Nerofumo

Seduta di fronte a me, nello scompartimento del treno che mi porta a Cagliari, c’è una vecchietta. Siamo le uniche passeggere, quindi lasciamo le borse sul sedile vuoto a fianco al nostro.
La signora è paffuta, carnagione rosea e con poche rughe, ha i capelli bianchi corti, dai riflessi argentei. È elegante nel suo abito di lino blu a piccoli pois bianchi. La sua borsa è vecchia di anni, ma è chiaramente di marca, autentica e non dei mercatini.
Lo spolverino blu che ha ripiegato con cura e posato sulla borsa, mi ricorda mia nonna, che anche in piena estate non usciva mai di casa senza lo “spolvero”.
Il compito di prenderlo e appenderlo nell’attaccapanni dell’ingresso, e poi di riportarglielo ed aiutarla ad indossarlo quando andava via, spettava a me.
Siamo partite da pochi minuti, che la mia compagna di viaggio tira fuori dalla borsa un cellulare ultimo modello, e comincia a mandare messaggi.
Ammirata da questa inaspettata disinvoltura tecnologica, la guardo forse per un secondo di troppo. Si accorge del mio sguardo, e mi spiega: “Avviso i miei nipoti, così verranno a prendermi alla stazione”.
Mi scuso per l’involontaria intromissione, ma le confesso che non mi aspettavo da parte sua una tale padronanza del telefono cellulare! Sorride compiaciuta, e ammette che adora le nuove tecnologie.
Da lì, cominciamo a parlare di tante cose, e non smetteremo fino all’arrivo. È una piacevolissima conversatrice, parla di tutto.
Dal modello di cellulare, passa a raccontarmi delle cose che amava fare da giovane, e delle novità che ha scoperto in vecchiaia, grazie ai nipotini, come il cellulare e il computer. Quale che sia l’argomento, ne parla con grazia e leggerezza. Non ha avuto sempre la vita facile, ma si vede che ha saputo affrontarla con forza, senso dell’umorismo e tanto buon senso.
Mi racconta di quando si è innamorata di colui che sarebbe diventato suo marito, tanti anni prima.
Lei era già promessa ad un altro, si trattava di un matrimonio combinato dalla sua famiglia. Era infelice, perché il prescelto non le piaceva. Me lo descrive con pochi tratti, facendone una macchietta: un tipo scialbo, pieno di tic nervosi, il cui unico merito, quello che contava per i suoi genitori, era il consistente patrimonio. Durante il periodo di fidanzamento con il decerebrato, così lo chiama, mentre mi fa l’occhiolino, ad una festa incontra finalmente Lui. Un giovane bruno, affascinante, sorridente, che sta parlando con un gruppo di amici all’angolo opposto della sala.
I loro sguardi s’incrociano, si fermano, e non si perderanno più di vista. Poco dopo, lui si avvicina al gruppo con cui lei è venuta alla festa, conosce uno dei suoi futuri cognati, e si presenta.
Con il viatico della presentazione del cognato, il giovane diventa la star della serata. È brillante, intelligente, gentile e per giunta bellissimo. Piace a tutti, persino il fidanzato celenterato si accorge di quanto Giovanni sia affascinante. Dopo di allora, s’incontrarono in diverse occasioni. Quando le fu chiaro che sposare lo scialbo Sebastiano era impossibile, essendo innamorata di Giovanni, si pose il problema di dirlo ai suo genitori.
Infatti, dirlo al fidanzato le pareva molto più semplice. Finalmente trovò il coraggio, e annunciò alla famiglia riunita che non poteva sposare Sebastiano. Per qualche ora ci furono fuoco e fiamme. Poi suo padre, una volta informato che c’era un altro candidato, e che per fortuna non si trattava di un morto di fame, accettò lo smacco.
Dopo qualche mese di “decompressione” per far digerire la cosa alla famiglia di Sebastiano, si cominciarono a preparare le nozze. I suoi genitori organizzarono tutto con cura.
Il giorno del matrimonio, durante la Messa accadde qualcosa di inaspettato.
Subito dopo lo scambio degli anelli, una vecchia si alzò dal banco, in una cappella laterale della Basilica, e venne verso gli sposi nella navata centrale. Era una zia di Sebastiano, lo sposo mancato.
A voce altissima, udibile in tutta la Basilica, augurò agli sposi tanta infelicità quanta ne avevano procurato, e proseguì su quel tono fino a quando un cugino dello sposo riuscì ad allontanarla. Ci fu un po’ di rumorio, ma poi il celebrante poté concludere il rito. Al ricevimento, tutti si erano scordati dell’incidente.
“Ma evidentemente le sue maledizioni dovettero fare effetto, in qualche modo” dice la signora. “Infatti”, prosegue sorridendo la mia compagna di viaggio, “Nonostante tutte le precauzioni e i provvedimenti del caso, il nostro viaggio di nozze fu disastroso.”
Vorrei sapere cosa accadde dopo, ma il treno rallenta, stiamo arrivando alla stazione di Cagliari. La signora mi offre una salvietta imbevuta di acqua di colonia, “Per levarci la fuliggine del viaggio”, commenta con civetteria mentre si prepara a scendere dal treno.
Pochi minuti, e la perdo nella confusione della stazione. Non saprò mai che successe in quel viaggio di nozze!

