Il 2 novembre 1975 moriva Pier Paolo Pasolini. Nel giorno di una ricorrenza dolorosa per molti di noi che hanno ancora bisogno di eroi, si sputa che sono meglio la fame sessuale e l’abuso allo stuolo pericoloso dei ricchioni. Sì, perché gay è l’unico ritegno in bocca a un ingordo senza limiti di brame e decreti che lo obblighino alla decenza. Del resto, come dimenticare meglio in questo clima di ossessione all’ascolto e consenso un poeta, drammaturgo, saggista e regista che difendeva anche brutalmente il valore esistenzialistico dello scrivere come altra fame e sete? Come zittire più efficacemente un “ossesso” non certo di volgarità impunita, ma istinto insopprimibile verso un’azione che è prima di tutto espressione?
Da questa soglia di oggi, fatta di una memoria improbabile e insultante, un vuoto che così abilmente distingue noi italiani impegnati a frugare e filmare i delitti altrui o a sorridere, giustificare e persino condividere la bava indecente di un premier che erutta solo vergogne, ci scordiamo del poeta che iniziò a comporre in friulano e criticare proprio questa «forma razziale dell’umanità», smania pericolosamente borghese. Un poeta fratello di Ginsberg cosciente di un episodio tra mille: «Nessun artista in nessun paese è libero. Egli è una vivente contestazione». Ritorno a Pasolini, sì, so di avergli già dedicato un’ampia pagina, ma le parole servono da echi e nuovi ossessi quando la brevità è il metro che si addice all’ingratitudine delle sole condanne pubbliche e derive di un manifestante inascoltato. Il vero porcile è quell’inferno con cui convivere senza destarsi, l’orgia violenta dell’indifferenza.
«E oggi, vi dirò, che non solo bisogna impegnarsi nello scrivere:
bisogna resistere nello scandalo
e nella rabbia, più che mai,
ingenui come bestie al macello,
torbidi come vittime, appunto:
bisogna dire più alto che mai il disprezzo
verso la borghesia, urlare contro la sua volgarità, sputare sopra la sua irrealtà che essa ha
eletto a realtà,
non cedere in un atto e in una parola
nell’odio totale contro di esse, le sue polizie,
le sue magistrature, le sue televisioni, i suoi giornali:
e qui
io, piccolo borghese che drammatizza tutto,
così ben educato da una madre dalla dolce e timida anima
della morale contadina,
vorrei tessere un elogio
della sporcizia, della miseria, della droga e del suicidio:
io privilegiato poeta marxista
che ha strumenti e armi ideologiche per combattere,
e abbastanza moralismo per condannare il puro atto di scandalo,
io profondamente perbene,
faccio questo elogio, perché, la droga, lo schifo, la rabbia,
il suicidio
sono, con la religione, la sola speranza rimasta:
contestazione pura e azione
su cui si misura l’enorme torto del mondo.
Non è necessario che una vittima sappia e parli.»