largamente la spesa. Possiamo trovare una spiegazione di questo uso del telefonino addirittura nella Logica di Port-Royal (1662 cap. XX): “lo spirito degli uomini non è solo naturalmente amante di sé, ma è anche naturalmente geloso, invidioso e maligno nei confronti degli altri; solo con pena tollera ch’essi abbiano qualche vantaggio perché li desidera tutti per sé”.

Che speranza abbiamo di salvarci dalla nuova invasione di scemenze, di microprovocazioni sociali e di violazione della riservatezza, a cui il telefono sta aprendo le porte? Poca, credo, anche se per ora la considerazione in cui la gente (specie quella che non ce l’ha) tiene questo aggeggio si nota dal termine con cui si è finito per indicarlo: niente più che “telefonino”.

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231 giorni – Paolo Severi

I duecento trentun giorni del titolo sono quelli che l’autore ha trascorso nell’inferno carcerario dei “Casetti” di Rimini, dal 16 gennaio al 2 settembre del 1996. Questo libro è il risultato di quell’esperienza: una sorta di diario psico-esistenziale che lascia emergere la volontà quotidiana di sopravvivere senza farsi trascinare, da un lato, nel giro della grande criminalità e, dall’altro, nella tentazione fatale dell’eroina, del “buco” come facile soluzione e scappatoia a tutti i problemi personali.

Nonostante la compattezza, meno di duecento pagine, questo è un testo molto difficile da interpretare e praticamente impossibile da riassumere perché ricchissimo di spunti, considerazioni, ansie, timori, speranze, analisi critiche (sul carcere e sulla società esterna), soddisfazioni (piccole e grandi), ricordi, delusioni, amarezze, affetti personali e rancori astrattamente universali: con la sua scrittura essenziale e asciutta Paolo Severi ha saputo condensare un intero percorso formativo, iniziato con la decisione di rifiutare la permanenza in comunità per scontare una vecchia condanna, risalente agli anni nei quali l’unico punto fermo della sua vita era la ricerca della dose quotidiana di eroina, e terminato con la fine anticipata della detenzione.

E’ un’esistenza vuota e priva di significato, quella di Severi, lanciata a tutta velocità verso l’autodistruzione, ma segnata dalla fortuna di trovare un “muro” contro cui arrestarsi: questo muro è la comunità di San Patrignano, dove l’autore trascorre tre anni che lo rimettono in carreggiata, sia dal punto di vista fisico che psicologico.

Una relazione con una donna sposata, però, lo pone in conflitto con le regole vigenti nella comunità, regole alle quali l’autore non intende, orgogliosamente, sottomettersi. Di conseguenza, per lui si spalancano le porte del carcere: una dimensione nuova, alla quale tenta disperatamente di adattarsi leggendo, scrivendo e studiando. Perché la vera novità della prigione è il tempo, talmente abbondante e dilatato da indurre il recluso a ritagliarsi uno spazio esclusivo nel quale poter coltivare i propri interessi.

Tuttavia l’operazione si rivela molto più complessa del previsto, non solo perché si è sempre, volente o nolente, in compagnia di qualcuno con cui non si riesce a comunicare come si vorrebbe, ma anche perché questo qualcuno è troppo distante, sul piano personale, per riuscire a comprenderne a fondo la storia, il carattere e i tormenti interiori. Ogni carcerato pare rinchiuso in un suo inferno psichico, prima ancora che materiale, che lo scinde e lo isola dagli altri, pur nella condivisione degli spazi.

E’ così che, in questo grande vuoto esasperato dalla vicinanza di corpi estranei tra loro, anche il fatto più banale diventa un evento: che si tratti dell’arrivo di una lettera, della visita di un parente, di un controllo medico o di un semplice colloquio burocratico con un funzionario, ogni occasione è buona per spezzare la paradossale monotonia di un tempo uniformemente piatto e, apparentemente, impossibile da piegare alle proprie esigenze.

Mantenere la propria dignità all’interno di un meccanismo che sembra fare di tutto per calpestarla è un’impresa che richiede impegno costante e molta attenzione a ogni parola che si dice, come a ogni gesto che si compie. Ci sono anche coloro che si impegnano per migliorare la qualità della vita dei detenuti, ma si tratta di fiammelle nell’oscurità perché, come constata immediatamente Severi, la detenzione non tende affatto alla rieducazione del detenuto. E non solo perché la maggior parte di coloro che sono rinchiusi, non parlando l’italiano, possono essere “educati” solo a furia di manganellate, ma anche perché l’istituzione carceraria, attraverso le sue dinamiche interne, finisce inesorabilmente per favorire il reclutamento di nuove leve da parte delle organizzazioni criminali, alimentandone così la sopravvivenza.

