Va in onda su Italia 1 la settima e ultima stagione di The Shield. Late Night Show, naturalmente. Vic Mackey e soci sono un lusso per i soli spettatori che amano le emozioni forti…
L’America, si sa, ci ha sempre abituati a una violenza “cinetica”, potente e per certi versi gigante. Forse anche ‘altisonante’, costruita spesso con quella punta di sana esagerazione made in Usa. D’altronde appare pure scontato, è un fatto culturale.
Se però guardiamo in profondità, oltre il velo polveroso del tubo catodico o dello schermo cinematografico, l’America ci appare molto diversa. La violenza di strada che contraddistingue le grandi metropoli, meno stilizzata di come ce la mostrano in pellicola, è una realtà di fronte alla quale, con un minimo di informazione, nessuno può dirsi indifferente.
Questa violenza, così vera e rude, istintiva e animalesca è al contempo frutto di una e(in?)voluzione della società. Il cinema e la televisione hanno provato a raccontarcela. Non lo hanno fatto spesso, preferendovi, com’è nel loro costume, l’impatto visivo di serie come C.S.I. o la forza dirompente dei blockbuster alla Bruckheimer, ma alle volte ci hanno comunque provato.
I risultati sono altalenanti naturalmente, come lo sono in generale i momenti buoni a dispetto di quelli negativi della vita.
The Shield è un serial un po’ anomalo. Lo è perché non cede, praticamente mai, alla posticcia necessità di lastricare il cammino di buoni sentimenti. Vic Mackey, il suo protagonista, non è mai stato nè sarà mai un buon samaritano. Lui non predica bene, razzola peggio, in nome di una sorta di giustizia che è alla base del suo lavoro di agente di polizia a Farmington.
Los Angeles, la sua città, non ha nulla di angelico. È sudicia e popolata da gang di strada, il crack è la via più facile per affrontare la vita, i sogni di un futuro migliore non sono contemplati nel salario da agente di strada. In un mondo così, sembra voler dire Vic Mackey, non puoi essere un uomo giusto. Non al cento per cento. Puoi esserlo forse a livello “globale”, nella visione generale, nella chiusura del cerchio. Ma le azioni, quelle singole, sono il frutto della sopravvivenza, dell’adattamento.
Il compromesso signori…
Per certi versi The Shield, negli anni zero dell’umanità, riprende un percorso, un dialogo fatto di immagini e azioni con la metropoli americana e i suoi infiniti substrati. Percorso, questo, che era probabilmente stato introdotto da una visione grezza e verace, acerba come si conviene e priva di mediazione filmica: NYPD. Una serie (della quale ci riserviamo di approfondire il tema, in futuro) che si era contraddistinta per una mancanza di “artificio”, costruita com’era intorno alle vicende normali e reali dei suoi protagonisti.
The Shield, quasi un decennio dopo, all’estremo opposto dell’America (qui siamo a L.A.) raccoglie forse un’eredità. Ma a distanza di tempo il male ha stretto maggiormente i suoi artigli attorno alle palle dell’umanità. Inevitabilmente dunque Vic Mackey, taurino leader di una squadra d’assalto della LAPD, ne è contraltare. Per combattere il crimine devi essere un po’ criminale anche tu. E come ogni forma di coinvolgimento che si rispetti, se ti sporchi col fango, è perché sotto sotto un po’ ti piace.
Chi è arrivato, spettatore diligente, fino a questa settima serie si è preso la sua buona dose di emozioni. La sua buona razione di umano coinvolgimento. The Shield non è mai stata una serie da indie songs. Della serie: ogni puntata un pezzo da hit attualissimo, a sottolinearne la sua effimera esistenza.
Esattamente come la sua grezza costruzione filmica – fatta di inquadrature mobili, scenografie reali e degradate, pellicola da grana ruvida – si fa spoglia di orpelli e riduce la musica a pochi e mirati momenti. Ottenendo un impatto che fa male, sfonda il cuore.
Un po’ come succede verso la fine della quinta serie, in un momento che forse riassume tutta la precarietà dell’esistenza di ognuno dei protagonisti di questa storia.
Un bar vuoto, luci rossastre, tre birre mezze finite, goccioline di condensa che lavano via il dramma. Lem, col suo ciuffo perennemente ingellato e la mascella contratta, guarda i suoi amici Vic e Shane, la sua squadra, la sua famiglia. Dipinta sui volti di tutti c’è solo sofferenza. La sofferenza del sapere che si è rotto un sogno, che l’ingranaggio è saltato e non ci saranno più ritorni ai vecchi tempi. Quelli sono già relegati alla nostalgia, quell’infinita meretrice che ti sfonda l’anima, più passano gli anni.
Di fronte a una notte uguale alle altre, con le sue algide luci al neon, l’ultimo saluto ha il senso di un abbandono. Che ti disarma. Come il titolo e le note della canzone degli Smashing Pumpkins che accompagna questo momento.
Un brivido percorre la schiena. Se il raziocinio porta a guardare le cose con distacco, allora i protagonisti di The Shield sono tutti esseri immondi, gente che non merita un posto in questo mondo. Ma se l’anima e l’istinto prevalgono sulla razionalità allora il pensiero è ancora più distruttivo. Non puoi che provare una coinvolgente pena: Mackey e soci sono il disagiato prodotto di una società che è sfuggita a se stessa. Credendo di fare del bene, offuscano ancora di più la loro esistenza.
