Da qualche tempo il grido sembra aver disperso la propria eco. Esistono oggi tendopoli nella piazza del Cairo, donne prigioniere e senza voce fisica nelle carceri iraniane, governanti inabili alle dimissioni, manifestanti del social forum di Dakar con mille colori di verità sul cibo che manca e non interessa il silenzio delle guide nazionali.
Non credo manchi la forza di alzare un vessillo qualsiasi, ma la volontà di accettare che il nostro orto è già stato invaso dai parassiti. E la scena racconta un seppellimento dietro le quinte, perché di drammatizzazione si tratta quando è l’ambiente a caricare il verso della comunità o il gesto, il manifesto che invoca attenzione, il corpo di un collettivo cui è stata tolta la legittimità di urlare. Gli egiziani perseguitano i giornalisti, il nemico è comune: quando la protesta resta inascoltata subentra la cecità e le assi di legno del palcoscenico bruciano. Si fa in fretta a barattare una condizione con un’altra, i vessilliferi sono i rigidi ideologi che non sghignazzano di fronte agli eufemismi sul comportamento di un premier più appassionato all’anatomia esplorativa, che non al governo di uno stato. Sono i barbogi che vanno esclusi, perché hanno sempre creduto che il corpo di una donna fosse una terra franca e protetta, una leva poetica e insieme dirompente, un linguaggio da innalzare.
Dedico allora questo post a ogni noioso pensatore che decide di muoversi lentamente nella nebbia e non resta immobile a parlare solo con il ventre, perché da lì provengono anche gli oscuri, le convinzioni di appagamento per corruzione e tutela di favoritismo. La cera negli orecchi quando la piazza chiede il pane e non ha più occhi per le proprie famiglie scarnificate dall’insolenza di concessioni illimitate. Dedico questo post alle donne e alla piazza divenuta scena domestica di dignità.
«Ho vinto
mi sono registrata
mi sono ornata di un nome in una carta d’identità
e la mia esistenza è stata identificata con un numero
E dunque, viva il 678, rilasciato dal distretto 5, residente a Tehran.
Ora sono tranquilla del tutto
ho il tenero abbraccio della madrepatria
il ciuccio del passato glorioso
la ninnananna di cultura e civiltà
e la raganella della legge…
Ora sono del tutto tranquilla
[…]
È un grande dono vivere
nella terra della poesia, del fiore e l’usignolo
specie quando, dopo molti anni,
la realtà della tua esistenza viene ammessa
Vivere dove io,
con il mio primo sguardo ufficiale,
vedo dalla fessura della tenda
vili poeti, vestiti da poveri mendicanti,
frugare tra la spazzatura, in cerca di rime e ritmi
e dal rumore del mio primo passo ufficiale
d’un tratto, 678 usignoli sospetti
trasformatisi, per svago, in 678 vecchi corvi,
in mezzo alle torbide fogne,
prendono il volo, svogliati, verso le sponde del giorno
[…]
Ho vinto, sì, ho vinto,
ora esaltata di felicità per questa vittoria,
ai piedi dello specchio,
accendo 678 candele prese in prestito,
salto sul davanzale e con il vostro permesso
faccio un bel discorso di poche parole
sui benefici legali della vita
e con il primo colpo di piccone,
tra lo scroscio degli applausi,
inauguro la costruzione del palazzo della mia vita
colpendolo sulla mia testa
sono ancora viva, sì ancora viva.»
Forugh Farrokhzâd (Tehran, 1935-1967)