“Per me l’atto più importante della tragedia è il sesto:
il risorgere dalle battaglie della scena,
l’aggiustare le parrucche, le vesti,
l’estrarre il coltello dal petto,
il togliere il cappio dal collo,
l’allinearsi tra i vivi
con la faccia al pubblico.
Inchini individuali e collettivi:
la mano bianca sulla ferita al cuore,
la riverenza della suicida,
il piegarsi della testa mozzata.
Inchini in coppia:
la rabbia porge il braccio alla mitezza,
la vittima guarda beata gli occhi del carnefice,
il ribelle cammina senza rancore a fianco del tiranno.
Il calpestare l’eternità con la punta della scarpina dorata.
Lo scacciare le morali con le falde del cappello.
L’incorreggibile intento di ricominciare domani da capo.
L’entrare in fila indiana di morti già da un pezzo,
e cioè negli atti terzo, quarto, e tra gli atti.
Il miracoloso ritorno di quelli spariti senza tracce.
Il pensiero che abbiano atteso pazienti dietro le quinte,
senza togliersi il costume,
senza levarsi il trucco,
mi commuove più delle tirate della tragedia.
Ma davvero sublime è il calare del sipario
e quello che si vede ancora nella bassa fessura:
ecco, qui una mano si affretta a prendere un fiore,
là un’altra afferra la spada abbandonata.
Solo allora una terza, invisibile, fa il suo dovere
e mi stringe alla gola”.
Wislawa Szymborska, Impressioni teatrali
In breve. Raccontare a teatro è un po’ come gettarsi allo sbaraglio. E non è certo una composizione quieta quella che ne deriva, perché a fronte di mille battaglie dovute alla smania d’esserci e così di resistere agli ostacoli imposti da chi non lo ritiene possibile, il lottatore è spesso preda della propria vittima. Lo spettatore detta l’andamento degli umori e impersona il giudizio, quello che precede la critica più cosciente come l’autocommiserazione. I contrasti non si contano ed ecco che allora la poesia interviene a salvare. Sgombra il pensiero laddove tutto scatta come un bottone automatico sulla definizione delle cose. La poesia introduce al sublime e il sublime dà il braccio agli opposti, non li scarta schifato.
Wislawa Szymborska è una poetessa che sfila le scene da categorie prestabilite e le solleva da terra senza negare vermi e fosse. Chi arriccia al naso al solo pensiero di fare poesia a teatro, non conosce il potere di notte e giorno quando più che essere due regole temporali di convivenza, sono l’impasto di un emissario scelto, il verso, quello dalla lama affilata come lo sono le consuetudini interrotte dai vulcani e terremoti. Come chi assiste alla distruzione e vede che ciò che realmente conta è attendere che si faccia luce su un altro atto.
Szymborska mi ha insegnato a non vessare l’anima di domande inutili sulla purezza di senso e l’orma perfetta di una battuta che richiama l’altra con esito previsto e soddisfacente. Mi ha mostrato che si può vagare per sempre come è per Amleto la risposta introvabile e allo stesso tempo la sua attesa alle spalle della scena sotto altro nome e storia.
Szymborska, più della vanità di certo teatro astruso, ha in mente che tutto quello stordirsi con il compiacimento delle carriere altro non è che un modo diverso di aver ceduto a un inventario, a un ordine imposto e appunto alle categorie ed etichette. E nessuno più ricorda dove quando e perché abbiano aperto quel conto a suo nome. In breve. La protesta contro di esso noi la chiamiamo anima.