… e non c’è dizionario

È il giorno 13 febbraio dell’anno 2012 e Teresa se ne sta comoda alla cattedra, allungando lo sguardo fuori dalla finestra sui rami secchi e ricurvi degli alberi del cortile, avvolti in un lucido strato di ghiaccio sottile. Quei rami sono da mesi il personalissimo rifugio dei suoi occhi, quando spiega o tace o si interrompe o aspetta, oppure quando un pensiero che non dovrebbe pensare l’attraversa a tradimento.

Laura alza gli occhi dal suo tema e interrompe il silenzio. “Prof., ma lei lo sa che giorno è domani?”

Teresa lo sa che giorno è domani. Domani è un anno dal suo ritorno in Italia. Un anno da quando la sua pesante valigia, svuotata di ogni rimpianto, ha riattraversato l’oceano nella stiva di un aereo, riportando anche lei nell’emisfero boreale. Un anno da quando ha lasciato l’Argentina e una vita che pensava sarebbe stata la sua. Un anno da quando è tornata a Milano.

“Prof. sì, è vero, domani è San Valentino!” Samuel, terzo banco.

Teresa scuote piano la testa, pensando che… Ecco. Doveva accadere. E ora, come glielo spiego che è una festa commerciale, che i Baci Perugina e le frasi di Moccia e bla bla bla… no, proprio no, vi prego, ragazzi, abbiate pietà di me.

“Non ci pensate, dai, finite il tema, ne parliamo dopo”.

“Prof., perché non ci legge delle poesie d’amore, così le usiamo?”

Colpita e affondata. L’hanno messa sulla poesia, e ora che faccio?

“Va bene, dai, domani leggiamo insieme qualche poesia. Ora pensate al tema”.

“Prof., posso farle sentire una canzone?”. Eccolo lì, Rodriguez, sudamericano, i pomeriggi perduti tra gang e altre amenità, che alza la testa dal cappuccio nero mentre la luce del neon si riflette sulle sue grosse catene a maglia larga. Eh no, Rodrigez, pure tu?

“Va bene, poi, ora lavorate.”

“No, adesso, dai, me la faccia cercare sul suo computer. Domani la dedico alla mia tipa”.

Ridono. Ridete, ridete…

Teresa tace, ma Rodriguez non molla. “Dai, prof., è dei suoi tempi!”

Dei miei tempi? E cosa ne sai tu, Rodriguez dall’Ecuador, dei miei tempi?

Ma Teresa si è già arresa e Rodriguez in un balzo è sulla cattedra, le dita color nocciola ad armeggiare sul pc.

Youtubee va bè, stiamo a vedere che cosa pesca.

“Trovata prof. posso?”

“Puoi”

“Bella prof. Lei è una giusta”

Bella Rodriguez, e invece sono tutta sbagliata. Ed eccola, da siderali distanze, una canzone che ha quasi vent’anni e che questi manco dovrebbero conoscere…

BINARIO – TRA ME E TE

Un capolavoro, proprio un capolavoro… E le immagini del video poi… Teresa ride piano. Rodriguez canticchia e se ne torna al suo posto mansueto come mai. La classe ascolta. Qualcuno appunta frasi ai margini del foglio del tema…

Sarà che è notte fonda, che dalla radio accesa arriva musica lenta, messa in onda; sarà che per pensare non c’è un orario se c’hai pensieri che pesano sul serio. E non c’è dizionario, non c’è vocabolario per trovare le parole e allora scusa se son scritte male, però tu tanto mi capisci uguale, tu sei come me… Vorrà pur dire qualcosa dai se insieme a te la notte passa veloce
e con un’altra non ci starei, non potrei farlo neanche se mi piace
e stare in macchina a parlare per ore, mi piace quasi come fare l’amore,
che è una parola che non so pronunciare, c’ho confusione su che cosa vuol dire,
però mi sa che la ritrovi uguale se guardi dentro di te.
Questo qualcosa tra me e te che scava la mia ruggine,
che non fa parte delle cose che conosco
e non c’è casa e non c’è compagnia, e amico, amica o chiunque sia…

E va bene, bravo Rodriguez. Non me la ricordavo più. È perfetta per te. (Solamente?).

 

 

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ma voi ve lo ricordate quando Milano era Saigon?

Aperitivo uno, aperitivo due, aperitivo tre… la ragazza torna a casa tardi giovedì sera, ma quello che ormai tutti chiamiamo amichevolmente Blizzard torna a casa più tardi di lei…

Il venerdì, al risveglio, lo strato di ghiaccio che ormai da giorni se ne sta appiccicato al suolo, è ricoperto di un soffice doppio strato di neve schiumosa.

