IL GREMBO SECONDO DE LUCA

In tempi di giustificazioni e violenze manifeste, di sequestri irrisolti, appelli alla pace e fuochi di impunità etica, pare che l’unica ricorrenza in grado di far tacere e beare le menti per settimane sia il Natale. Non molte sere fa, a proposito, ho potuto assistere al debutto milanese di Provando in nome della madre, spettacolo-prova nato da testi di Erri De Luca, in primis quello più simile nel titolo, il romanzo In nome della madre. Come forse già confessato, considero De Luca tra gli autori più promessi all’eternità, intesa come radianza di voci. Eppure, leggo oggi nel domenicale del “Sole 24 Ore”, De Luca viene più spesso incluso tra i soliti che un tempo bruciavano auto e ora difendono incoerentemente la protesta civile, tra quelle ideologie labili contro cui è pur giusto scagliarsi se ben si conoscono i passati. Chi scrive quell’articolo forse dimentica alcune tappe della carriera dell’ex Lotta Continua napoletano, perché così è più comodo classificarlo, uno che mai si è ritrovato a dirigere testate generaliste o a cucirsi addosso abiti da sarto e scrivere articoli prezzolati. Chi sgrossa il mazzo delle carte unte, dimentica che il comunista reazionario partì per Belgrado nel ’99, durante i bombardamenti della Nato, e lì prestò servizio dal basso di una manovalanza che poco ha a che fare con le armi lucide della nuova platea acquistata a suon di presenze e favori tra padrini.



La materia lirica e vicenda di Miriam-Maria che tutto d’un tratto si fa divinità e grembo – tradizione rigorosamente attinta alle fonti ebraiche di cui De Luca è traduttore meticoloso in nome dell’obbedienza al senso originale – non fa invece ombra alla laicità dichiarata e difesa dall’autore. Alla sua condotta austera, ritirata anche a lato del palcoscenico, in nome della carnalità sacra di una storia che tuttavia da secoli avvince proprio per quello spirito ospite della carne, forse nell’identico modo in cui per De Luca ogni scrittore è ospitato da un lettore. E da queste premesse già alte si leva un testo che è perlopiù un affresco letterario, lirico delle Scritture lavate il più possibile dalle colpe e oscurantismi di secoli di interpretazione. Da ciò che il Cristianesimo ha più volte imposto a un corpo femminile condannato a patire in ragione di una mela che altro non era se non una conoscenza da afferrare prima degli altri. Di fatto, le fonti non ammettono malevolenze divine, e il parto di Miriam avverrà sì con fatica, ma senza una cattiva intenzione o una condanna pregiudiziale.

La voce e i modi asciutti di De Luca, narratore onnisciente preposto alle scene su una sedia da capanno, difende il grembo di Miriam proprio dal qualunquismo del giudizio per abbozzare delicatamente un silenzio antico che scalza le correnti. Più inafferrabili e bisognose di regia, invece, le altre due presenze d’attori nei ruoli di Miriam-Maria e Joseph-Giuseppe faticosamente visibili oltre la bellezza di sequenze di testo in cui resistono sì le musiche, il fazzoletto rosso operaio e la giubba Fiat, ma poco ancora le assi di prova dove solo la poesia sa essere permanente e permeante. Un po’ come quel brano di Pianoterra in cui le radici amorose sono comuni alla piena ammessa nel canto ebraico della Shulammita:

«“Io sono del mio amato e sopra di me è la sua piena”, dice la Shulammita del Canto. Prende questa parola piena-teshuqà dalla Genesi, dove appare in due punti drammatici. La ascolta Eva dalla voce di Dio al momento della cacciata dal giardino. Insieme agli sforzi del parto è condannata a provare attrazione per il maschio: “Verso il tuo uomo e la tua piena”. La ascolta Caino nell’avviso che Dio gli dà prima dell’omicidio: “Se non agirai bene, all’ingresso giace il peccato e verso di te è la sua piena”. Dunque la Shulammita parlando d’amore col suo amato sceglie una parola rara che è usata solo da Dio e che è segnata da una maledizione e da un avvertimento.

