Justified: un finale perfetto.

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Parlando di serie tv io sono convinto del fatto che gli sceneggiatori e i registi made in USA siano tra i migliori sulla piazza. In pochi sanno raccontare storie bene come da quelle parti, ma in pochi sanno scrivere dei brutti finali come accade da quelle parti. Le ragioni non sono chiare e andrebbero ricercate nell’unione di fattori sociali, culturali e produttivi. Al pubblico statunitense, ancora schiacciato dall’idea del self made man e del sogno americano, servono finali per così dire positivi, speranzosi, dove ogni cosa viene spiegata e niente è lasciata all’immaginazione. I produttori e le reti non vogliono correre il rischio di lasciare lo spettatore insoddisfatto al termine di una stagione per evitare che non torni a vedere la produzione successiva. Coi soldi non si scherza e sappiamo quanto i numeri degli ascolti siano importanti in un mercato comandato dalla tv commerciale. Questo sistema già crea una forte divisione alla base e segna grandi differenze di produzione rispetto al cable. Se i canali via cavo hanno un progetto a lunga scadenza e puntano sulla qualità di scrittura, i canali commerciali puntano sulla soddisfazione di ogni puntata e sul drammatismo. Per questo le serie hanno una struttura per cui ogni puntata è indipendente, con una storia che nasce e finisce all’interno dello stesso episodio, ed è legata alle altre semplicemente per i personaggi ricorrenti e perchè sullo sfondo, sottile sottile, c’è un piccolo fil rouge che viene ogni tanto ripescato e affrontato, di solito in non più di 2/3 episodi (su 24) a stagione.
Si creano, a mio avviso, tre tipi di finali, momento critico per eccellenza dove la fantomatica soddisfazione dello spettatore diventa da importantissima a quasi unica ragione di vita degli ultimi episodi. Il primo comunissimo caso è quello che io chiamo con un termine altamente scientifico: finali-di-merda-ma-così-di-merda-che-ti-viene-voglia-di-vomitare-merda. Non so se rendo l’idea. E’ il caso di quasi tutte le produzioni commerciali dove i finali sono di solito dei lunghi videoclip con musica drammatica e ralenti a profusione. Si vuole far piangere, tanto, e allo stesso tempo sorridere di soddisfazione. Non è raro che i personaggi a un certo punto sentano un improvviso forte bisogno di partire, anche quando non ce n’è nessun motivo. Così lo spettatore può in qualche modo salutare il personaggio e continuare a credere che esista. Il grosso, grossissimo problema di questi finali è che tutto succede molto in fretta, la storia non segue la sua naturale evoluzione e si percepiscono delle forzature e dei buchi di sceneggiatura dettata dalla necessità di chiudere ogni filone narrativo. Spesso si ricorre al “5 anni dopo” per coprire l’incapacità di chiudere la storia nel tempo della narrazione in cui viene raccontata. Di questo male soffrono praticamente tutte le produzioni dei canali tv commerciali, anche quelle belle fino alla penultima puntata, ma è anche il caso di alcune produzioni cable che perdono la bussola all’improvviso. Dexter su tutti.
Il secondo tipo di finale è quello diffusissimo a livello cable dove l’ultimo episodio sembra essere quasi un extra per raccontare e mostrare in maniera molto chiara quello che più o meno si era già capito prima, durante la visione della serie. Il termine scientifico con cui mi riferisco a questi finali è: didascalico-eccessivo. Il succo del discorso è che potevamo farne a meno, non sto dicendo che non siano dei bei episodi, ma che semplicemente, pur essendo tutto giusto, senza forzature, senza salti temporali enormi e senza buchi di sceneggiatura, pur essendo perfetti, risultano eccessivi, un di più. Il fatto che siano perfetti e scaturiti normalmente dall’evoluzione della storia è proprio un sintomo che forse non c’era bisogno di mostrare tutto, ma che molte cose si potevano lasciare intuibili dall’intelligenza dello spettatore che tra l’altro avrebbe così la possibiltà di un dialogo aperto sulla serie, di poter dire la propria ed essere coinvolto attivamente anche nel post visione. L’ultimo caso che mi viene in mente è quello di Breaking Bad: un finale perfetto, dove tutto quello che succede è giusto, ma non avevamo nessun bisogno di vedere l’eroe nella sua fine, la storia non si è concentrata sulla vita di Walt, ma sul perchè fa quallo che fa, sul potere, sulla spirale di violenza e sulla rivincita degli sfigati. Anche se il protagonista continua a ripetere e ripetere che “lo fa per la famiglia”, noi lo abbiamo capito che non è così e lo fa perchè gli piace e si sente potente. Non c’è bisogno che lo espliciti e non abbiamo bisogno di vederlo. Già lo sappiamo perchè la serie, bellissima, è riuscita abilmente a raccontarlo nel corso delle stagioni.
Abbiamo poi il terzo tipo, rarissimo, che in poche parole si può definire capolavoro. Sono finali che posso contare sulla punta delle dita e che dicono tutte le cose giuste, nel modo giusto, senza mai apparire pedante, lento o superfluo. Un finale che in qualche modo da un significato nuovo a tutto quello che abbiamo visto o che riprende invece i temi iniziali e li rafforza e ribadisce nonostante tutto quello successo rinfrescando la memoria allo spettatore e ricordandogli di cosa la serie stava parlando, anche se a volte sembrava non farlo.