Nella morsa del gelo Milano se ne sta muta e immobile come in una boccia di vetro. O in una fiaba di Andersen o dei fratelli Grimm, magari La regina delle nevi, quella in cui l’eroina è una fanciulla di nome Gerda, che con il calore delle sue lacrime scioglie il ghiaccio del corpo di Kai. Ci sono pochi passi per via nelle notti e nei giorni, Milano sembra preda di un incantesimo, cristallizzata in tante stalattiti. Dicono che un pugnale di ghiaccio sia l’arma perfetta per un delitto perfetto. La gente ha paura del gelo, come del troppo caldo.

E pensare che c’è stato un tempo non molto lontano in cui Milano era Saigon, un tempo in cui parole, pensieri e umori evaporavano, e ci si trovava all’ombra delle girandole cadenzate dei ventilatori, aspettando serate che non portavano refrigerio. E l’estate non ne voleva sapere di finire, e la si sfidava ogni giorno, a chi prima cedesse. Ma perchè tanto clamore, poi? A questa età scegliere una città è come scegliere un uomo o una donna: le stagioni che ci aspettano le possiamo prevedere, resta la leggerezza, il sapore, la sorpresa dell’attraversarle insieme.

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Solo un po’ di zucchero a velo sulla vie en rose

Se avete spalato la neve per ore non leggete questo post. Non leggetelo neppure se abitate in collina, se siete rimasti imprigionati in qualche luogo o avete messo le catene alla macchina ghiacciandovi le dita.

“Solo un po’ di zucchero a velo sulla vie en rose” si ripete la ragazza, alzando lo sguardo verso la Torre Velasca virata in bianco, involontaria protagonista di un film diventato bianco, nero e muto. Perché muti sono i suoi passi sul selciato, affondando in quel sottile strato bianco che ricopre il cemento. E lento il passo di macchine e autobus, e i tram sulle loro rotaie niente più che un fruscio.

Per ventiquattro ore tutte filate bianco è il giorno e bianca la sera. E la ragazza questo non l’aveva previsto perché una immotivata convinzione l’accompagna dall’infanzia: la neve quando l’aspetti non arriva. Mai. Arriva quando ti distrai, quando pensi che ormai non giungerà a visitare l’inverno. Questo inverno, poi, scivolato in avanti così tanto da far suonare in febbraio le sue trombe… Figurarsi!

E invece.

Dicono che l’amore arrivi all’improvviso, quando meno te l’aspetti, quando hai smesso di cercarlo. Dicono. E la ragazza era davvero convinta che così fosse almeno per la neve, che avrebbe beffato la ridda delle previsioni di metereologi affidabili su per giù. E invece eccola lì, la neve, scendere con piede lento di bradipo e ricoprire ogni cosa, piano, con il passo metodico di chi non ha fretta e sa che la pazienza la vince sul tempo.

Tenera è Milano, anche sotto gelo, e questa neve ha il sapore di un lavacro, di una catarsi, o più semplicemente di una grande gomma che cancella i connotati alla città, per restituirla com’era ma diversa. Perché anche ciò che sembra non aver peso invece ce l’ha e qualsiasi passaggio lascia impronte sui luoghi e le persone in forme che non sappiamo prevedere.

Milano e la ragazza sotto la neve e il giorno dopo. Com’erano ma diverse, tutto qui.

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Varchi nascosti

Ed è quando l’aria si fa di ghiaccio che Milano diventa più bella, quando sono vuoti i tavolini all’aperto di Brera ed è poca la gente che incroci per via. Allora, a chi la sa attraversare, Milano si mostra generosa, e spalanca luoghi segreti. In quelle sere, in quelle notti, Milano se ne sta placida come un pachiderma addormentato nella penombra della sera, o come una balena dal ventre prominente.

Così, quella chiesa ricolma di ossa e cercata per giorni, chiamata con poca fantasia San Bernardino alle Ossa, si lascia trovare, comparendo all’improvviso come un varco verso un’altra dimensione. Dov’era nascosta? Eppure proprio qui l’abbiamo cercata più volte.

La porta è chiusa, ma la luce sufficiente per spiarla dalle grate. Ossa su ossa su teschi su ossa, ammonticchiati, ammassati, ma anche incasellati con cura a disegnare volte e geometrie. Sono i reduci degli antichi cimiteri milanesi del Seicento: appestati, condannati a morte, quel che resta di una donna e di un uomo quando la carne e la sua passione se ne va.