Continuo a inseguire. Nel verso seguente la Shulammita dice: “Vieni mio amato, usciamo dal campo” (Canto dei Canti 7, 12). Caino nel verso successivo all’avvertimento di Dio, porta Abele nel campo e l’ammazza. A questo punto l’invito d’amore della Shulammita dà i brividi. Ha nominato la teshuqà e poi chiama all’aperto il suo amato rinnovandogli il luogo di appuntamento di Caino e Abele: stesse parole, piena e campo, stessa sequenza di versi, uno dietro l’altro. Inseguo un mistero e una profondità, ora devo provare a spiegarmeli. Penso a questo: la Shulammita sa che quando l’amore sale nel cuore, supera ogni argine, tracima, inonda. In quella piena si è senza riparo, in campo aperto, un luogo come quello di Caino. Con quelle parole lei rivela all’amato che la teshuqà è un rischio mortale, che gli abbracci sfrenati contengono agguati. Invita, sì, ma ricordando Eva e Caino. Chi legge i versi della lingua sacra s’imbatte in improvvisi abissi, anche in un libro colmo di soavità qual è il Canto dei Canti. Ho provato a darmi un’obiezione: Caino e Abele sono fratelli, mentre la Shulammita e il suo amato no. Ma ho dovuto scartare l’ostacolo perché il suo uomo la chiama ahotì, sorella mia, non una volta sola, ma cinque. Il vincolo di richiamo tra i due episodi è profondo e voluto.

La Shulammita insegna un’antica lezione dell’amore, un sentimento così forte che fa venir voglia di chiamarlo “ammore”, come da noi al Sud. Oggi si è sbriciolato in precauzioni, in pillole, secondo una medicina preventiva».

È forse una colpa oggi nascere da un grembo controverso? Non è piuttosto l’invidia la radice del problema?

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LA PIENA DELLO SPETTACOLO

Si sentono troppe voci orientate su un identico marcio che non è in Danimarca, non nell’altrove tanto confortante e di inguaribile saggezza a confronto con la protesta nazionale che ogni giorno ripropone scioperi e astensioni a favore di una difesa del mestiere. Perché questo si dice di un attore navigato, che ha mestiere e grazie a quella leva sa saltare il fosso delle opinioni o critiche pirotecniche sparse sui quotidiani. Perché non fare lo stesso allora con i mestieri riuniti, con le voci dei teatranti e musicisti, autori e registi che da settimane combattono l’indifferenza su cui calano omissioni ministeriali con una gravità unidirezionale e avvilente?

Non si è mai sazi di vergogna, si continua a vomitare risposte prevedibili, a sproloquiare nei salotti televisivi quando basta l’ordinarietà di un contratto non rinnovato, uno stage non retribuito e proposto con fegato ammirabile a ultramaggiorenni assetati di miglioramento, un ente pluripremiato che per mesi non retribuisce finché i fondi non verranno sbloccati, o semplicemente l’adesione silenziosa a una minima esperienza di qualche mese che possa far crescere e scattare prestigio sul curriculum per poi finire fagocitata nella scusa della crisi che la vedrà non rinnovarsi mai più. E allora, che fare? Servire ai tavoli, accumulare ore e provvigioni in un call-center, fare consegne e pulizie, tutto finisce per tracciare la carta di una regione desolata dove chi ne soffre non può concedersi nemmeno la trasparenza della rabbia. Le età si sprecano, come le abilità di scuse per non rispondere a richieste che prevedono almeno di svolgere una prova o si scontrano l’impossibilità ormai del “mettere in regola” nemico del cattivo vizio quotidiano di sfamarsi accettando necessariamente il canone inverso delle precarietà.

E il mondo zingaro dei teatranti che tanto fa comodo a svagarsi dopo una lunga giornata di colloqui e benefici di notorietà, non merita coesione e pari dignità di ingegno. Una passione che fa sorridere, piuttosto, è la sua definizione più lieve sulle labbra dello sconosciuto che non sa di annientare subito quella piena di identità e sacrifici in forze ancora per poco. Il mestiere tracima e si contamina con le vite solo quando sa di poter contare su un ascolto e lì ritorna il monito di Brecht, ritorna quella scienza dell’osservare che tanto sembra essersi persa in mezzo alle generalizzazioni che tappezzano i muri di casa. Ormai l’orma sguaiata dell’ascesa a un posto qualsiasi nella fila degli attendenti di Sua Maestà conta su offerte e panegirici imbarazzanti più per chi si trova a valutarne l’opportunità di ritorno che non per l’offerente. In fondo, il dealer è uno spacciatore consentito dalle obbligazioni degli scambi, da tutte le prime volte di un mestiere che non avviene più per il merito di una formazione, ma di una lecita agevolazione di famiglia.

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SPERIAMO CHE SIA

«All’uomo che cavalca lungamente per terreni selvatici viene desiderio d’una città. Finalmente giunge a Isidora, città dove i palazzi hanno scale a chiocciola incrostate di chiocciole marine, dove si fabbricano a regola d’arte cannocchiali e violini, dove quando il forestiero è incerto tra due donne ne incontra sempre una terza, dove le lotte dei galli degenerano in risse sanguinose tra gli scommettitori. A tutte queste cose egli pensava quando desiderava una città. Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi».

