The Help: bianco e nero a colori

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Quando nel 2009 la scrittrice Kathryn Stockett ha deciso di dare alle stampe il suo primo romanzo, “The Help”, ha bussato alla porta di 60 case editrici prima di vederlo pubblicato. In poco più di due anni, il libro ha raggiunto il traguardo delle 100 settimane di presenza stabile nella lista dei best sellers del New York Times. Come l’opera da cui è tratta, anche la pellicola omonima ha incontrato favori oltre ogni più rosea previsione. Distribuita ad agosto negli USA, ha raggranellato oltre 200 milioni di dollari, superando ogni record di tenuta in testa alle classifiche. Ed ora si appresta ad essere protagonista dell’imminente stagione di premi. Non male per un film che doveva essere un chick flick estivo con un cast di attrici emergenti e la regia di uno sconosciuto.

Mississipi, 1962. Conclusi gli studi, la giovane Skeeter torna nella ridente cittadina di Jackson: grandi ville padronali, aiuole ben curate, smisurati campi di mais, profumo di pane e pollo fritto e uno strisciante sentimento di razzismo. Nelle case delle buone signore di Jackson, donne nere aiutano nelle faccende domestiche, tra stoviglie da lucidare, banchetti da imbandire e bambini da crescere. Nel frattempo le padrone wasp escogitano un nuovo regolamento per impedire loro di usare i bagni “bianchi”: prove di discriminazione razziale secondo il motto “uguali ma separati” che anima la battaglia di Hilly Hoolbrook, la più ottusa e spietata tra le amiche della protagonista.

In questo contesto di garbate ipocrisie e smaccata intolleranza, l’anticonformista Skeeter si avvicina all’enigmatica Aibileen, domestica di colore. Dall’incontro tra le due donne, cui presto si aggiunge anche Minny, cuoca nera di prorompente simpatia, nascerà una raccolta di racconti, intitolata “The Help” appunto, che rivoluzionerà la vita delle tre donne: prove di emancipazione femminile nell’America del profondo Sud razzista.

Il Mississipi bruciava in un vecchio film di Alan Parker. Oggi, la segregazione razziale formato Disney (produttore insieme alla DreamWorks di Spielberg) è una favola per signorine: poca tensione sociale, il Ku Klux Klan nominato malamente, qualche stralcio di notiziario nazionale (Martin Luther King, i funerali di Kennedy) inserito più per colore che per scrupolo storico. Non stupisce dunque che il film, come e più del romanzo, abbia scatenato le ire dell’Association of Black Women Historians e di quanti hanno lamentato un’eccessiva leggerezza nell’esposizione di temi storici di tale portata e ancora di bruciante attualità.

Ma appare evidente che “The Help”, almeno nelle intenzioni del regista-sceneggiatore Tate Taylor, non è un film sulla battaglia per i diritti civili dei neri nell’America di Rosa Parks: è semmai un apologo rassicurante sul valore della sorellanza, una fiaba sognante sull’emancipazione femminile prima dell’esplosione della contestazione, del femminismo e dei moti sessantottini. In fondo – questa la tesi del film – ognuna delle protagoniste, bianca o nera, è schiava delle aspettative e degli obblighi che la società, arcaica, immutabile e maschilista, impone loro.

Il risultato è un convincente e patinato women’s film, sorretto da uno script più che solido, una confezione impeccabile (costumi, ambienti, colonna sonora e fotografia pop, satura di colori, di Stephen Goldblatt) e soprattutto un cast in stato di grazia. Taylor, fortemente voluto dalla Stockett a capo del progetto, imbastisce una sceneggiatura ineccepibile, condita con dialoghi brillanti, dosando sapientemente risate, retorica e lacrime. La regia è tutta al servizio delle splendidi interpreti, in gara di bravura tra scoppiettanti duetti e monologhi di prezioso (non lezioso) virtuosismo: dalla nonnina svanita di Sissy Spacek alla frivola vamp di Jessica Chastain, dall’isterica moglie modello di Bryce Dallas Howard alla petulante madre di Allison Janney, fino alla protagonista Emma Stone, caparbia e orgogliosa. Menzione d’onore per le due “nere”: se Octavia Spencer è un irresistibile vulcano di risolutezza ed energia, Viola Davis ci restituisce il ritratto sfaccettato di una donna sofferente e offesa, con gli occhi gonfi di lacrime e le gambe stanche, eppure combattiva, tenace, capace di affetto sincero. Come ha già scritto David Edelstein sulle pagine del New York Magazine, il film le appartiene.

Stefano Guerini Rocco

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