Il giudizio dovrebbe venirci incontro di fronte al reato, dettare forma e legge, segnare l’etica individuale come una venatura non frastagliata. In realtà, come ben dimostra David Harrower – drammaturgo scozzese e autore di Blackbird, in scena al Teatro Studio di Milano fino al 29 maggio – subentrano scarti imprevedibili, fratture che si insinuano nel linguaggio fisico e verbale fino alla sospensione, non fissamente intesa come ragionevole dubbio. E nel momento in cui proprio il reato varca la soglia di una scena a due, con la materia delle rabbie soffocate e i silenzi grevi, ci si può sorprendere a cancellare le più facili schiere di colpevoli.
Il personaggio di Ray-Peter, nella nuova armatura aziendale, finge di ignorare un passato torbido e guarda con rassegnazione ai suoi abiti non più di pregio. Si trova a fare i conti con la visita inattesa di Una, ormai quindici anni dopo un processo per abusi, conclusosi con una condanna di detenzione durata sei. Dodici anni sono invece il peso dell’età di Una quando Ray, trentenne, si accorge della sua impertinenza e non fa nulla per scansarne l’attrazione. Le ossessioni si affastellano fino ai ritrovi nascosti, alla violenza sessuale concessa dalla devozione di una ragazzina, che ora incarna tutta la crudeltà viscerale della memoria. Nessun dettaglio è omesso su un palco tracciato dall’intelligente regia di Lluìs Pasqual come un incontro sportivo. Conquista e oppressione si confondono scompaginando qualsiasi orpello per inseguire una partitura fitta, gettata tra le immondizie dell’ufficio pressoché abbandonato in cui Ray accoglie Una.
E non esiste giudizio nell’apparenza scriteriata: la voce di Una apre con fatica il match e, per vincersi, fa domande a raffica, costringe Ray a rivivere i dettagli di una violazione dalle ferite imprecise. Ma è forse più di separazione dolorosa che si tratta. Un’occasione per entrambi di rivendicare e ammettere relazioni di copertura che non si sostituiscono a quel sentimento illecito, eppure struggente. Sta a noi sentenziare se malato e indegno di riscatto o, piuttosto, dovuto a un incrocio di vite che vorrebbero ripulirsi, ma a fatica fuggono da un amore pubblicamente indecente. Rovesciare rifiuti di cibo, peraltro già sparsi ovunque, sedersi su sedie senza schienale e ingurgitare acqua perché le confessioni hanno tolto il mezzo respiro che resta, sono solo alcune maschere di un’incoscienza mai morta. O, ancora, di una passione viziata e così insanabile, perché rivissuta ogni giorno.
La voce spezzata, i gesti necessariamente infantili della sempre multiforme e indomita Anna Della Rosa, le nevrosi di diritti accaparrati a stento dal nuovo Ray ora Peter, per voce estrema e sofferta di Massimo Popolizio, avvicinano la crudeltà di un testo nato dalla cronaca più al dramma dell’abbandono che non a esiti edificanti. Ed è proprio per questo che di questioni morali aspre tratta Blackbird, pur con un vezzo di viltà sul finale, solo in parte coerente con l’assenza di risposte e verità assolute. E non c’è un discrimine netto nemmeno tra verità e finzione dentro i monologhi di Ray e Una: la scena chiede di affidare gli occhi a due sfidanti che la ragione psichica vorrebbe marci, ma cui il teatro può ancora concedere un fiato di autenticità.