Italo Calvino, Le città invisibili

Dovrebbe nascere come omaggio questo nuovo post, anche se dal presupposto scelto di un palcoscenico virtuale e dalla sua metafora sparsa e libera da ossequi meccanici. Omaggio a quell’esile e fiero maestro che pochi giorni fa si è gettato, come già fece il padre, da una montagna di camere di ospedali e anni di pazienza. Mario Monicelli ha replicato una scena che aveva già visto, si è immedesimato in un manifesto che disconosceva a chiare lettere il senso e la vocazione a una speranza estesa a una forma d’arte tanto perseguitata oggi da chi, come per il teatro, non ne ammette dignità di voce. Ho pensato mille volte al grido sommesso e insieme plateale di Monicelli, ai suoi occhi chiusi o aperti nella trasvolata fino alla cessazione delle illusioni che però – e il cinema come il teatro se ne nutre a pieni polmoni – risanano meglio di medicine e assunti scientificamente dimostrati.

Mi sono chiesta a quali versioni di rabbia e stanchezza si sia rivolto abbandonando tutto, se alla malattia troppo a lungo protratta o al calore immane e insopportabile del suo opposto nella vita comunque malata che costringe a non saper nemmeno abbozzare il futuro di domani, rimasto in coda subito dopo la precarietà dell’arrabattarsi. Oppure ancora a quella Grande guerra che non sembra essersi spenta nei fanali di chi è troppo cannibale per rinunciare a far dialogare noi prigionieri simili della stessa sceneggiata e calata di poltrone che timonano il mondo. Ricordo di essere cresciuta mille volte quando ancora piccola guardavo alla televisione Speriamo che sia femmina, pellicola intensa, animata e struggente di sole donne forti, rapite da se stesse e dalle contrarietà veraci della campagna toscana. Ricordo i segreti della loro casa, il ferro da stiro scaldato alla vecchia maniera e l’eleganza svanita di alcuni personaggi devoti alle conversazioni come ai tentativi di alleggerirsi i pesi a vicenda facendo delle confidenze intime le prime occasioni di una famiglia allargata e amabilmente ingombrante.

Mario Monicelli mi ha fatto ripensare a quel padre che tira il carrello in The road di Cormac McCarthy, quando attorno la scena è sempre più in preda di se stessa, rivoltandosi contro il proprio non essere e la rimozione di ogni probabile avventura di salvezza destinata forse a un figlio possibilista. A lui resta l’unico proiettile, così come il raggio di luce dei quadri di Hopper ripiegati su donne alla finestra di cui rimangono le nudità esposte in segno d’abbandono di qualsiasi collettività. Resta il nastro di Krapp che non smette di ripetere e perpetuare un’ultima leva di coscienza, laddove per Mario non è certo un fallimento di carriera, quanto più la decisa espropriazione delle ossa, quella che la legge italiana non consente inducendo le anime forti a esasperazioni livide oltre cui soltanto il gesto può imbarcarsi e passare il testimone.

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BONDI, MANI DI FORBICE

Scioperi, dibattiti e astensioni dai set hanno caratterizzato la ridda di proteste necessarie degli ultimi giorni per la decisione del governo di proseguire con un Fus inesistente sotto ogni profilo di copertura nazionale. Con quei miseri 288 milioni di euro, cui non si aggiungerà nemmeno un centesimo, molte realtà, a partire da quelle più macroscopiche come la Scala, fino alle compagnie teatrali di origine più recente e circoscritta, dovranno fare i conti. E così deve bastare, perché agli artisti fannulloni – si ricordi a proposito l’insultante sceneggiata del ministro Brunetta – nulla in più dev’essere concesso a meno che non rientrino per altri meriti di natura, certo più generosa, nelle grazie assolute del premier.

È sempre più doloroso constatare come stia prendendo piede uno stillicidio che non ha nulla a che vedere con i propositi per una migliore e più ponderata territorializzazione della cultura, con la doverosa valutazione di criteri equi. I tagli al Fus investono piuttosto l’etica di un giudizio che dovrebbe imporsi con lungimiranza sulle opinioni cieche che continuano a rifiutare lo spettacolo in quanto genere di produzione spendibile, e così a negarne il valore di crescita anzitutto occupazionale oltre che creativa e dunque grembo dello spirito. Ma forse per il ministro valgono più quei versetti improbabili e buonisti con cui ci delizia sulle pagine settimanali di “Vanity Fair”.