Nelle stesse sere, molti passi più in là, superati i confini di Brera, dall’immobilità della luce fioca fattasi ghiaccio può spalancarsi per caso un altro varco nel tempo, circumnavigato per anni, senza trovarlo mai. Le chiuse di Leonardo se ne stanno lì: nient’altro che un vecchio fossato con grandi porte di legno, un ponticello di pietra, una lapide muschiosa su un muro di sassi, un orto di città. Eppure, chiudendo gli occhi, qui senti ancora i suoni del canale che passa, le grida dei manovratori, i rumori di ferraglie e imbragature di un porto qualunque. Ponte delle gabelle, lo chiamavano, e un dazio c’è sempre, anche oggi per noi.

Le città in riva all’acqua hanno un non so che di speciale. Quelle con un fiume sepolto ancora di più.

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Ancora una ballata del mare salato

All’orizzonte di quell’oceano ci sarebbe stata sempre un’altra isola, per ripararsi durante un tifone, o per riposarsi e amare”.

Il 2011 è morto e sepolto, ma non è che sia cambiato molto da queste parti. Abbiamo ballato e brindato, indossato altri abiti e altri tacchi, siamo partiti e ritornati. Ma i tempi del nostro cuore poco hanno a che fare con le scadenze astronomiche e non seguono le stagioni, o forse sono impazziti proprio come loro, in questo inverno così tardi incominciato, seguito a un autunno che non c’è stato e ad un’estate non finita mai.

Consuetudine vuole che ci si prepari al nuovo anno con l’acquisto di un’agenda. E di un’agenda ha bisogno anche chi vive alla giornata, anzi forse ancor di più. Ma quest’anno la ragazza la sua agenda la compra in saldo, passati i fuochi della festa, quando già più tramonti hanno bruciato i primi giorni del 2012. E che male c’è, se poi tutto sembra un po’ in saldo di questi tempi? Tutto, tranne l’amore.

Lo scaffale della libreria offre diverse possibilità.  Su coraggio, ritardatari, acquistate il vostro 2012 al 30% o al 50% ! Quale migliore occasione?

A un’agenda, come alla vita, ciascuno chiede quel che vuole. Chi la vuole minuscola da stare in un taschino (gli uomini), chi la vuole grande ed efficiente (le donne). La ragazza la vuole piccola e leggera da stare in borsa, ma che ogni giorno abbia la sua pagina. E se l’anno scorso era tempo di mantenere salde le radici con un’agenda letteraria infarcita di citazioni d’autore, quest’anno è invece tempo di navigare mari ancora sconosciuti.

Tra lei e l’agenda rossa con le illustrazioni di Hugo Pratt è amore a prima vista. Corto Maltese se ne sta in fronte, sigaretta in bocca e cappello da marinaio a parlar con un uccello. Come resistergli? Lei prova a guardarsi intorno, a valutare, a cercare altro, ma la scintilla è scoccata, e la ragazza quando si innamora non passa la mano.

E così se ne va nella sera con Corto Maltese nella borsa, i suoi oceani, le sue navi, i suoi paesi tropicali, intonando ancora Una ballata del mare salato.

 

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Diario (poco serio) di un addio

30 dicembre 2011 – ore 8.00  Vediamo un po’ che altro ti inventi nelle 40 ore che ti restano, tanto lo sai che solo uno di noi due sopravvivrà, e non sei tu!

30 dicembre 2011 – ore 21.30    E va bene, usciamo insieme stasera, è la nostra ultima notte. Abbiamo avuto una relazione complicata, tormentata, mi hai fatto piangere, ma anche ridere. Ce ne saranno altri, spero molti, ma di te non mi dimenticherò facilmente. E poi te l’ho già detto, solo uno dei due sopravvivrà, e non sei tu.

31 dicembre – ore 11.10   E me ne hai fatte fare di valigie, tu, tra oceani e continenti, vele e Meltemi, matrimoni e altri disastri. Questa è davvero l’ultima valigia che faccio per te. Ma domani, al decollo, tu sarai già morto e sepolto.

 

31 dicembre – ore 19.30     E va bene. Mi faccio bella l’ultima volta per te. Tacco e tubino. Per essere splendida al tuo funerale. E al nuovo che verrà.

 

 31 dicembre 2011 – ore 23.00     Ma dove mi hai portato? Giovani donne in pelliccia, musica soffusa, pianobar, ma questo è il capodanno del 1990 nel cuore della Milano da bere! Che dici? Che dopo la mezzanotte cambierà tutto? Stiamo a vedere…

 

31 dicembre 2011 – ore 23.59      Certo, non potevamo che dirci addio così, sei stato proprio un tipo strano e hai cambiato la mia vita… guardami qui, adesso, su un improbabile tacco 12, in una Milano rampante inconsapevole del suo declino già compiuto, ecco questo proprio non l’avevo previsto. Comunque, addio.

