«C’è stata la guerra e la gente ha visto crollare tante case e adesso non si sente più sicura nella sua casa com’era quieta e sicura una volta. C’è qualcosa di cui non si guarisce e passeranno gli anni, ma non guariremo mai. Magari abbiamo di nuovo una lampada sul tavolo e un vasetto di fiori e i ritratti dei nostri cari, ma non crediamo più a nessuna di queste cose perché una volta le abbiamo dovute abbandonare all’improvviso o le abbiamo cercate inutilmente fra le macerie.
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Una volta sofferta, l’esperienza del male non si dimentica più. Chi ha visto le case crollare sa troppo chiaramente che labili beni siano i vasetti di fiori, i quadri, le pareti bianche. Sa troppo bene di cosa è fatta una casa. Una casa è fatta di mattoni e di calce, e può crollare. Una casa non è molto solida. Può crollare da un momento all’altro. Dietro i sereni vasetti di fiori, dietro le teiere, i tappeti, i pavimenti lucidati a cera. C’è l’altro volto vero della casa, il volto atroce della casa crollata.
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Non possiamo mentire nei libri e non possiamo mentire in nessuna delle cose che facciamo. E forse questo è l’unico bene che ci è venuto dalla guerra. Non mentire e non tollerare che ci mentano gli altri.
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Non c’è pace per il figlio dell’uomo. Le volpi e i lupi hanno le loro tane, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. La nostra generazione è una generazione di uomini. Non è una generazione di volpi e di lupi. Ciascuno di noi avrebbe molta voglia di posare il capo da qualche parte, ciascuno avrebbe voglia di una piccola tana asciutta e calda. Ma non c’è pace per i figli degli uomini. Ciascuno di noi una volta nella sua vita si è illuso di potersi addormentare su qualche cosa, impadronirsi di una certezza qualunque, di una fede qualunque e riposarsi le membra. Ma tutte le certezze di allora ci sono state strappate e la fede non è mai qualcosa dove si possa infine prender sonno».
Natalia Ginzburg, da Il figlio dell’uomo
Riflettere sulle bandiere spezzate, l’insulto di un ministro verde non nel senso della rivoluzione che dall’Iran corre nelle nostre anime, evitando di farci voltare dall’altra parte. Ma verde come territorio circoscritto e inno alla distruzione, all’omofobia e xenofobia fino a colare sulla nazione da un grasso cattivo. Quello che brinda alle regioni ottuse e nega lo sguardo capillare nelle storie del mondo, che si augura che gli sbarchi di clandestini producano morte e soppressione degli occhi. Che nemmeno sospetta quanto a volte il destino possa invertire i giochi e scavare tombe di carta per chiunque.
Riflettere sulle memorie di chi ha affondato i calcagni nel sangue, e ha recitato ruoli senza voce nelle guerre imbrattate da ideologie di sterminio. Quali altre previsioni di democrazia davanti a chi sostiene che nulla è più grave? Non è grave negare una nazione, né rifiutarsi di accogliere la propria storia come un istinto naturale di difesa e coscienza?
Riflettere sui palcoscenici oggi, quelli più affamati di dignità laddove l’unità nazionale significhi anche salire sul carro dei teatri per non offuscare una lingua che da sempre emigra felice. Riflettere su chi si ciba delle scene e dei loro crolli, dei debiti che soffocano le compagnie e i teatri di periferia, porzioni sempre più indigeste dell’indifferenza che non tiene conto di vite sospese.
Riflettere sul compromesso più facile, quello di scordarsi delle origini o addirittura contraffarle baciando i pori scivolosi di un tiranno del deserto. Di quello scatolone di sabbia che continua a prendere sonno nonostante il grido del pane e di una scena italiana magra solo di etica, non di reati, né di carni femminili propagande di bave.
Sì, tutte le certezze di allora ci sono state strappate, ma non smettiamo di batterci sulla testa, perché se le memorie sono state erose, il palazzo delle illusioni, dei versi sgangherati e immensi di poetesse rivalutate dagli ignari solo alla morte, salvino Dorian Gray.