Da qualche tempo mi è sempre più difficile comprendere le ragioni di un teatro classico che, già nella comoda etichetta, rischia di perdurare fiacco e affidarsi ai capocomicati mai morti. E mi è altrettanto ostico fissare la rigidità preconcetta di qualcuno come Isabelle Huppert che, solo qualche anno fa, elencava immobile il monologo 4.48 psychosis di Sarah Kane, rendendo vana ai miei occhi qualsiasi cifra stilistica e qualsiasi crudezza. Mi è faticoso rileggere Goldoni perché non posso non preferirgli Shakespeare, «un pezzo di realtà», direbbe Peter Brook. Ma a mia volta sto etichettando e le barriere non nutrono nessuna libertà espressa, nessuna parola pubblica. L’ho imparato proprio dal cosiddetto teatro all’italiana, quando ancora piccola mi innamoravo dell’Edipo messo in scena nei primi anni Novanta da Glauco Mauri. Tracce magistrali appunto, come Strehler e la sua luce tonda di sole unico oltre la tela bianca ne La tempesta, immagine che continuo a ritrovare se non proprio identica, ma certo citata e altrettanto impunemente ripudiata con spocchia da palchi di ricerca e tradizione. Ma allora perché tanta fatica? Forse perché ritengo che alcuni testi andrebbero meglio adattati in funzione di una sintesi emblematica o in funzione di una poetica che tardo a ritrovare?
Eppure, proprio ieri sera, assistendo alla replica de La trilogia della villeggiatura di Goldoni diretta da Toni Servillo, tra i fondatori della storica compagnia napoletana di Teatri Uniti, ho avuto la sensazione netta che la discriminante resti sempre la misura di una finzione. Il processo creativo continuo che osservavo – e già apprezzavo nel cinema fautore della riscoperta di Servillo solo dopo troppi anni di carriera teatrale pressoché riservata agli addetti ai lavori e la cui prova più recente e forte si coglie certo in Una vita tranquilla di Claudio Cupellini fianco a fianco con il bravo Marco D’Amore – era certo una decisa recitazione verbosa, sardonica ed esibita, ma non nel senso più improbabile del termine, ossia come meccanismo che gode nel varcare il limite di sopportazione dello spettatore, ma piuttosto come controcanto semantico al copione. Servillo e gli altri hanno cioè reso le apparenze di cui tanto Goldoni ha scritto l’occasione di un adeguamento contemporaneo ai lazzi di chi non se li può permettere, la parodia sociale di nuclei famigliari senza possibilità di riscatto che il rifugio nelle proprie sembianze distorte dallo sperpero e già dall’elemosina che condanna le relazioni più pure.
Non si è mai trattato di evasione compiaciuta nell’eccesso, quel fianco che si tende naturale insieme con il mento nel personaggio di Ferdinando reso carne di opportunismo frivolo da Servillo o, ancora, una Giacinta che domina la scena negli occhi di Anna della Rosa, puntati a mentire all’amato con credibilità e fibra devotamente femminile, levano alto il ritratto originale delle apparenze goldoniane nefaste fino ad oggi. La misura appunto, la prova provata che anche il Settecento, i costumi, le balze delle menzogne, se trafitte dai personalismi, non sanno far altro che annoiare. Se coinvolte in un ritratto dai margini dinamici, accolgono tutti gli sguardi e si prendono gli applausi senza distinzioni di ruolo, mano nella mano fino al margine del proscenio. Quasi spontaneo dire allora: «vieni via con me, Toni».