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Un sogno in blu

Un’improvvisa raffica di vento fece sbattere con violenza la persiana mal chiusa della camera.
Enrichetta si svegliò. Imprigionata dalla ragnatela del sogno bruscamente interrotto, non capiva dove si trovava. Stava sognando di dormire in una camera sconosciuta, arredata nei toni del blu. Tende blu zaffiro, copriletto blu cobalto, lenzuola acquamarina, abat-jour dal paralume di vetro celeste, che pretendeva di essere di Murano. Ricordava di aver sognato di svegliarsi perché uno sconosciuto, che indossava un pigiama di seta blu Cina, le aveva intimato di alzarsi, accompagnando l’invito con un movimento della mano con cui impugnava una pistola. A quel punto del sogno, il rumore della persiana sbattuta contro il muro, la svegliò sul serio, con ancora addosso l’angoscia. Per scacciare quella sensazione di morte incombente, pensò di bere qualcosa. Accesa la luce, sentì la nuca aggricciarsi, quando vide che l’abat-jour aveva il paralume di vetro celeste, il quale conferiva alla stanza una luminescenza da acquario. Abbassò lo sguardo sulle lenzuola: erano color acquamarina, il copriletto blu cobalto. Le tende, mosse dal vento che entrava dalla porta-finestra aperta, erano blu zaffiro. Voltò lentamente la testa nella direzione in cui si trovava l’uomo del sogno. Era ancora lì, seduto in poltrona, il pigiama aveva una macchia sul petto. Sul viso stranamente contratto, spiccavano gli occhi, che la fissavano con un’espressione stupita. Enrichetta si alzò dal letto. Mentre raccoglieva il suo tailleur dalla sedia, spostò inavvertitamente con un calcio la pistola che, dai piedi dell’uomo, finì sotto la poltrona. Si rivestì con calma, uscì dalla camera passando dalla porta-finestra. Attraversò il giardino.
Si diresse alla sua macchina, parcheggiata vicino al cancello d’ingresso dell’hotel, prestando attenzione a non scivolare sulla ghiaia, sui sandali tacco dodici. Rientrò in città con la testa piena di domande.
Non riusciva a ricordare perchè si trovasse in quella zona, era sicura che il giorno prima non aveva intenzione di recarsi né a Bergamo, né ai Laghi. Fu alla luce lampeggiante dei semafori di Viale Zara che notò delle macchie sulla manica della giacca: sembrava sangue. Il lampeggiare dei semafori conferiva curiosi riflessi alle macchioline punteggiate. Arrivata nei pressi del semaforo di Piazzale Loreto, aveva preso la sua decisione. Giurò a se stessa di non mangiare più la cassoeula con i verzini a cena. Lo diceva sempre la nonna Virginia, che poi si fanno brutti sogni.

