Della tartaruga e dell’ostrica (seconda parte)

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Il mondo dunque si divide in ostriche e tartarughe.

Ostrica, nell’idea di Giovanni Verga, scrittore (1840-1922), è colui che (per necessità più che per scelta) vive ancorato al proprio luogo d’origine e per questo si preclude ogni possibilità di mobilità sociale. Verga fotografa con novelle e romanzi la realtà di un’Italia appena nata, in cui la società è ancora divisa in categorie sociali nette e quasi sconosciute l’una all’altra, l’Italia della seconda metà dell’Ottocento.

Essere ostrica (o tartaruga) nell’Ottocento verghiano è certo ben diverso che essere ostrica (o tartaruga) nel nostro tempo. Ma anche la storia di Giovanni Verga (dall’aldilà ci perdoni) può avere un post(o) tra le pagine di MilanoTrenta…

Giovanni Verga, nato e cresciuto a Catania, si trasferisce a Firenze a 25 anni, nella città da poco divenuta capitale del giovanissimo Regno d’Italia. Qui conosce un ambiente più mondano e aperto di quello della sua città natale. Dopo qualche anno, nel 1872, approda a Milano: all’epoca ha trentadue anni. La Milano che frequenta è una città scapigliata (bei tempi, quelli), che diviene determinante nel suo percorso letterario e spirituale. Milano sarà per lui un’esperienza di luci e ombre, dove le ombre coincidono spesso con l’abbandono delle sue origini siciliane. Vivrà a Milano fino al 1894, poco più di vent’anni, una vita intera. Poi tornerà a Catania, dove trascorrerà la vecchiaia e morirà, nel 1922, nella casa di via Sant’Anna, la casa della sua infanzia.

Il mondo dunque si divide in ostriche e tartarughe.

O forse esiste una terza specie, più numerosa, fatta di esseri dalla doppia natura e identità: ostriche divenute tartarughe e tartarughe divenute ostriche, per caso o per necessità, per un periodo o per sempre.

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3 Responses to Della tartaruga e dell’ostrica (seconda parte)

  1. f. says:

    beh che dire…arrivo un po’ in ritardo e non ho ancora ben capito i meccanismi dei test e degli interventi…ma sono molto belli questi due post. La frase di Pavese sull’attaccamento al proprio paese (scarto con rima) che per molto tempo è stato (e forse sarà sempre?) il mondo in qualche modo la condivido…sì, l’ostrica mi appartiene di più…a dispetto anche di tempi passati lontano. Continua in … luoghi??

  2. f. says:

    devo aver sbagliato qualcosa…continua qui…Comunque aver abitato a Milano, poi andarsene, e un bel giorno tornarci per una cena estemporanea, arrivando in viale Argonne al crepuscolo, all’accensione dei lampioni…e di lì poi giungere in Sabotino, Filippetti, Alta Guardia e vedere i bar sempre pieni…tutto (così) gratis, come la tristezza

  3. mitrenta says:

    “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
    Cesare Pavese

    “… signora libertà signorina fantasia
    così preziosa come il vino così gratis come la tristezza
    con la tua nuvola di dubbi e di bellezza”.
    Fabrizio De Andrè

    p.s. Grazie.

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