Fa male respirare la solita aria fetida, i rifiuti non galleggiano soltanto a Napoli, ma dentro l’ascolto critico che non ne può più di rigettarli indietro e finisce per trovarsi immerso nell’indifferenza più deprecabile. Mettere una faccia, questo è il contenuto prosaico di chi sale su un palco, scrive, dirige e ora abbandona per protesta. Una cantilena ormai ritrovarsi in coda a un provino e inermi osservare che si tratta in fondo di una formalità perché il cast è già concordato, lo sceneggiatore già scelto, suggerito da quella categoria di alte sfere che Woody Allen definirebbe “esperta in scienze follicolari”. Perché davvero poco manca a che diventi facoltà, nell’altro oceano di baronati e riforma scolastica senza appigli. Cultura e formazione ridotti a pezzi dalla via più semplice del favoritismo cui si è riconoscenti perché si occupa un posto a sua volta “favorito”. Un catena fordiana di nefandezze cui la cultura che ci mette la faccia non può non rispondere con rabbia.

Quel motto strehleriano del “Teatro d’arte per tutti” possedeva anche questa valenza, sottolineava l’urgenza già allora di varcare il confine delle scene attraverso le scene, di rendersi materia pubblica oltre che elevato confine dell’arte. E il fatto che il teatro e la gente che lo abita, più del cinema e soprattutto degli enti lirici che piangono miseria da sempre, sia abituato al sapore acre della fatica e della precarietà, non  giustifica, anzi, dovrebbe allertare chi abusa di questa pazienza e del sacrificio che la sostanzia. Scrivere un copione è ormai diventato un privilegio, perché o ci si associa e si vince un bando, altrimenti senza anelli opportuni con chi eroga fondi le parole restano mute.

La strada è invece ormai del tutto spianata per procaci starlette bulgare (si legga a proposito “Il Fatto Quotidiano” che come sempre ha svelato per primo questi imbrogli http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/11/24/la-telefonata-arriva-durante-l%E2%80%99estate-nella/78466/) per cui il ministro Bondi si batte e suda presso la Mostra del Cinema di Venezia affinché venga forgiata una targa fasulla che calmi i bollenti spiriti artistici dell’attricetta e scrittrice cara al Cainano. O ancora si prodighi a estrarre magicamente dal cilindro denari freschi per conto del teatro di Novi Ligure, dove è noto risiede l’attuale compagna. E poco importa che Pompei si sgretoli davanti ai suoi occhi, le colpe verranno sempre demandate a ignoti, come l’appartamento senza identità di Scajola. Ma appunto gli artisti sono dei fannulloni, ecco, almeno un colpevole esiste.

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TONI O LA TRILOGIA DELLE APPARENZE

Da qualche tempo mi è sempre più difficile comprendere le ragioni di un teatro classico che, già nella comoda etichetta, rischia di perdurare fiacco e affidarsi ai capocomicati mai morti. E mi è altrettanto ostico fissare la rigidità preconcetta di qualcuno come Isabelle Huppert che, solo qualche anno fa, elencava immobile il monologo 4.48 psychosis di Sarah Kane, rendendo vana ai miei occhi qualsiasi cifra stilistica e qualsiasi crudezza. Mi è faticoso rileggere Goldoni perché non posso non preferirgli Shakespeare, «un pezzo di realtà», direbbe Peter Brook. Ma a mia volta sto etichettando e le barriere non nutrono nessuna libertà espressa, nessuna parola pubblica. L’ho imparato proprio dal cosiddetto teatro all’italiana, quando ancora piccola mi innamoravo dell’Edipo messo in scena nei primi anni Novanta da Glauco Mauri. Tracce magistrali appunto, come Strehler e la sua luce tonda di sole unico oltre la tela bianca ne La tempesta, immagine che continuo a ritrovare se non proprio identica, ma certo citata e altrettanto impunemente ripudiata con spocchia da palchi di ricerca e tradizione. Ma allora perché tanta fatica? Forse perché ritengo che alcuni testi andrebbero meglio adattati in funzione di una sintesi emblematica o in funzione di una poetica che tardo a ritrovare?

