Animal Kingdom

Tradimenti e misteriose trame famigliari in un noir strepitoso.

La “famiglia” è un microcosmo nel quale i crimini divengono gesti semplici, privi di importanza. Perché ciò che conta è tutto volto alla salvaguardia del gruppo, inteso come branco di individui simili. Se non ti allinei, se sei diverso, se mostri eccessiva debolezza ti allontanano o, peggio ancora, cercano di sbarazzarsi di te.
Non è questione di legami di sangue ma di mantenimento dello status quo.

In estrema sintesi è questo che emerge da Animal Kingdom, trionfatore al Sundance come miglior pellicola straniera. Sono stati scomodati paragoni importanti con grandi registi e grandi film. Sono stati portati in campo parallelismi con le sottoculture violente della periferia urbana (americana in primis). Ma la verità è che questo bel film ha una sua personale dimensione, una cifra stilistica nella quale tutto si incastra benissimo, dalla telecamera spesso rallentata del regista/sceneggiatore David Michôd, alla fotografia minimale ed efficacissima di Adam Arkapow, passando per le musiche d’atmosfera di Antony Partos che contornano i gesti di attori notevoli (e se per Guy Pearce era scontato, il complimento va soprattutto a Jackie Weaver e all’esordiente James Frecheville).

Come sottolineato in apertura, c’è una sorta di amoralità di fondo, in quest’opera prima riuscitissima. Una forma di degrado così asfittico che deforma ogni ideale. E rende anche il concetto stesso di “famiglia” una specie di puro cerchio di protezione, dove i deboli vengono protetti dai più forti, solo ed esclusivamente in base alla necessità di sopravvivenza.
E in questo sistema selvaggiamente istintivo è perfettamente riconducibile l’intera parabola esistenziale di Joshua. Da debole e inerme preda del mondo degradato, coinvolto suo malgrado in una faccenda sporca più grande di lui, inizialmente coperto a scudo dai leoni più grossi, poi in fuga solitaria perché tradito da quegli stessi fratelli in precedenza protettivi, infine deciso a tornare all’ovile – simbolo quasi inconscio di famiglia – nel quale la sola regola del gioco è dimostrare di essere il più forte, per comandare.
O per affrontare di petto gli eventi.

È negli ultimi cinque minuti di pellicola che ogni cosa si guadagna il suo posto, nell’immensa visione violenta (pur senza eccessivo spargimento di sangue) di questo giovane regista esordiente con le idee chiarissime. Con quei pochi, perfetti cambi d’inquadrature dell’ultima scena va a fuoco tutto il compendio teorico di una pellicola che, fino a quel momento, aveva lasciato sospesi come corpi privi di gravità tutti i suoi sfaccettati protagonisti.

No, non posso svelarvi il finale.
Perché credo che non vi pentirete di averlo voluto scoprire da soli.


Massimo Versolatto

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