Di nuovo un brivido, lungo la schiena.
Questa America, pericolosamente violenta e al tempo stesso affascinante, ricca di contraddizioni e disagi, ancora una volta sa come farti emozionare.
Lasciarti indifferente non è mai stato nelle sue corde.
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Massimo Versolatto
Condivido la tua impeccabile recensione, devo aggiungere un’opinione personalissima non sono riuscito vigliaccamente a terminare la visione neanche di una serie completa perché non riesco a sopportare il senso di colpa dei personaggi e la necessità continua di celare la verità ai loro stessi colleghi, la corruzione, i sotterfugi, le loro vite dilaniate dai problemi che loro stessi si creano in una battaglia con la criminalità che alla fine non li rende molto diversi da chi cercano di combattere. Non sono persona particolarmente delicata e di mestiere faccio il pulismano a Bologna e ti assicuro che la realtà della strada non fa più sconti a nessuno neanche in Italia, basta avere una divisa e diventa tutto delicato, ma the Shield mi è entrato dentro e ho dovuto mollare complice anche il rifiuto di mia moglie a guardarlo.
Un’associazione d’idee che mi è sorta spontaneamente, la lotta al nemico costruita utilizzando le sue stesse armi mi ha ricordato ” Apocalipse now”.
Seconda associazione, la squadra ( fiction napoletana)seconda serie, non so se l’hai mai vista, ha qualche punto di contatto ed è dignitosa anche se non è tecnicamente comparabile.
A questo proposito: la fiction in Italia non ce la può fare vero?
Tornando a The Shield: bellissima la tecnica cinemtografica , realistica e incalzante.
Da operatore di polizia una critica, può essere fuorviante, per quanto la realtà possa essere aberrante io continuo a credere e sperare che un poliziotto debba sempre servire e proteggere, in America , in Italia e nel mondo.
Forse sono un idealista?
Lo spero.
ciao
massimo
Ti ringrazio molto per il commento. I tuoi complimenti mi lusingano.
Ti chiedo scusa per il ritardo nella risposta e passo subito a commentare gli spunti che mi lanci nel tuo post.
La fiction italiana di genere poliziesco è un argomento che prima o poi vorrei trattare in questo spazio. Al momento ne ho una conoscenza limitata e dunque se ne riparlerà in seguito. Posso dirti che personalmente ho apprezzato i tentativi fatti con le due serie “Crimini” – di cui puoi leggere un mio breve commento su milanonera (qui) nel quale ammetto di aver due volte “cannato” i dati tecnici, la seconda volta per errore di battitura, e mi scuso con gli autori erroneamente citati – e non mi sembra nient’affatto male la fotografia e lo stile di ripresa de La Squadra. Ma ammetto, appunto, di non averla seguita con particolare attenzione.
Per quanto riguarda il tuo ultimo commento, sì, sono perfettamente d’accordo. Di fatto è l’assoluta deviazione da questo presupposto che rende i protagonisti di The Shield così tremendamente negativi. Cosa, questa, che priva del tutto la serie di una qualsivoglia forma di redenzione o di lieto fine.
Tragica, fino in fondo e senza scampo.
anche io trovo solo oggi la tua risposta di agosto mi pare ma la rete mi inghiotte e a volte è difficile ritrovare le proprie tracce, troppi stimoli, comunque sta per cominciare una nuova serie della squadra e quindi quale migliore occasione per una recensione
ciao
Non dirlo a me! Si fa così fatica a star dietro a tutto quello che piace. La vita di tutti i giorni ti assorbe e devi avere taaanta capacità organizzativa.
Comunque ci proviamo e prima o poi stiamo dietro a tutto.
Inizia la squadra. Ottimo. Me la guardo, promesso, e poi butto giù qualcosa. Poi ne parliamo!
Ciao
Non c’entra niente ma ieri sera ho iniziato a vedere il figlio più piccolo di Pupi Avati e ho dovuto interrompere dopo 15 minuti e dire che da bolognese dovrei riuscire a fare meglio ma utlimamente non riesco proprio a digerirlo, anche il bar Margherita per me è inguardabile tu hai mai visto qualcosa del famoso regista bolognese e che ne pensi nel caso? ciao
Pupi Avati ha fatto tanti, tanti tanti film. Io sinceramente conosco poco della sua filmografia però posso dirti che c’è un film che ho apprezzato particolarmente: “La casa dalle finestre che ridono” (1976). È un thriller tendente all’horror, girato magistralmente perché è tutto giocato sull’atmosfera, sulla suspense. È un Avati prima maniera, un Avati che non si era ancora cimentato con la commedia. Di lui mi è piaciuto anche “Regalo di Natale” (1986) e, seppur solo in parte, anche il suo seguito “La rivincita di Natale” (2004). Il Bar Margherita non l’ho visto ma pensa che mi ispirava… Su quest’ultimi comunque stiamo parlando già della sua fase successiva.
Non lo so, credo che uno come lui possa dividere. Dovrei recuperare gli altri film, per poter giudicare appieno, comunque.