Eppure, proprio ieri sera, assistendo alla replica de La trilogia della villeggiatura di Goldoni diretta da Toni Servillo, tra i fondatori della storica compagnia napoletana di Teatri Uniti, ho avuto la sensazione netta che la discriminante resti sempre la misura di una finzione. Il processo creativo continuo che osservavo – e già apprezzavo nel cinema fautore della riscoperta di Servillo solo dopo troppi anni di carriera teatrale pressoché riservata agli addetti ai lavori e la cui prova più recente e forte si coglie certo in Una vita tranquilla di Claudio Cupellini fianco a fianco con il bravo Marco D’Amore – era certo una decisa recitazione verbosa, sardonica ed esibita, ma non nel senso più improbabile del termine, ossia come meccanismo che gode nel varcare il limite di sopportazione dello spettatore, ma piuttosto come controcanto semantico al copione. Servillo e gli altri hanno cioè reso le apparenze di cui tanto Goldoni ha scritto l’occasione di un adeguamento contemporaneo ai lazzi di chi non se li può permettere, la parodia sociale di nuclei famigliari senza possibilità di riscatto che il rifugio nelle proprie sembianze distorte dallo sperpero e già dall’elemosina che condanna le relazioni più pure.

Non si è mai trattato di evasione compiaciuta nell’eccesso, quel fianco che si tende naturale insieme con il mento nel personaggio di Ferdinando reso carne di opportunismo frivolo da Servillo o, ancora, una Giacinta che domina la scena negli occhi di Anna della Rosa, puntati a mentire all’amato con credibilità e fibra devotamente femminile, levano alto il ritratto originale delle apparenze goldoniane nefaste fino ad oggi. La misura appunto, la prova provata che anche il Settecento, i costumi, le balze delle menzogne, se trafitte dai personalismi, non sanno far altro che annoiare. Se coinvolte in un ritratto dai margini dinamici, accolgono tutti gli sguardi e si prendono gli applausi senza distinzioni di ruolo, mano nella mano fino al margine del proscenio. Quasi spontaneo dire allora: «vieni via con me, Toni».

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UN UOMO PURO

Scrive Jean Cocteau ne Il mistero laico: «Un uomo puro non deve commettere nella sua vita nessuna azione che possa essere giustificata con facilità davanti ai tribunali, e i tribunali non meritano mai lo sforzo di un uomo puro. Un uomo puro cessa di essere tale nel momento in cui accetta una posizione vantaggiosa e trae vantaggio da una qualsiasi situazione».

Quale impressione di colpevolezza più manifesta invade il pensiero della contemporaneità? Quale sfida coerente, dettata da bisogni essenziali e interni allo spirito si fa largo nelle notizie a ruota continua che fanno della politica una scena fin troppo sbraitata? Eppure, l’uomo puro non cede, qualche traccia della sua saliva e dei suoi polmoni persiste nel giovane disoccupato senza altre armi che una compagnia di attori, un taccuino, una mano ferita da una macchina non in sicurezza o un figlio piegato dalla solitudine? A ben guardare, di uomini puri ne agguantiamo troppi mentre scorriamo dentro metropolitane e tunnel di strade, o ce ne rendiamo conto assistendo a una messinscena filmica o teatrale. Lì si ripete la memoria dei loro volti nella tradizione e nel presente.

Serve allora una qualche trasfigurazione a renderceli più elevati e distinguibili, a non fare come le maree di informazioni sconnesse che avvolgono con indifferenza e anonimato il quadro delle schiere sociali. Qualcuno che ha pagato per zittire e crede di farlo per il bene della propria sopravvivenza saprà sempre condannare chi non fa altrettanto, ma l’uomo puro accetterà un’altra misura e un’altra ossessione. Proverà a recitare il silenzio e urlare lo sdegno quando l’ipocrisia dei consensi vorrà emarginare la sua fortuna laica e ideale, costruita sull’onestà intellettuale e il diritto riconosciuto. Recitare per l’uomo puro significa estromettersi da palcoscenici previsti e sceglierne altri imprevisti, gelidi per i quali deve sempre prendere il respiro. Basta una gru sollevata sui tetti e gli attici a restare immobili e ignorati per dieci giorni, attendendo che solo il malessere degli organi solleciti il raglio di un’autorità di tutela che invece punisce.

L’uomo puro attende, forse crede ancora nelle sopravvivenze dei sogni e negli a parte che si è ritagliato davanti a platee di telegiornali e fischi comodi a garantire le suddivisioni nette e i salotti con telecamera. Guardo ancora quelle dita di vittoria che torneranno indietro cacciate e ricacciate dalle definizioni ballerine dei reati. E nel rewind insolente, quegli occhi spartiranno l’altra convinzione di Cocteau che recita: «C’è forse qualcosa di più terribile che osservare, a loro insaputa, persone di nostra conoscenza mentre credono di essere sole? Disagio di un ballo, dove ci troviamo mascherati di fronte ad amici senza maschera, che posano su di noi uno sguardo sconosciuto e parlano una lingua nuova».

