PAROLE IN PITTURA

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«Sono nato troppo tardi per assistere alla lotta dell’indipendenza e troppo presto per questi tempi di transizione. Più tardi forse avrei avuto la speranza di vivere parte attiva in giorni meno turpi di questi; l’anno che nacqui, io ho dovuto rinunciare al presente per rinunciare all’avvenire».

(1882)

Parola di un moschettiere delle arti: Luigi Illica, autore militante, drammaturgo, cronista, librettista e poeta. L’esperienza multiforme della sua scrittura si presenta di volta in volta impregnata di eventi, pronta a rivolgersi ai picchi storici e sociali a cavallo delle due guerre, assumendo abiti di protesta come di motivo lirico. Sua è la coscienza di chi approva la parola nel segno di uno squarcio umano. Desidero dedicargli questo post perché a lungo ho potuto lavorare sui suoi testi spesso ignorati, sul fatto che ha fondato un giornale, il Don Chisciotte, in tempi carducciani non sospetti e sulla fusione della plasticità della sua lingua con la pittura di Segantini. Illica, una volta per tutte, non è soltanto il librettista pucciniano noto ai melomani. È carica viva tradotta in scene che premono sui corpi, le tradizioni, scardinano vecchie morali e liberano i gesti, sfrondano sentenze…

Una parte della storia…

Luigi Illica nasce in un contesto familiare benefico dove i freni morali imposti a un’indole poco propensa alla carriera scolastica lo vedono imbarcarsi nei primi vent’anni su una nave e prendere parte nel 1877 alla Battaglia di Plevna contro i Turchi. Due anni prima concepisce e interpreta Hassan, atto unico incentrato sul grido di uno schiavo costretto a una morte tragica:

HASSAN       Io nero, io schiavo, io solo e senza amore,

Costretto ad una vita d’infamia e di dolore

Febbricitante sempre e sempre delirante

[ …]

Per me sterile deserto, per me terra abbruciata;

Per me un grigiastro cielo, per me sol le catene,

Solo sprezzo;

L’esperienza dell’Oriente e del viaggio per lidi lo incoraggiano però a trasferirsi a Milano dove partecipa alla vita del “cenacolo” scapigliato e getta i semi di osservazioni critiche sotto lo pseudonimo di “Illico et Immediate”. Così infatti si firma nella raccolta Il ventre di Milano, in aperta opposizione sardonica all’esempio parigino di Zola.

Nella stessa scena di beffe e primi scontri collabora con la rivista del cugino Mascaretti e con il “Corriere della Sera” in veste di cronista alle dipendenze di Raffaello Barbiera, difensore dello spirito risorgimentale. Eredita così o forse irrobustisce un taglio giornalistico agguerrito che intende piegare agli scopi e destinatari del “Don Chisciotte”, la rivista di matrice radical-repubblicana fondata con Luigi Lodi e Brabanti Brodano nel 1882 a Bologna. L’ispirazione segue le orme dell’unico maestro, Giosuè Carducci, testimone di un duello con Antonio Cuzzo-Crea – direttore della Gazzetta dell’Emilia accusato di aver pubblicato dichiarazioni diffamatorie contro Diogene Illica, il padre -  in cui l’autore rischia di rimetterci quasi metà orecchio.

Quello stesso anno, di ritorno a Milano, l’editore Mondini gli accorda la pubblicazione di un’antologia di prose e bozzetti intitolata Farfalle, effetti di luce annunciando imminenti nella stessa tre raccolte di versi già pubblicati per i giornali: “Rondinelle e civette”, “Passeri solitari” e “Mosche canine”. «Siam moscerini ed atomi / che il tempo porta via /larve, che in mezzo ai secoli /pochi istanti viviamo d’angoscia» recita uno dei componimenti risalenti alla sosta intermedia di Illica presso il podere della Scorziana appartenuto alla famiglia. Da esso trae un secondo pseudonimo, Luigi della Scorziana, con cui nel 1883 pubblica a Milano come “Strenna” della rivista “Arte drammatica” gli Intermezzi drammatici, un foglio di informazione critica e teatrale comprendente indiscrezioni e personaggi oggetto di malignità.

Seguono anni di più intensa produzione drammaturgica a partire da I Narbonnerie-Latour e Il conte marcello Bernieri del 1883, incentrati sul ritratto di famiglie nobili e borghesi, sui conflitti ibseniani che richiamano le colpe dei padri e uno dei temi portanti del gesto illichiano: l’assenza delle madri. La condizione di orfano che dalla biografia arriva a toccare l’intera produzione persino nella scena dialettale milanese de La maternità, rappresenta un motivo di comunione nell’amicizia stretta dopo il 1891 con l’artista Segantini, con cui condivide l’anelito all’equilibrio tra uomo e artista e il senso ideologico di un naturalismo come «aggiornamento dell’arte con la vita». Per Segantini e il suo ciclo delle Cattive madri (1894) Illica idea il poema La Mala madre, meglio noto come Nirvana, fingendo di attribuirne la paternità a Mairônpada, un monaco di ascendenza buddista autore del carme Pandjavali. In realtà, l’opera è frutto di un pastiche ottocentesco ispirato ad Alberico di Settefratti e si colloca nella riscrittura illichiana come esempio di purificazione del rifiuto delle madri attraverso la rinascita e il contatto con lo spirito del figlio. Scrive a proposito l’autore sul concetto di maternità affine alle guerre:

«La maternità è il solo carattere sacro e indelebile che esista quaggiù.

Gli altri non possono essere che falsificazioni di dogmi o di teorie.

E ciò è tanto istintivo che in molti paesi le leggi pongono la maternità in seconda linea.

