Da qualche tempo sembra un azzardo ripercorrere una memoria, entrare nella sua pelle e farne scena senza vittimismi. Peccare di rischio inteso come coscienza di un mestiere, possedere un’etica e pagare col sangue. Anna Politkovskaja non si lasciava estromettere dal senso della fine, lo attraversava imbrattandosi degli effetti delle violenze e urne del potere che non ha mai sposato. A quei suoi occhi fissi sul dovere del racconto, sulle stragi cecene e russe, sugli attentati rimbalzati di parte in parte e senza giustificazioni, non ha mai posto un freno, ma un metodo di verità abdicato dai troni corrotti.
Anna Politkovskaja riattraversa oggi quegli scenari infami sulle bocche atterrite quanto gli sguardi degli spettatori che, nella fisicità e anima di Ottavia Piccolo, partecipano di un massacro al singolo e alla sua investigazione indomita. Donna non rieducabile – al teatro dell’Elfo, Milano fino a domenica 3 aprile – è la morsa decisa dal drammaturgo Stefano Massini, un principio di immedesimazione per scatti che, per un ricorrere a un prestito del titolo, non pretendono di educare, ma pagare a loro volta in scena il rischio della storia. Rischio di indifferenza per la caparbietà di chi rifiuta la crudezza e barbarie cui Anna ha assistito e di cui ha scritto prima di essere freddata fuori di casa il 7 ottobre 2006. Rischio di riflessione allo specchio e tra fogli accatastati come corpi sui pali dei conflitti russo-ceceni. Da Beslan, coi suoi interminabili cadaveri infantili, al Teatro Dubrovka a Mosca, con le contrattazioni feroci sventate da eserciti che hanno ammutolito anche chi non aveva colpa, sbracando poi nel sacrificio collettivo di opinioni di superficie.
E Ottavia Piccolo è Anna, coi suoi carichi di parole infilzate dalla realtà, faticosamente ripescate nella neve sporca di civili e più ancora nelle testimonianze raccolte a Grozny, ombra delle teste mozzate di intere famiglie. “Quella giornalista” ha scritto di loro perché il dovere si prestasse ancora a documentare e non escludesse membra saltate in aria accanto a sopravvissuti stremati dalla ricerca dei propri cari. Di lei un’attrice sublime – oltre che felicemente al riparo da egocentrismi e vuoti snobismi tanto di moda fuori e dentro i nostri teatri – calca un’immagine dopo l’altra e volutamente senza sequenza. Dà voce alla replica necessaria di parole scritte sul corpo di una combattente, rievoca il rispetto delle tragedie e insieme il loro urlo. Ne ammette il dolore sfibrato, come il mutismo di chi continua a guardare avanti perché ha perso fiducia nella rivendicazione.
La scena trattiene la povertà necessaria di pavimenti scossi dai bombardamenti, il tavolo di legno su cui la carta si accumula insieme ai nomi gettati a terra delle vittime. Il suono incalzante di un’arpa suggerisce il fiato corto e la minaccia cui Anna non si è mai concessa, né tantomeno arresa. Penso allora a quei versi di Brecht: «E – vi preghiamo – quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla venga detto: è naturale in questo tempo di anarchia e di sangue, di ordinato disordine, di meditato arbitrio, di umanità disumanata, così che nulla valga come cosa immutabile». No, il sangue non si addomestica.