CHI E’ DI SCENA IN POESIA?

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«Gli occhi si sono fatti di sale nel voltarmi

i pensieri si sono fermati nei gesti, nel silenzio delle cose fatte;

ho raccolto le briciole del dopopranzo

e le ho scosse nell’aria vitrea del giardino

dove è appena spiovuto e irrompe il sole.

Qui, anche il più lieve soprassalto del merlo oltre la siepe

sta fermo e stanno ferme le mie parole come navi in bottiglia.

La vostra lingua è la mia, ma la mia non è la vostra

mi son sentito pensare mentre in casa lampeggia in penombra

il televisore e una musica epica diffonde l’eleganza di una berlina.

Tengo per me cos’è curare il fuoco

l’odore spesso di legna bagnata, lo stoppino fra le dita

lo stare di tutti i giorni nelle cose da fare, dentro un’altra luce

rotta dalle nuvole, un diverso tramontare allacciato agli alberi alti

pieno negli occhi delle case, sulle bestie dei poveri;

un po’ qua un po’ là

si sta soli così, oggi, un giorno così, un giorno più soli».

Pierluigi Cappello

Non esiste una regola fissa nelle scoperte, quelle che fanno ombra al mercato e decidono che sfogliando un quotidiano sia ancora verosimile scoprire un grande poeta. La scorsa estate non ho potuto non soffermarmi su Pierluigi Cappello, poeta friulano di Tricesimo.

Ci si può domandare a questo punto perché parlarne in un blog dedicato al teatro: la risposta proviene dalle mescolanze, dalla distanza e oscenità di quelle definizioni che non intendo sposare né qui, né altrove. Dogmi che soffocano gli spiriti e le scorribande vitali dei generi. Una poesia può riannodarsi in una serie infinita di elucubrazioni, sequenze e materie dentro la voce di un attore. Può avvolgersi e cullarsi in pochi uditori, ma più distintamente rendersi fibra di una scena e, allo stesso tempo, essere messa all’angolo da incomprensibili margini di classificazione tra quel che è intimo e come tale dominio della pura individualità senza diritto di balconate.

Desidero scrivere di Pierluigi Cappello perché si cambi rotta e si attribuisca alla poesia la consistenza di un anfiteatro che riunisce e fa scontrare i volti. Perché il poeta che invoca, conosca sensi aperti e referenti mai unici, se non dentro la propria lingua scelta. Quel “restare” ripetuto senza marcare un’ossessione è quanto lega i corpi alla messinscena: riconoscere voci al confino e restituire loro l’occasione di riappropriarsi del gusto e silenzio prima e dopo le parole. Pubblicare un verso è già una prima nazionale. Significa essere soli e al tempo stesso comuni nel modo di salvare il “fuoco”, i luoghi, le visioni che fiutano appartenenze stratificate.

Il teatro che accoglie la poesia è però una bestia magnanima destinata oggi soltanto a ricorrenze di verseggiatori sublimi osteggiati in vita dalle istituzioni al completo. Nel presente della memoria più vuota gli si offrono palchi e prime attrici, violini e poltrone riservate, quando il fumo di quelle grida implorava un tempo di “restare” e non di risorgere variabilmente secondo il clima elettorale che vede tutti i diseredati utili al consenso brillare di nuova luce in proscenio. Servirebbero nomi e cognomi, ma di liste di proscrizione ne vengono già prodotte quotidianamente troppe dalle gerarchie impudenti. Vi prego, invece, di osservare e respirare il pudore solitario di Pierluigi Cappello. Sedetevi a sostare col suo “pensiero” e ripetete quei versi lenti fino a trainare la scena dello “stare di tutti giorni”.

«Quando la passione dura, tutto un mondo scompare

e la tua mano non è più la tua mano

e la mia mano non è più nella tua.

Quando sto con il mio silenzio nel tuo

il mio silenzio splende di giovinezza

e un mondo – che era nascosto – riappare».

Pierluigi Cappello

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