Contrabbandare gli auguri è ciò che fa dell’utilizzo teatrale la sua lingua più facile. Si svendono frasi e pose pur di non affidare a una scena ricreata il messaggio macinato per giorni, o almeno quella battuta da dedicare a uno soltanto. È impressionante come i gerghi teatrali abitino pertinacemente i contesti più abituali delle feste comandate, come leghino democraticamente i pubblici rendendoli spettatori e capocomici interscambiabili. Dedicare un pensiero attraverso un’occasione dovrebbe invece assomigliare al tentativo di affidare un ruolo a ogni scena, all’immagine che viene a sostituirla o al volto peculiare dell’attore protagonista di un riquadro carnale e intellettuale.
Si corre un rischio e, per disimpegno o convinto appiattimento, si fissano occhi senza storia prorompendo in frasi modeste che nulla invidiano alle formule di fatto ben più vissute delle costituzioni dei popoli. È possibile sfuggire alla dinamica teatrale solo se coscienti di una prigione che mette radici nelle malinconie, abolendo le differenze tra famiglie e solitudini in cui esse si moltiplicano, tra poveracci alla porta e violini di buffet. Servi di scena, nastri che girano a vuoto, espressioni bianche di neve e indifferenza alle mancate soluzioni dei rapporti che fingono di esistere ancora giusto per l’armonia dei tempi e delle invocazioni di bontà degli spot di panettoni. Basterebbe accettare che per una dedica e l’augurio che la sostanzia esiste il tempo di un ritratto non senza pecche, la pazienza di chi ha voltato una pagina con occhi questa volta di storia.
«So che stai leggendo questa poesia
tardi, prima di lasciare il tuo ufficio
con l’unico lampione giallo e una finestra che rabbuia
nella spossatezza di un edificio dissolto nella quiete
quando l’ora di punta è da molto passata. So che stai leggendo
questa poesia in piedi, in una libreria lontana dall’oceano
in un giorno grigio agli inizi della primavera, deboli fiocchi sospinti
attraverso gli immensi spazi delle pianure intorno a te.
So che stai leggendo questa poesia
in una stanza in cui è accaduto troppo per poterlo sopportare,
spirali di lenzuola ristagnano sul letto
e la valigia aperta parla di fuga,
ma non puoi andartene ora. So che stai leggendo questa poesia
mentre il metrò rallenta la corsa, prima di lanciarti su per le scale
verso un amore diverso
che la vita non ti ha mai concesso.
So che stai leggendo questa poesia alla luce
della televisione, dove scorrono sussulti di immagini mute,
mentre aspetti le ultime notizie sull’intifada.
So che stai leggendo questa poesia in una sala d’aspetto
di occhi incontrati e che non si incontrano, di identità con estranei. So che stai leggendo questa poesia sotto il neon della noia stanca dei giovani che sono esclusi, che si escludono, troppo presto. So che stai leggendo questa poesia con la tua vista indebolita: le tue lenti spesse dilatano le lettere oltre ogni significato e tuttavia continui a leggere
perché anche l’alfabeto è prezioso.
So che stai leggendo questa poesia in cucina,
mentre riscaldi il latte, con un bambino che ti piange sulla spalla e un libro in mano,
perché la vita è breve e anche tu hai sete.
So che stai leggendo questa poesia che non è nella tua lingua:
di alcune parole non conosci il significato, mentre altre ti fanno continuare a leggere
e io voglio sapere quali sono.
So che stai leggendo questa poesia in attesa di udire qualcosa, divisa tra amarezza e speranza,
per poi tornare ai compiti che non puoi rifiutare.
So che stai leggendo questa poesia perché non c’è altro da leggere,
lì dove sei approdata, nuda come sei».
Da Adrienne Rich, An Atlas of the Difficult World (1991)