 “Il carcere ti si deve scrivere nella carne, ti si deve stampare dentro il cervello. Deve lasciare il segno….

Non ho mai conosciuto nessuno che ha smesso di rubare, o di farsi, dopo essere stato in carcere.”

In carcere, la burocrazia si mette continuamente di traverso e trasforma ogni richiesta, persino la più banale, in un percorso disseminato di ostacoli, ritardi e umiliazioni di ogni genere. Per sopravvivere in quest’inferno popolato da immigrati, tossici, delinquenti veri e delinquenti per sbaglio (a tutti comunque viene offerta la possibilità di compiere il “grande salto” verso il mondo del crimine), è necessario rassegnarsi all’assurdità delle regole, accettare il fatto, anche temporaneo, di essere in balia di un meccanismo che ignora le sofferenze dei singoli ed è capace di infliggere crudeltà inumane assumendo i panni rassicuranti e insieme beffardi del rispetto scrupoloso dei regolamenti.

“Non c’è udienza che non sia rinviata di un mese, non c’è permesso che arrivi in tempo, non c’è relazione che venga prodotta puntualmente, non c’è indagine che dia buon esito, non c’è formalità che non venga elevata alla massima potenza quando si tratta di nuocere, non c’è informativa che compia il suo iter regolarmente.

Niente di niente. Siamo in balia di non si sa cosa… E’ in questa attesa che si matura quel risentimento necessario per riportare, fuori di qui, l’insegnamento di violenza appreso.”

La violenza e la sopraffazione si respirano nell’aria come un destino fatale che incombe su ogni recluso. Solo l’arte e la lettura riescono a sollevare l’autore dalla propria condizione materiale e dal doloroso vuoto della sua esistenza. Così, grazie all’aiuto di un altro detenuto di origine cecoslovacca, che deve scontare una pena molto più lunga della sua, entra a far parte del gruppo teatrale della prigione. E poi riesce finalmente a preparare gli esami universitari, suscitando un sospetto quasi comico nelle guardie che lo controllano, pure loro prigioniere del clima di disumana ottusità che regna nel penitenziario, che vogliono sapere perché lui, al contrario degli altri, scrive, studia e, soprattutto, non vuole tornare a San Patrignano.

Infine, la grande sorpresa della riduzione della pena, che in origine era di sei anni, e la scarcerazione anticipata. Con la scoperta che la liberazione vera, oltre che l’uscita dal carcere, è l’accettazione delle proprie debolezze e fragilità, un segreto da custodire gelosamente al riparo dalle insidie del mondo.

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Da dove nasce il titolo del romanzo?

“Simmetria Mortale” sembra quasi un ossimoro, nel senso che il significato di ciascuno dei due termini richiama concetti radicalmente distinti tra loro, se non proprio opposti.

La simmetria è associata con la geometria e la regolarità delle forme. Nel Rinascimento, alcune correnti dell’arte e dell’architettura propugnavano un modello urbanistico di città ideale, che rispettasse i principi dell’uniformità geometrica e dell’armonia degli spazi. Nel dipinto La città ideale, conservato al Palazzo Ducale di Urbino e citato spesso come simbolo dell’arte rinascimentale italiana, gli edifici appaiono disposti simmetricamente attorno a un punto centrale, una piazza con un palazzo di forma circolare, simbolo di perfezione perché conchiuso in se stesso.

L’utopia urbanistica del tempo riteneva che tale disposizione, completamente auto-sufficiente perché contenente tutti gli elementi necessari allo svolgimento della vita pubblica e privata, avrebbe trasmesso ai suoi abitanti le stesse qualità con le quali era stata ideata e li avrebbe stimolati a dare vita a comportamenti improntati alla concordia e al vivere civile.

Il comune di Cervia, per citare l’esempio al quale mi sono ispirato per creare l’ambientazione del romanzo, possiede un centro storico costruito secondo tale modello, con due cerchie di abitazioni dalla forma rettangolare disposte in maniera concentrica attorno ai due edifici principali della vita cittadina, il municipio e la cattedrale, separati da una piazza centrale anch’essa rettangolare. A sottolineare il carattere utopistico dell’insediamento, ai quattro angoli del quadrilatero si trovano altrettanti edifici di pubblica utilità, quali il teatro, le carceri, l’ospedale e ( ma non ne sono certo ) un ospizio per anziani.