 

 

1 gennaio 2012 – ore 00.00   Piacere, sono una ragazza un po’ complessa, ma simpatica. Brindi con me? Balliamo insieme stanotte? E per i prossimi dodici mesi.

 

1 gennaio 2012 – ore 3.00     Beh, che dire? La prima impressione non è male, sento che potremo andare d’accordo io e te. Ma ancora giovane e tenera è la notte.

 

 1 gennaio 2012 – 6.45    E la bellezza di Milano deserta nelle strade che portano alla prima alba.

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Nàufraghi (in città)

In una mattina di Natale che ha rubato all’estate il suo cielo, la ragazza cammina da sola nella luce obliqua che disegna geometrie su facciate e balconi, studiando tecniche di sopravvivenza per feste comandate e altri disastri.

Ai piedi di un vecchio palazzo, uno di quelli di primo Novecento che le piacciono tanto, se ne sta una giovane donna in bianco e nero, appoggiata piano al vecchio portone. Il suo abbigliamento è fuori moda, vagamente anni Trenta: una gonna longuette, le scarpe due francesine nere dai lacci sottili, di quelle che indossa anche la ragazza, perché sono tornate alla moda.

La ragazza inciampa sui suoi passi per caso, e per caso si ferma a parlare con lei. Antonia la conduce con le sue parole per le vie di Milano e poi lungo i fiumi e su fino alle montagne, le racconta del liceo Manzoni e di un amore intenso che le fu proibito, di un gruppo di filosofi e poeti con cui condividere il tempo. Il suo viso è sfuggente, i suoi occhi densi, i capelli corti e chiari un po’ arricciolati all’orecchio, uno di quei tagli che non si usano più. Ha gli occhi di donna su un viso di ragazzina.  Non è un caso incontrarla a dicembre, perché dicembre e non aprile è il più crudele dei mesi.

Antonia ha 26 anni, 26 anni per sempre.

Gli incontri più importanti avvengono per caso e talvolta le passioni più forti nascono per persone che al primo sguardo, in fondo, non ci avevano colpito un granché. Succede con gli amori, succede con i poeti. La poesia di Antonia Pozzi arriva così nella vita della ragazza, entra piano con le parole di quel viso magro la cui pelle sottile sembra starle attaccata addosso per caso e non per molto. Si infiltra nei suoi pensieri, e resta per un po’, a sedimentare.

Anche questo avviene camminando in città, avviene che diventino nostri i passi e i pensieri di altri passati sulle cui orme ancora ci muoviamo, pur senza saperlo. Avviene che diventino nostre le loro parole, incrociate per caso in un inganno del tempo.

Morte di una stagione (1937)

Nàufraghi (19 dicembre 1933)

Nàufraghi sugli scogli

ognuno narra

a sè solo – la storia di una dolce casa

perduta,

sè solo ascolta

parlare forte

sul deserto pianto

del mare -

Triste orto abbandonato l’anima

si cinge di selvagge siepi

di amori:

morire è questo

ricoprirsi di rovi

nati in noi.

 

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Va bene, Milano

Va bene, Milano. Facciamo un patto.

Anche se a volte sento i miei piedi farsi radici e sprofondare sotto il tuo cemento, fino alle viscere della tua pancia di metropolitane e tubature, non per questo ti appartengo.

Anche se prima o poi mi rassegnerò a trovar casa, perché si dice prima o poi convenga (in quale accezione del termine non è chiaro), il nostro sarà un rapporto a tempo determinato. Lo determineranno gli umori e le stagioni, gli incontri e i risvolti imprevedibili dei giorni. Mi vedrai sempre in procinto di partire e la mia valigia sarà dietro alla porta. E non potrai chiedermi di più. Ma forse tu sei proprio per quelli che ti amano in attesa di andar via.

Ti ho un po’ trascurato, ultimamente, o forse ti stavo vivendo così che ragionar di te perdeva senso. Nel frattempo, l’estate che non voleva finire si è mascherata di un finto autunno, che tra poco finirà senza aver vissuto, lasciando la nostalgia un po’ amara che lascia l’incompiuto. Fuori dalla finestra nel cortile qualche foglia gialla ancora non si arrende, e se ne sta aggrappata al suo ramo secco. Mi fa tenerezza, perché ci sono giorni che se ne stanno così, come lei, aggrappati a un niente. Ma dicevamo, Milano, lo so, divago.