[…] Siamo noi uomini o siamo belve? Ah, noi vogliamo che i nostri figli sorridino di bontà e mettiamo loro nelle vene un sangue avvelenato di livori… No, no! Una sola è la via. Là dove l’odio e l’ira consigliano, portare un raggio di

benevolenza… All’ira e all’odio c’è sempre tempo».

Gli anni tra il 1883 e il 1887 precedono consapevolezze e spartizioni del lirismo con la pittura, vedono i successi e gli insuccessi di alcuni testi dati alle scene: il fiasco de La signora Leo Pascal, il trionfo di Herik Arpad Tekeli, il dissenso aperto del pubblico di fronte a La sottoprefettura di Roccanecca e Gli ibridi, l’accoglienza entusiastica de Gli ultimi templari e di nuovo la veicolazione delle rabbie attorno alle disuguaglianze di schiatta:

«Non è la via della violenza ch’io voglio prendere. Ve ne sarebbe un’altra, quella della ragione! Dire a mio padre: Padre mio, il mondo nel quale noi viviamo ci affoga o nell’arbitrio o nel ridicolo; pel primo si perpetrano violenze che ripugnano alla nostra civiltà; pel secondo si è sempre deboli. Passiamo sopra a questo fango umano, dove fermentano le ridicole ipocrisie della società, dove la superstizione soffoca l’intelligenza e il pregiudizio si sostituisce al cuore!».

Travolto da una gragnuola di inquadrature umane e modelli sociali in cui all’apparenza di buona famiglia corrisponde  una luce macchiata da generazioni corrotte e un abuso delle autorità costituite, il pubblico milanese viene ritratto da Luigi Conconi con delle ingombranti orecchie d’asino. La difesa di amori controcorrente  che sfidano l’immagine del senso comune secondo cui i pesci dovrebbero far razza coi pesci e gli uccelli con gli uccelli, apre alla concezione di un destino supremo contro cui la sola risposta degli umili è la rassegnazione. Questo il marchio dei protagonisti de L’eredità del Felìs (1896), – copione reso famoso dalla messinscena di Virginio Puecher per il Piccolo Teatro nel 1963 e avente per protagonisti Paolo Mazzarella e Valentina Cortese – una commedia di profilo dialettale milanese il cui luogo di follia, già presente ne La vita del pensiero, si trova ad amplificarsi in una scena povera e incapace di riabilitazione.

Gli strumenti di quest’ultimo scenario drammatico cui si affianca la recente scoperta di un manoscritto anonimo incentrato sui temi della fede e ideologie e un atto unico, La liberazione, aprono all’esperimento melodrammatico di una parola che, nascosta dietro la musica, avrebbe potuto già reggersi autonomamente su un filo spesso di universi poetici. «Pronto di lingua sono e più di mano; / rintuzzo, abbatto, sgomino, fracasso, / di taglio e punta meno e vado a fondo; / la gente si ritira quando passo…», afferma il Capitan Spaventa ne Le maschere.

Si tratta di collaborazioni riflesse nella solitudine dell’ascolto di musicisti committenti con cui Illica approda a conflitti e ascolti premurosi, a carteggi serrati e accesi dibattiti sulla verità compositiva che sostiene: «Quello che nel libretto ha vero valore è la parola. Che le parole corrispondano alla verità del momento e della passione. Tutto qui.  Il resto è blague». Da questi fermenti sarebbero nati innumerevoli titoli di libretti che oggi esprimono una fama e segnano la decisione tarda di Illica di ritirarsi presso Colombarone dopo aver partecipato da volontario all’età di cinquantanove anni al secondo conflitto mondiale.

Una memoria…

Se allora è solo nel silenzio che l’urlo più potente si staglia all’orizzonte, quelle di Illica sono voci irrisolte, inquiete. Qualcuno deve pur ricordarle, evitando di lavarsi la coscienza con dei tributi vuoti alla sua parola. Si potrebbe, piuttosto, raccogliere una traccia di discorsi o visioni rivoluzionarie oggi nella quieta tendenza a non indignarsi più per nessuna forma di corruzione o killeraggio giornalistico manovrato da un unico giostraio privi di elevazioni fisiche e morali. Recuperare quel brano che non ha tempo e alzare di nuovo la voce senza che resti una debole risonanza:

«Qui si muore di fame, se restiamo», dicono essi. Ma come? Il suolo nativo ubertoso e ridente lascia morir di fame chi lo coltiva? […] Non è l’emigrazione la piaga da deplorare. […] «Peggio di così non la ci può andare» ripetono gli emigranti a cui brilla una grande speranza nel cuore. E partendo non è vero che essi siano infelici. La maggior parte di essi non provano quel sentimento poetico che si chiama l’amore del luogo nativo. Sono abbrutiti dalle miserie e non hanno nella mente che un’idea, quella di andar a star meglio».

«Andare a star meglio» e non uscire di casa massacrati dal primo folle in preda a manie ossessive, non subire insulti sulle spiagge, né oppressioni devote soltanto all’ego. Forse è davvero l’arte ancora il rimedio, forse ha ragione Segantini:

«Sotto il pennello la gamma deve scorrere smagliante e deve far nascere gli oggetti, le persone, e le linee, il colore deve essere intenso e puro perché la luce sia profonda e vera, il vero così detto si deve oltrepassare […] davanti all’osservatore tutto si deve fondere in una commozione profonda di vita palpitante».

Il vero non serve a nulla e a nessuno, serve la sua frantumazione come riconosciuta essenza di una similitudine senza razza. Serve l’aggiornamento dell’arte con la vita quando questa non sa di fango.

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