NON MORIRA' IL FIORE DELLA PAROLA

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Per la Consulta Zapatista di domenica 21 marzo 1999

Al popolo del Messico:

Ai popoli e ai governi del mondo:

Fratelli Non morirà il fiore della parola. Potrà morire il volto nascosto di chi la nomina oggi, però la parola che viene dal fondo della storia e della terra non potrà più essere sradicata dalla superbia del potere. Noi siamo nati nella notte. Abbiamo vissuto in essa. Moriremo in essa. Ma la luce si aprirà domani per i più, per tutti quelli che oggi piangono nella notte, per quelli a cui è negato il giorno, per quelli che trovano una quiete nella morte, per quelli a cui è proibito vivere. Per tutti la luce. Per tutti tutto. Per noi il dolore e l’angustia, per noi la gaiezza della ribellione, per noi il futuro che si vuole negare, per noi la dignità dell’insurrezione. Per noi nulla. La nostra lotta è per farsi sentire, e il cattivo governo strilla superbamente e chiude con i cannoni le sue orecchie. La nostra lotta è per la fame e il cattivo governo dà in cambio piombo e carta allo stomaco dei nostri bambini. La nostra lotta è per un tetto dignitoso, e il cattivo governo distrugge la nostra casa e la nostra storia. La nostra lotta è per la conoscenza e il cattivo governo ci offre ignoranza e disprezzo. La nostra lotta è per la terra e il cattivo governo ci offre cimiteri. La nostra lotta è per un lavoro giusto e dignitoso e il cattivo governo compera e vende corpi e vergogne. La nostra lotta è per la vita e il cattivo governo offre come futuro la morte. La nostra lotta è per il rispetto del diritto a governare e a governarci, e il cattivo governo impone ai più la legge di una minoranza. La nostra lotta è per la libertà di pensiero e di movimento e il cattivo governo ricambia con prigioni e tombe. La nostra lotta è per la giustizia e il cattivo governo si riempie di criminali e assassini. La nostra lotta è per la storia e il cattivo governo contrappone l’oblio. La nostra lotta è per la Patria e il cattivo governo sogna con la bandiera e la lingua straniera. La nostra lotta è per la pace e il cattivo governo annuncia guerra e distruzione. Tetto, terra, lavoro, pane, salute, educazione, indipendenza, democrazia, libertà, giustizia e pace. Queste furono le nostre bandiere all’alba del 1994. Queste sono state le richieste nella lunga notte dei 500 anni. Queste sono, oggi, le nostre esigenze.

Subcomandante Marcos

Selva Lacandona 21 marzo 1999

A volte non basta chiedersi chi sia a pronunciare una rivoluzione. A volte basta la domanda, mentre il silenzio sull’identità di uno dotato di più coraggio per pronunciare e arrestare l’indifferenza fa di lui un virtuoso, un attore a tutti gli effetti. E non tanto perché esibisca davanti a una platea un’evidenza testarda, ma perché per essere attori è necessario fondere la parola con la sua risonanza, soprattutto quando si tratta di un gesto politico. Quel modo itinerante e senza sospensioni, senza vaghezze, costa rabbie e nascondigli. Pericolosi fuori scena.

Ecco perché credo che il mascheramento del subcomandante Marcos sia forse l’esempio più teatrale dell’ideologia applicata a una scena umana senza scorte materiali e di pensiero. L’attore ha anche questa funzione, sorvegliare al buio e fare luce sull’esserci. Un megafono che irrompe e traduce il grido in una tavola di comandamenti lontani dall’essere asserzioni buoniste, ma piuttosto laiche rivendicazioni del diritto paritario. Di educazioni garantite e non concesse come privilegio, di un pane fragrante e della libertà di piangere una comunità che un tempo si riuniva per passarsi la parola. E proprio come un tempo c’era anche chi perdeva ore a rimettere in sesto piccoli oggetti da rivendere porta a porta, ora serve ritrovare l’ingranaggio dei verbi rotti. La loro replica scena dopo scena.

Un subcomandante-attore può ricoprire il ruolo, fare memoria su quanto la dichiarazione universale dei diritti del ‘48 aveva espresso calamitando il mondo in qualche riga di casi da non omettere. Esercitarsi all’ovvio e alla mancata indignazione sono invece due tra i probabili effetti collaterali delle correnti inverse, ma la cura prevede che almeno qualcuno ascolti. Che possa proseguire ininterrotto il controcanto e il battito di mani degli uccelli in volo.

Tra i rumori della città, il subcomandante-attore, estraneo all’affare politico che si prostituisce, risulta più che altro uno squinternato che indossa la bandiera bianca. E invece non muore, il suo popolo lo attende, la platea pretende da se stessa la resistenza e chiude il cerchio con l’ ‘esigenza’ di acclamare la ‘terra’ come palcoscenico di una notte che duri per secoli. Una notte finalmente vegliata, gridata senza arretrare, una benda sugli occhi perché l’unico primato sia sempre e solo delle righe scritte per tutti e urlate da uno. E non c’è margine per la guerra di partito quando la voce non precipita, ma si fa largo tra le schiere. Non c’è disfatta nella natura del verso che si rigenera dall’ombra.

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