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MEGLIO VITTIMA CHE TEATRO DEGLI INGORDI

Il 2 novembre 1975 moriva Pier Paolo Pasolini. Nel giorno di una ricorrenza dolorosa per molti di noi che hanno ancora bisogno di eroi, si sputa che sono meglio la fame sessuale e l’abuso allo stuolo pericoloso dei ricchioni. Sì, perché gay è l’unico ritegno in bocca a un ingordo senza limiti di brame e decreti che lo obblighino alla decenza. Del resto, come dimenticare meglio in questo clima di ossessione all’ascolto e consenso un poeta, drammaturgo, saggista e regista che difendeva anche brutalmente il valore esistenzialistico dello scrivere come altra fame e sete? Come zittire più efficacemente un “ossesso” non certo di volgarità impunita, ma istinto insopprimibile verso un’azione che è prima di tutto espressione?

Da questa soglia di oggi, fatta di una memoria improbabile e insultante, un vuoto che così abilmente distingue noi italiani impegnati a frugare e filmare i delitti altrui o a sorridere, giustificare e persino condividere la bava indecente di un premier che erutta solo vergogne, ci scordiamo del poeta che iniziò a comporre in friulano e criticare proprio questa «forma razziale dell’umanità», smania pericolosamente borghese. Un poeta fratello di Ginsberg cosciente di un episodio tra mille: «Nessun artista in nessun paese è libero. Egli è una vivente contestazione». Ritorno a Pasolini, sì, so di avergli già dedicato un’ampia pagina, ma le parole servono da echi e nuovi ossessi quando la brevità è il metro che si addice all’ingratitudine delle sole condanne pubbliche e derive di un manifestante inascoltato. Il vero porcile è quell’inferno con cui convivere senza destarsi, l’orgia violenta dell’indifferenza.

«E oggi, vi dirò, che non solo bisogna impegnarsi nello scrivere:

bisogna resistere nello scandalo

e nella rabbia, più che mai,

ingenui come bestie al macello,

torbidi come vittime, appunto:

bisogna dire più alto che mai il disprezzo

verso la borghesia, urlare contro la sua volgarità, sputare sopra la sua irrealtà che essa ha

eletto a realtà,

non cedere in un atto e in una parola

nell’odio totale contro di esse, le sue polizie,

le sue magistrature, le sue televisioni, i suoi giornali:

e qui

io, piccolo borghese che drammatizza tutto,

così ben educato da una madre dalla dolce e timida anima

della morale contadina,

vorrei tessere un elogio

della sporcizia, della miseria, della droga e del suicidio:

io privilegiato poeta marxista

che ha strumenti e armi ideologiche per combattere,

e abbastanza moralismo per condannare il puro atto di scandalo,

io profondamente perbene,

faccio questo elogio, perché, la droga, lo schifo, la rabbia,

il suicidio

sono, con la religione, la sola speranza rimasta:

contestazione pura e azione

su cui si misura l’enorme torto del mondo.

Non è necessario che una vittima sappia e parli.»

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CHI E’ DI SCENA IN POESIA?

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«Gli occhi si sono fatti di sale nel voltarmi

i pensieri si sono fermati nei gesti, nel silenzio delle cose fatte;

ho raccolto le briciole del dopopranzo

e le ho scosse nell’aria vitrea del giardino

dove è appena spiovuto e irrompe il sole.

Qui, anche il più lieve soprassalto del merlo oltre la siepe

sta fermo e stanno ferme le mie parole come navi in bottiglia.

La vostra lingua è la mia, ma la mia non è la vostra

mi son sentito pensare mentre in casa lampeggia in penombra

il televisore e una musica epica diffonde l’eleganza di una berlina.

Tengo per me cos’è curare il fuoco

l’odore spesso di legna bagnata, lo stoppino fra le dita

lo stare di tutti i giorni nelle cose da fare, dentro un’altra luce

rotta dalle nuvole, un diverso tramontare allacciato agli alberi alti

pieno negli occhi delle case, sulle bestie dei poveri;

un po’ qua un po’ là

si sta soli così, oggi, un giorno così, un giorno più soli».

Pierluigi Cappello

Non esiste una regola fissa nelle scoperte, quelle che fanno ombra al mercato e decidono che sfogliando un quotidiano sia ancora verosimile scoprire un grande poeta. La scorsa estate non ho potuto non soffermarmi su Pierluigi Cappello, poeta friulano di Tricesimo.