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Sprofondo rosso

Appena scesa dall’aereo, respirai a fondo. Mi sentivo molto meglio.
La tensione che mi aveva inchiodato sulla poltrona per tutta la durata del viaggio era svanita.
I vicini di posto mi avevano commiserato, scambiando la mascella rigida, la schiena dritta e le mani artigliate al bracciolo della poltrona per la classica posizione da Paura Di Volare.
Non avevo detto nulla per far capire l’errore. Ero rimasta in silenzio, limitandomi a sorridere debolmente per addolcire i miei no ad ogni offerta di conforto o aiuto.
Se il corpo era rimasto pressoché immobile, la mia mente aveva lavorato a dodicimila giri.
Non avevo fatto altro che rivivere, durante il volo, gli avvenimenti delle ultime due settimane.
Come un film visto e rivisto al videoregistratore, premendo i tasti del telecomando della memoria, FFW e REW, avanti e indietro.
Io felice che apro la porta di casa, con una busta della spesa tenuta come un neonato, per non rompere la bottiglia di passata di pomodoro. Il telefono squilla, parcheggio la spesa sul tavolo, tolgo al volo la bottiglia per evitare che cada. Rispondo impugnando la bottiglia con la mano destra e la cornetta con la sinistra. All’altro capo del filo, una calda voce maschile. Mi chiede se sono io la signora…, “Ho il piacere di annunciarle che ha vinto un soggiorno di una settimana a Capri, hotel cinque stelle, trattamenti di bellezza compresi”. Cado dalle nuvole, ulteriori domande di verifica dei dati, ho vinto davvero.
Chiudo il telefono ed esco di casa. Corro nello studio del mio fidanzato per dargli la notizia.
Entro a passo di carica, attraverso la sala d’aspetto. Dopo aver a malapena bussato e atteso un millesimo di secondo, apro la porta e resto bloccata sulla soglia.
Lui è lì, di fronte c’è la mia migliore amica, non stanno parlando del tempo. Lui è chino con le mani dentro la camicetta di seta avorio che ho regalato alla mia amica per Natale.
Non riesco ad aprire bocca, la bottiglia di passata che non avevo mai mollato mi scivola di mano. Prima di voltarmi ed andarmene, sempre senza parlare, noto la chiazza rossa che si ingrandisce sulla moquette beige, penso che forse resterà l’alone. No, sbaglio, è il sangue, rosso anche quello, che lascia l’alone. Non sento le voci che mi chiamano, torno a casa pensando alla smacchiatura della moquette.
Non rispondo alle telefonate, non apro la porta. Per una settimana continuo ad evitarli. Nel frattempo preparo la valigia per la vacanza premio a Capri.
Lontana da tutti, mi godo il lusso ed i trattamenti di bellezza. Un manager del nordest che sta curando lo stress dirigenziale, siede al tavolo di fronte al mio, mi corteggia con modi vecchio stile.
Mi sento una regina in visita. Ho digerito il tradimento. Sono pronta.
Ci ho pensato per tutto il volo. Dall’aeroporto vado direttamente nel suo studio, faccio solo una fermata, prima. So che non ci sarà nessuno, ho il tempo di farlo con calma. Rovescio le bottiglie di passata di pomodoro che ho appena comprato su ogni centimetro della moquette costosa. Sembra la scena di un crimine prima dell’arrivo del RIS, l’ ho visto in tv. Prima di andar via, decido di fare al mio fidanzato l’ultimo regalo. Rovescio quattro bottiglie di passata sulla lampada psichedelica che troneggia sulla sua scrivania. Quando l’architetto di grido che curò l’arredamento dello studio gliela suggerì, non sapeva ancora che l’avrebbe odiata. Con me si lamentava: “Non ero abituato alla sua intermittenza”.

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A te

Se tu non ci sei,
io vivo a metà.
Se tu sei con me,
io vivo due volte.

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Lezioni d’amore


Mi hai insegnato ad amarti
amandomi.
Mi hai ascoltato: mi amavi.
Mi parlavi: mi amavi.
Mi guardavi: mi amavi.
Mi hai fatto ridere: mi amavi.
Mi rimproveravi: mi amavi.
Adesso che ti amo anch’io, continuerai ad amarmi?

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Vento

(Ancora parole sul vento. O… al vento?)
Soffia di nuovo il maestrale
stanotte dormirò.
E sognerò di essere affacciata a questa loggia
di sentire il vento sul viso
come se fosse una tua carezza.
Il vento mi porta il ricordo di te
mi porta da te
mi porta con te.
Vorrei essere vento
per andare da te
per sfiorarti leggera
per sussurrarti che sono con te.
Io sono vento, e vengo da te.
Tu sei vento, e sei sempre con me.
Questo non è più un sogno

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Mitologia familiare – quinta parte