La perfezione delle forme geometriche è il simbolo dell’eterna bellezza che trascende la caducità delle forme terrene e illumina le vite di noi miseri mortali diffondendo sugli oggetti che ci circondano un senso più alto e nobile.

La morte, al contrario, è il nulla, la fine di tutto, la ferita che mette in rilievo la transitorietà dell’esistenza e che noi tentiamo in ogni modo di occultare celandone le manifestazioni più evidenti. In qualche modo sbagliando, perché è proprio il pensiero della finitezza dell’esistente, la consapevolezza che la nostra vita terrena avrà un termine, che ci spinge a fare il possibile per riempirla di significato lavorando, procreando e, talvolta, anche producendo bellezza.

La bellezza quindi può sanare le lacerazioni indotte dalla consapevolezza tragica della provvisorietà del mondo.

Ma la simmetria, nella sua pretesa di perfezione, può anche essere sinonimo di rigidità, di incapacità di adattamento oppure di rifiuto al confronto con quegli elementi che vengono avvertiti come pericolosamente estranei all’ordine da essa stabilito.

Il mito di Narciso, raffigurato da un dipinto di Caravaggio, rappresenta splendidamente questa contraddizione: esso narra la storia di un giovane talmente bello che, un giorno, specchiandosi in una fonte d’acqua limpida e cristallina, rimane incantato dalla propria immagine e se ne innamora, tanto che cerca inutilmente di toccarla e di baciarla. Quando si rende conto che si tratta di se stesso e che non potrà mai realizzare il suo sogno d’amore, preso dalla disperazione si uccide.

Narciso incarna l’identità assoluta, totalizzante, che conosce solo se stessa e non è in grado di concepire nulla al di fuori di sé mentre aprirsi all’altro significa mettere in discussione le proprie certezze, fare i conti con le proprie fragilità, mandare in pezzi quell’equilibrio che si credeva perfetto e che invece è fondato su presupposti artificiosi.

La ricerca della  monolitica perfezione può diventare una gabbia che ci impedisce di vivere.

Una simmetria mortale, per l’appunto.

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L’orrore del vuoto in mostra a Gradara

Rappresentare la crisi italiana degli ultimi anni: questo l’intento della mostra Horror Vacui, sottotitolata, per l’appunto, “La grande crisi 2011-2013 in poesie per immagini”, allestita presso Palazzo Rubini Vesin di Gradara e visitabile fino al 7 luglio.

Giuseppe Vanni, insegnante con la passione per la poesia, è l’autore dei testi e colui che ha curato l’allestimento della mostra, riuscendo ad abbinare a ogni poesia una foto in grado di esaltarne l’espressività.

La crisi del nostro tempo, sembra dire l’autore, oltre che economica e finanziaria, è morale e affettiva. La società attuale sembra incapace di produrre nuovi valori e nuove idee, e la sua corsa pare destinata a incagliarsi nelle secche dell’aridità che lei stessa ha generato, come condizione essenziale per la propria auto-riproduzione.

La diffusione del precariato nel mondo del lavoro, oltre che il simbolo di questa crisi, ne è una delle cause poiché ha aumentato, sia in intensità che in estensione, le nevrosi dell’uomo comune, esponendolo al rischio di fallimenti a catena anche nella sua vita privata. L’incertezza generale delle condizioni di vita ha fatto sprofondare il livello medio della convivenza civile, spingendo i singoli a compiere atti sempre più degradanti pur di conservare le poche briciole di benessere che le élite del potere economico-finanziario sono disposte a concedere al resto dell’umanità, al fine di poter continuare a concentrare nelle loro mani quote sempre più ampie di ricchezza.

Tra una politica che appare incapace di trovare le soluzioni per uscire dalla crisi e un’economia che disprezza e umilia coloro che credono ancora nei valori della dignità del lavoro e del sacrificio personale, sembra impossibile trovare un barlume di luce, anche spirituale, che possa servire da ancora di salvezza per chi tenta di non affondare. Fino a quando il sorriso spensierato di un bambino non sparge il balsamo incontaminato dell’innocenza sopra il degrado che ci circonda e riesce a rendere la nostra vita meno infernale.

La mostra si può visitare ogni sabato e domenica fino al 7 luglio, a partire dalle 21 di sera, presso Palazzo Rubini Vesin di Gradara. L’ingresso è libero.

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