Diamoci un taglio

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Per una donna (non conta l’età, ma sui trenta è meglio) mettere ordine nella propria vita, almeno incominciare a farlo, è molto più semplice di quanto possa apparire. Non c’è modo migliore, per cominciare, che una cena tra amiche: le donne sono maestre nell’arte di ordinare narrando, e narrare ordinando.                                                                                       Anche un bel taglio di capelli, però, può funzionare.

La ragazza, ormai senza gonna di lino nell’aria pungente d’ottobre, non si può dire davvero tornata senza un appuntamento dalla sua parrucchiera prediletta, che, ovviamente, è milanese d’adozione.  Klara viene da lontano, da uno stato di nome Uzbekistan, una di quelle repubbliche ex-sovietiche di cui pochi nella generazione dei trenta avevano sentito parlare prima di incontrare qualcuno come lei, arrivato da lontano in cerca (come si dice in questi casi?) di un futuro migliore.                                                                                                     Quando i trentacinquenni di oggi frequentavano la scuola media, luogo deputato allo studio di stati e paesi, l’Uzbekistan ancora non esisteva, appendice della sterminata Unione Sovietica, e se qualcuno sentiva parlare delle antiche meraviglie di Samarcanda, collocava la mitica città in uno spazio indefinito, dello spirito più che del planisfero.                                     E così fino a quando, nella lotteria del mondo ormai globalizzato, qualcuno di quegli ignari trentenni non viene catapultato in Uzbekistan (o in Kazakistan o in Tagikistan o in Kirghizistan) per conto di una multinazionale o di una banca. O forse fino a quando, da quella stessa porzione d’Oriente, non salta fuori una parrucchiera, una badante, una manager, una fidanzata, una ballerina.

Klara, parrucchiera, uzbeka, ha trentatré anni, vive a Milano da dieci, è milanese d’adozione. Il suo taglio è scalato e preciso, la sua mano ferma, l’occhio azzurro e sveglio. Dopo un paio di negozietti senza infamia e senza lode, troppo nascosti per le sue doti ma utili per crearsi un primo giro di affezionate clienti, Klara ha finalmente fatto il salto di qualità, assunta in un negozio un po’ più grande, e in vista, ma non troppo. Qui la ragazza con la gonna di lino la ritrova, dopo avere chiesto di lei in lungo e in largo tra il giro di amicizie e conoscenze.

Il salone è ampio, costellato di specchi e poltrone, un grande lampadario vagamente fashion ingombra il soffitto; il personale in divisa, sorridente e solerte, si agita di buona lena sulle teste lavate e le acconciature. L’odore è di prodotti di buona qualità, la radio in sottofondo accompagna ma non copre le chiacchiere, il cicaleccio di clienti e parrucchieri domina su tutto.

A testa rovesciata all’indietro, sotto quel luminoso lampadario, con Klara si può parlare, e lei conosce le puntate precedenti.

E del resto, Klara da Milano non se ne andrebbe, dunque capisce. Ama il suo compagno italiano e la figlia, ama il suo lavoro e ci mette una gran passione, ama di tanto in tanto le uscite tra colleghe, ama la lingua italiana, che dopo tanti anni è ancora difficile e ancora bisogna studiare. Ama perfino il suo quartiere, la strada che ogni giorno percorre in scooter, e il grigio dell’asfalto su cui sfrecciare.

Certo si lamenta del tempo e del traffico, ma se così non fosse non potrebbe sentirsi davvero milanese. A volte Klara fugge, ma solo per una manciata di giorni, poi ritorna. Perché Klara ha scelto, beata lei.

E con questa consolazione e un taglio di capelli più leggero, la ragazza la saluta con i soliti due baci e se ne va soddisfatta, rabbrividendo nei primi freddi e nella sera.

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