Questi finali sono davvero pochi e tutto questo sproloquio serve per arrivare a parlare di Justified e del suo finale meraviglioso. L’appartenenza al secondo o al terzo gruppo è una valutazione assolutamente personale e per me Justified entra di diritto nel terzo gruppo. Io ritengo che non poteva chiudersi meglio una serie che ho seguito appassionatamente dall’inizio alla fine. Tutta questa ultima stagione, tornata in carreggiata dopo la quinta brutta e strana, è da subito partita carica di sangue, di tensione pronta a esplodere in una strage. Io stesso avevo presagito un brutto finale per Boyd e più passavano gli episodi, più facevo fatica a trovare un modo per vederlo sopravvivere. E nel momento in cui la serie si prepara al gran finale, con una spietata caccia all’uomo in piena corsa, il nuovo villain messo con le spalle al muro e quindi pronto a tutto, il suo scagnozzo pazzo come pochi e assetato di sangue a partire dal minuto zero della sua apparizione, e non da ultimo la striscia di morti seminati lungo la strada, ecco in questa situazione io mi aspettavo solo IL botto, lo scontro tra Boyd e Raylan da cui nessuno sarebbe uscito vincitore. Ad inizio stagione oltre a profetizzare la morte di Boyd avevo dato per certa la non morte di Raylan. Ora invece non ho più convinzioni, comincio a pensare che la povera contea di Harlan rimarrà disabitata e nessuno sopravviverà. Ma quello che succede dal “Goddamn Raylan, your timing sucks!” urlato da Boyd stravolge ogni mia previsione e in pochi istanti ripercorre tutta la stagione facendoci ricordare di cosa davvero parlava. Non parlava di crimine, criminali e legge, non era un giallo dall’ambientazione atipica. In perfetto stile noir Justified è stata una lunga riflessione sulla società, sull’amicizia, sull’importanza del passato e sulla crescita. La serie ci ha voluto raccontare di Raylan, Boyd ed Ava, e della loro scelta di che tipo di uomo\donna essere.
La situazione che si viene a creare nel capanno dei Bennett richiama una situazione simile che si è svolta nella prima stagione a casa di Boyd. Quella volta era finita con Boyd in ospedale, stavolta invece lo stesso Boyd non ha intenzione di facilitare la vita a Raylan. Lui non sparerà, e lascia Raylan a fare quello che deve fare senza aiuto. Il motivo per cui Raylan non spara, non è semplicemente perchè non estrae per primo, è molto di più e ha a che fare con il carbone. L’attenzione su chi sarebbe vissuto e chi sarebbe morto si trasforma in voglia di scoprire come tutti avrebbero vissuto e il quattro anni dopo ce lo spiega. All’apparizione della scritta ho temuto per il peggio, ma gli ultimi minuti di puntata sono uno spettacolo per gli amanti dei dialoghi che da subito hanno caratterizzato la serie. Certo non siamo di fronte all’assenza di “errori” e pedanterie, non c’era nessun bisogno di mettere la camicetta chiusa sul collo al bambino, capiamo benissimo che è figlio di Boyd anche senza questi facili espedienti, ma c’è un momento di rara bellezza, un veloce scambio di battute tra questi due ex-avversari ormai sereni di essere dove sono. Certo si sono azzuffatti, hanno ucciso, ma alla fine sono due tizi di Harlan, fanno parte di Harlan e Harlan fa parte di loro. Questo legame non potrà mai essere spezzato e anche se hanno voluto ammazzarsi si sono sempre trattati con rispetto al punto che se Boyd avesse fatto un paio di scelte diverse ora li vedremmo a bersi un bourbon insieme.
In questo finale ai personaggi viene permesso di essere quello che sono per davvero, per certi versi anche migliorati in quanto esseri umani e questo dovrebbe essere un giusto finale per tutte le serie che hanno a cuore i propri personaggi. I tre protagonisti sono messi nella condizione di poter vivere per sempre e potremo immaginare i loro discorsi per sempre. Alla fine della visione, mi rendo conto che non poteva esserci altra chiusura: non era il finale che volevo, ma è il finale che ancora non sapevo di volere. Ah perchè poi anche ai fan del sangue non mancherà il divertimento con un duello classicissimo in stile western d’altri tempi.
Ogni volta che una serie finisce un po’ sono triste. Ma anziché desiderare altri episodi, impegnerò il mio tempo a convincere quante più persone possibili a guardare questo capolavoro che è Justified. In modo che anche loro possano innamorarsi di Ava, Raylan e Boyd, e magari anche del whiskey.

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