Anche se camminarti di notte m’innamora e i miei tacchi sull’asfalto non ti fanno male. Anche se assorbi e rilasci storie e mi meraviglio di quante tu ne possa contenere. Anche se questi e tutti gli altri se.

Milano, io non ti prometto fedeltà, ma che sia finché sarà.

 

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Ci sono città

“Si passa la vita a rimpiangere ciò che si ha avuto fretta di perdere”.                                     G. Ungaretti

La ragazza guarda a testa in su la finestra chiusa di una casa che da moltissime stagioni non le appartiene più. Questa non è Milano e non è Roma. Questa è Pavia, con i suoi studenti sempiterni a far vociare i cortili, con la sua nebbia che penetra le ossa e arriccia i capelli.

Ci sono città in cui è bello ritornare, come a vecchi amori senza gelosia. Ed è bello far risuonare dei propri passi i selciati di strade un tempo consuete, lungo antiche traiettorie riscoperte intatte a ogni angolo. E se qualcosa è invecchiato o sciupato o maltrattato dal tempo ci fa ancora più tenerezza, come nuove rughe scoperte d’improvviso su un viso amato qualche tempo fa. Così, affacciandosi da un ponte o sedendosi nel centro di un cortile, il tempo si rivela nella sua immobilità, se riscopriamo che in qualche parte sconosciuta di noi quel luogo è rimasto conficcato sempre, anche mentre percorrevamo e vivevamo e amavamo altri ponti, fiumi, strade e piazze.

La ragazza riguarda a testa in su la finestra chiusa di una casa che da moltissime stagioni non le appartiene più. Ed è bello pensare che ci siano nuove vite ad abitarla, ed è strano pensare che quelle vite ignorino i suoi anni allegramente consumati tra quelle mura. Ci sono città di passaggio per definizione: lo sono, prime tra tutte, le città universitarie. Si arriva, si vive, ci si laurea, si va. Certo qualcuno si ferma, ma forse soltanto per testimoniare con la sua permanenza che le vecchie stagioni sono trascorse. Nelle città di passaggio è ancor più bello ritornare, in una mattina d’autunno, con in testa altre canzoni e in tasca altri spiccioli.

E non c’è rimpianto né nostalgia né gelosia né stupore, ma solo sentimento del tempo.

 

 

 

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Per quattro voci, in un pomeriggio d’autunno

TERESA: “Diciamo la verità, ragazze, questa fase della mia vita non potevo immaginarla. Quella che sono stata una volta non si ricorda più di quel che sono adesso, ho letto ieri sera… ed è così che mi sento. Un anno fa riempivo una grande valigia di pesantissimi dettagli per oltrepassare il mare, e ora, che quella valigia l’ho già disfatta molte volte, talvolta ne sento ancora il peso. Credo che quel peso si sia annidato da qualche parte, in qualche muscolo delle spalle di cui ignoro l’esistenza, e che se ne stia lì, per dispetto”.

MIRANDA:  “Era sempre tutto diverso da com’è, nella nostra fantasia. Ma anch’io, credete che me l’immaginavo così? Ho cercato per anni una casa, l’ho desiderata e voluta, e adesso che ce l’ho, vorrei soltanto andare via, affittarla, venderla, partire, sparire… Perché una casa bisogna riempirla e io non so ancora di che cosa, e mi opprime con quelle pareti così pulite e le sue stanze luminose e vuote”.

RAGAZZA: “E lo venite a dire a me? Lo sapete, come m’immaginavo io. Ci pensavo guardando il mare, con le mani aggrappate al timone, le vele spiegate e sconosciuti intorno. Ho imparato che non c’è vento favorevole al marinaio che non sa dove andare. Che avere una direzione è l’unico modo per farsi portare dal vento. Che in base alla direzione e al vento scegli l’andatura, solo così puoi lasciarti portare. In caso contrario, nella migliore delle ipotesi resti fermo, nella peggiore  muori di fatica. Ma ora che questa lunghissima estate ha sgocciolato i suoi ultimi giorni, ora che l’autunno si riappropria del suo tempo, ora che siamo oltre la metà di ottobre, ora non ci sarebbero più alibi per scegliersi una rotta”.

AZZURRA: “…e pensate davvero risolverebbe tutto? È poi così necessaria, una direzione? Ridete, lo so. Ridete perché sono io a parlare, io che nulla ho lasciato al caso, io che ho scelto vento e direzione, andatura e compagnia. Eppure anch’io mi immaginavo così ma diversa da così. E a volte mi domando se non sarebbe stato meglio non avere fretta, lasciarsi portare dagli eventi. Lasciarsi andare alla vita, con fatalismo e noncuranza, farsi scegliere, accettare”.

 

 

 

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