IL BUIO IN BOCCA

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Le luci della stanza si abbassano. La luce della porta si intensifica, divampando nella stanza. Tutti sono fermi, come statue. Un uomo esce dalla luce e si ferma sulla porta. È vestito casual.

Jimmy A volte odo delle cose. Poi più niente.

Avevo un nome. Era Jimmy. La gente mi chiamava Jimmy. Era il mio nome.

A volte odo delle cose. Poi più niente.

Quando tutto è silenzio, sento il mio cuore.

Quando quei terribili rumori cominciano, io non sento niente. Non sento, non respiro, sono cieco.

Poi tutto tace. Sento il battito di un cuore. Magari non è il mio cuore. Magari è il cuore di qualcun altro. Cosa sono io?

A volte sbatte una porta, sento delle voci, poi più niente.

Tutto si ferma. Si ferma tutto.

Tutto si chiude. Si chiude completamente.

Si chiude. Si chiude tutto. Si chiude completamente.

Non vedo più niente, mai più niente. Siedo e succhio il buio.

È quello che ho. Ho il buio in bocca e lo succhio. È tutto quello che ho.

È mio. Mi appartiene. Lo succhio.

Harold Pinter, Party Time

Sembra un semplice tributo ripescare una citazione e farla vibrare tra le righe di un blog. Non è però l’intento teatrale quello che evita di consumarsi dietro una patina comoda di rievocazione e parola asettica, sgombra di contesto e iniettata nel sangue degli sconosciuti che leggono e provano a capire perché proprio quel frammento e quell’autore. Harold Pinter non merita il vuoto, ma il grido lucido, quello che si distilla in tappe invisibili e per questo si compone di radici che hanno l’uomo per carne e lettera oltre che il suo diritto spesso castigato. Una macchina infernale di cinismi basterebbe a liquidare l’autore che alla consegna del Nobel nel 2005 fa dialogare arte, verità e politica. Che ne Il linguaggio della montagna scompone le identità senza volto come farebbero e fanno le autorità mai sfiorate dagli obbrobri che ci consegnano per mezzo della violenza.

Harold Pinter avrebbe forse firmato gli appelli che continuamente riemergono come uniche fonti di sostentamento della libertà, non ultimo quello per l’iraniana Sakineh, in attesa che venga revocata la condanna alla lapidazione pubblica. O avrebbe continuato a svergognare con umorismi austeri e strascichi di battute replicate come ossessione il verso che rimane a chi è o sente d’essere in qualche modo uno della schiera dei condannati. Ed è solo una parte, altro non resta che divulgare per ora in eco di rete quelle stesse dichiarazioni di miseria: il buio è una prima forma di appartenenza, nuovi riflessi e frontiere dovrebbero presto o tardi contraddirne l’assenza di giudizio.  

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