Ci si può domandare a questo punto perché parlarne in un blog dedicato al teatro: la risposta proviene dalle mescolanze, dalla distanza e oscenità di quelle definizioni che non intendo sposare né qui, né altrove. Dogmi che soffocano gli spiriti e le scorribande vitali dei generi. Una poesia può riannodarsi in una serie infinita di elucubrazioni, sequenze e materie dentro la voce di un attore. Può avvolgersi e cullarsi in pochi uditori, ma più distintamente rendersi fibra di una scena e, allo stesso tempo, essere messa all’angolo da incomprensibili margini di classificazione tra quel che è intimo e come tale dominio della pura individualità senza diritto di balconate.

Desidero scrivere di Pierluigi Cappello perché si cambi rotta e si attribuisca alla poesia la consistenza di un anfiteatro che riunisce e fa scontrare i volti. Perché il poeta che invoca, conosca sensi aperti e referenti mai unici, se non dentro la propria lingua scelta. Quel “restare” ripetuto senza marcare un’ossessione è quanto lega i corpi alla messinscena: riconoscere voci al confino e restituire loro l’occasione di riappropriarsi del gusto e silenzio prima e dopo le parole. Pubblicare un verso è già una prima nazionale. Significa essere soli e al tempo stesso comuni nel modo di salvare il “fuoco”, i luoghi, le visioni che fiutano appartenenze stratificate.

Il teatro che accoglie la poesia è però una bestia magnanima destinata oggi soltanto a ricorrenze di verseggiatori sublimi osteggiati in vita dalle istituzioni al completo. Nel presente della memoria più vuota gli si offrono palchi e prime attrici, violini e poltrone riservate, quando il fumo di quelle grida implorava un tempo di “restare” e non di risorgere variabilmente secondo il clima elettorale che vede tutti i diseredati utili al consenso brillare di nuova luce in proscenio. Servirebbero nomi e cognomi, ma di liste di proscrizione ne vengono già prodotte quotidianamente troppe dalle gerarchie impudenti. Vi prego, invece, di osservare e respirare il pudore solitario di Pierluigi Cappello. Sedetevi a sostare col suo “pensiero” e ripetete quei versi lenti fino a trainare la scena dello “stare di tutti giorni”.

«Quando la passione dura, tutto un mondo scompare

e la tua mano non è più la tua mano

e la mia mano non è più nella tua.

Quando sto con il mio silenzio nel tuo

il mio silenzio splende di giovinezza

e un mondo – che era nascosto – riappare».

Pierluigi Cappello

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SANGUE E ARENA

Viene da chiedersi ancora una volta, quasi per un mantra che serva da perenne rassicurazione, quali siano i limiti. E se, soprattutto, le arti siano soggette al vangelo delle barriere e canoni che intravedono le performances, installazioni e tentacoli degli happening aderire a un’entità aliena ai palcoscenici. Ho da poco inseguito la prima mostra dell’italianissimo body artist Franko B. nello spazio pubblico del PAC di Milano. E le domande fervono, non a caso uso questo verbo, visto che di ritualità si tratta in uno spazio espositivo allestito da Fabio Novembre con pareti sfondate da croci che diventano usci autobiografici marchiati col fuoco sulla pelle glabra e abbondante dell’artista.

Chi non ricorda il suo sangue sulla tela bianca delle braccia e gambe, dopo quelle insistite strette di pugno così da far grondare ancora di più la donazione rossa? E certo di altra offerta si tratta se in Inghilterra la legge non consente agli omosessuali di donare il fluido magico. Per Franko B la passerella della Tate Gallery di qualche anno fa – sotto gli occhi di colonie di giovani e vecchi ai lati a fissare il calcolo di un flusso ripetuto nel limite giornaliero stabilito per qualsiasi donatore – era uno degli approcci a un contenuto d’amore che rifletteva l’assenza, il dolore e i margini violenti, mai erotizzanti di un corpo leso per oblazione.

Vivere a Londra dopo essere sopravvissuto a un degrado famigliare e aver studiato al college per l’intervento generoso di un pizzaiolo calabrese, è solo una delle prove generali contro una pletora di affermazioni ed esclamazioni più scioccanti degli stessi lenzuoli insanguinati. Più inesorabilmente vuoti di quei “cuciti” senza titolo, concepiti e realizzati come tele dipinte a filo rosso con immagini terminali dei fiori, segno di ciò che domina le stanze degli ospedali. Forse l’unica vera pornografia di Franko B. che non stento ad avvicinare a un primattore mentre riflette lo stesso calcolo, l’identica finzione di una pausa fusa con l’opposizione degli occhi in sfida aperta. Mentre dichiara amore intoccabile in un manifesto poetico che si compone di lemmi senza mediazioni, se non la pellicola che resta a dividerli dal pubblico.

