Le opinioni ingolfano la storia quando alle spalle, attorno e nelle viscere di una famiglia lo stato d’assedio del conflitto inscrive rabbie e replicanti dei soprusi. Mohamed Kacimi, tra i più acclamati drammaturghi contemporanei di origine franco-algerina, corrode con impronta caustica e insieme lirica l’immobilità apparente di un nucleo senza nome né luogo. Gli sguardi sono afflitti, ma senza varcare il confine delle date e revisioni di responsabilità con cui si mostrano troppe volte le ragioni delle parti in lotta. Le carte possono invece mescolarsi e le leggerezze venir chiamate a sfamare le vite che mai hanno conosciuto un diritto di uguaglianza o di quotidianità slegata da razioni militari.
Il rumore delle armi sembra così possedere una progressione in avvicinamento a quella messinscena che raccoglie lo slabbrato per mano di minacce e bombardamenti e a cui Kacimi dà il titolo di Terra santa (pubblicato in Italia per i tipi di Elliot – collana Reading Theatre). Un copione ammesso tra le vittime e i sopravvissuti di un cumulo di macerie non soltanto ideologiche, ma coi tentacoli allungati negli istinti di difesa e nell’affaticamento che la guerra produce, come una morsa in attesa dell’aldilà su cui non sembrano unificarsi le versioni del sacro. Questa forse la premessa di lavoro della Compagnia Skené alla sua prima nazionale al Teatro Filodrammatici di Milano. Si fa largo la mutevolezza delle stanze in cui c’è chi si inebria facendosi beffe dei missili e chi affolla la mente con falsi miti. Chi fuma narghilè e chi invoca Allah e la sua mirabile grandezza. C’è Yad, il padre che non rinuncia all’ebbrezza alcolica e si ostina a comprendere l’altezza delle letterature russe accanto all’amore inespresso per Alia, la levatrice da cui è nato Amin, il figlio non più perfetto. Ci sono le incursioni del soldato che riflette le improvvisazioni manesche del potere, come la meccanica dell’annullamento di identità. C’è Imen e la sua posa all’occidentale per nascondere il dolore dell’assenza per la madre scomparsa a un posto di blocco.
Così la regia di Corrado Accordino privilegia e già rispetta le frequenze scomode di un testo capace di scorrere nel sangue come pochi ormai, di guadagnarsi la carne dei personaggi e ferirla con le somiglianze tra le privazioni passate e presenti. E non conta l’appartenenza nazionale, né d’altro canto la scelta di Kacimi di adottare il sospeso come cifra di racconto è tanto più comoda di chi stila liste di proscrizione. Perché ugualmente e, anzi, con marchio più dannato, i silenzi rimasti a pareggiare i conti si alternano ai fanatismi o rifiuto degli stessi, all’ironia che plasma le fughe non soltanto del gatto Gesù, ma delle distrazioni illecite.
Terra santa si compone di legami che non temono la distruzione, soliloqui dentro una musica che come un filo spinato costringe gli occhi ad affrontarsi alzando il mazzo della sfida finale. Violati e violentatori assaporano pistacchi e liquore mentre le domande non fanno che ripetersi. Solo la polvere sembra invisibile quanto quei corvi di donne mascherate e obliate insieme al dolore che portano. Una ciocca di capelli rimasta a memoria del fumo delle parole, ultimo canto d’amore e sangue.