Non è forse abbattuta la barriera tra arte e copione mentre acrilici neri rivestono corpi di animali e l’artista danza tra loro quasi a dimostrare un dialogo e una reviviscenza? Non era proprio di rivivere che scriveva Stanislavskij? Non è con manifesti e dichiarazioni del trucco scenico che Brecht rompeva le righe? E ancora, non è davanti a un’arena che ogni attore celebra la convenzione di un ascolto? La pelle mutilata e ridipinta di Franko B., le sue tele e sculture come di pece a riscattare le ombre di tutti sono il bacio e il fenomeno della guerra, la volpe impagliata e il teschio, la camminata e ferita di un giovane marito adorato quanto la destinazione umana di ogni bianco, rosso e nero. Lo schock verbale è soltanto un altro muro utile a imbavagliarsi, la comoda poltrona delle austerità che rifiutano qualsiasi finzione sangue dell’autentico.

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FRONTIERE: AGONI E AGONIE DELLA CRONACA

Da qualsiasi punto d’osservazione si guidino gli occhi verso due nasi che si incontrano o mani che stanno per azzuffarsi, la scena ricorda una competizione dove non sono più gli agoni, ma l’agonia di un rapporto o di una sfida a farla da padrone. Una scena implica spesso un margine di libertà o rinuncia per essere inclusi nella stessa isola dove si raccontano le confidenze e si fa di tutto perché il voyeurismo innato nello spettatore sia una pretesa conoscenza delle verità. Eppure, si tratta ormai di una convenzione che sembra non ammettere scale di valori, perché la porta d’accesso al carnevale è di natura quotidiana e infetta l’allarme della cronaca più efferata.

Il pugno all’infermiera rumena al capolinea della metropolitana romana di Anagnina o la violenza barbara contro il tassista sceso dal proprio mezzo a Milano per scusarsi d’aver investito un cane slegato sono due frontiere e agonie che incartano uguali spettacolarizzazioni. Dai balconi, qualcuno avrà osservato e magari filmato la rissa dalla parte del solo carnefice contro il guidatore pentito, ed è stato altrettanto teatrale poter visualizzare in tempo reale su tutte le pagine web dei quotidiani il video del colpo che ha condotto al coma la donna aggredita per una priorità inesistente, oltre che presto mortale. E ancora, il condotto in cui è stato gettato il corpo violato di Sarah Scazzi è il teatro anatomico che continua a far spendere minuti di gloria agli agoni di Avetrana, pronti con tutta la famiglia al seguito a ficcare il naso nel cuore dello scandalo già merce.

Il diritto di replica sta diventando l’agone perdente e l’agonia dei suoi effetti declina un teatro d’osservazione inerte per astensione comunitaria. E non si tratta di un carico di stagioni calde che annebbiano i cervelli, ma di un vero assente: un canone civile, di rispetto e tolleranza verso l’altra frontiera in coda ai distributori di biglietti del metrò o in fondo a un pozzo cieco e senza voce come per una nave di clandestini.

Il teatro ha un’orma di straniero massacrato nella promessa di identità, gli abitanti non smettono per questo di osservarlo e nutrirsi della sua eco. Il suo naso contro quello del compagno di viaggio è un chiodo fisso di rinuncia e rabbia, non agonizza finché c’è respiro per ultimare il tragitto. A quel teatro è stata tolta la dignità di raccontare, estrapolata a fatica da una miniera, da un pavimento gelido, una cantina di sangue e abusi, uno sfogo di pugni incattivito dall’indifferenza. Un teatro mutilato, alieno al pudore di una lingua universale o frontiera che mai si concederebbe alla bava della notizia pulsante da una finestra imbambolata all’altra.

«Quegli occhi sbarcheranno da noi e allora sì s’accorgeranno dello spariglio, della disparità delle carte in tavola. Ma, finché stanno sul mare, quegli occhi ammirano la grazia infiocchettata del veliero tutta nodi e corde tese al vento come muscoli di un atleta. Ammirano e godono del vantaggio del loro punto di vista, perché loro dal barcone vedono la sfilata piacevole e indifferente della fortuna, mentre quelli del veliero sono costretti a vedere o a voltarsi per non vedere la sfilata della malasorte e della miseria del mondo.» (Erri De Luca)

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