Tra i suoi trofei, l’iniziale del mio nome, sia pure stilizzata, in due grandezze diverse. Ciottoli piatti, a forma di cuore, quasi perfetto, o del seme di denari, come nelle carte francesi. Io, un po’ scherzando e un po’ no, gli chiedo quando troverà picche e fiori per fare il poker d’assi. Tanti sassi ovali, di svariate misure, e tante sfere, dalla più piccola alla più grande. Frammenti di roccia, in diverse tonalità di colore, come ad esempio l’ossidiana gialla e arancio. Ciottoli di fiume, levigati dall’acqua fino ad avere forme che ricordano qualche animale. Nessun sassolino è da sottovalutare, se ha qualcosa da dire, per mio padre vale la pena conservarlo. Evidentemente si tratta di una caratteristica ereditaria, se anche mia cugina è un’accanita collezionista di sassi. Il pezzo forte della sua collezione, è un sasso trovato sulla spiaggia del Poetto, che ricorda la sagoma di una Madonna con Bambino, sia pure stilizzata.
Quanto a me, riconosco di subire il fascino delle vecchie pietre, sia di quelle lasciate al naturale, sia di quelle lavorate dalla mano dell’uomo.
Mi accosto sempre col massimo rispetto ad un pozzo sacro, ad un nuraghe, od ad una vecchia lapide quasi illeggibile di un cimitero, in qualsiasi paese si trovi. Per ovvi motivi di provenienza familiare, mi sono più noti i paesi della Marmilla, che adoro visitare ancora oggi.
Il mio ultimo contatto con i sassi, però, è di pochi giorni fa. Il lunedì di pasquetta, sono andata al fiume con mio padre, e abbiamo raccolto qualche decina di ciottoli piatti. Ho deciso di utilizzarli per un motivo molto più profano della semplice collezione. Mi è capitato di leggere un articolo sulle rune celtiche, cioè i tarocchi dei popoli del nord, gli antichi druidi. Ho disegnato su ogni ciottolo il simbolo di una runa, per avere il gruppo di venticinque sassi, come fosse un mazzo di carte.
Sapere che persino gli antichi Romani temevano le rune divinatorie dei druidi del III sec. a.C., perché erano considerate troppo evolute, e che nonostante le persecuzioni, questi simboli misteriosi che svelano il destino siano giunti fino a noi, mi affascina come un mistero nuragico.
Non userò le mie rune per conoscere quanto mi riserva il futuro, ma essere riuscita a preparare questo strumento divinatorio, come lo avrebbe fatto una normanna o una vichinga, mi fa sentire parte di un unico mondo, antico quanto l’umanità, e sconosciuto ai più. Senza contare che il tentativo di avvicinare le culture più diverse, per scoprire le somiglianze e ridurre le differenze che allontanano, mi pare il modo migliore per affrontare le cose che non conosciamo.

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Maestrale

(Quella che segue vorrebbe esser chiamata poesia… ma non ci riesce sempre!)

Cielo grigio, arruffato di nuvole.
Lacrime scivolano come pioggia.
Improvviso, il maestrale scaccia le nuvole,
asciuga le mie lacrime.
Squilla il telefono: sei tu.
Il sole torna a splendere.
Il vento mi scompiglia i capelli,
ed io sorrido di nuovo.

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Mitologia familiare – quarta parte

Mi piace pensare che alla base di questa scelta, ci sia un qualcosa di sacro e antico quanto l’uomo, così da far destinare al sostentamento degli animali, sempre e soltanto la pietra, sinonimo di durata. Dato che, come noto, il sostentamento e la ricchezza della famiglia dipendevano dai suoi animali, quale modo migliore per garantire benessere duraturo al nucleo familiare, se non di vincolare alla pietra eterna la cura per l’alimentazione, senza dimenticare l’elemento principale, l’acqua, simbolo stesso di vita e di eternità.
Mi vengono in mente anche le vecchie mole. Ancora pietra, e se si aveva la mola, si aveva la farina, quindi il pane. Da qualsiasi parte consideriamo la faccenda, mi pare che la pietra sia indissolubilmente legata alla vita, alla sopravvivenza stessa della famiglia.
Per quanto riguarda una strana abitudine di mio nonno, non mi riesce di trovare alcuna spiegazione razionale. Quando nel dissodare un campo, s’imbatteva in qualche grosso sasso, e in quella zona capitava più spesso di quanto si sarebbe voluto, il nonno lo faceva rimuovere, come tutti.
Ma, invece di ammucchiare i massi negli angoli morti del campo, e destinarli alla costruzione di qualche fabbricato, il nonno prendeva in considerazione la forma. Se la forma si prestava, il sasso veniva trasportato nella corte dell’azienda agricola, e piantato come un menhir, sia pure in versione molto ridotta. Davanti alla casa si formò quindi una specie di Stonehenge, quasi un tempio pagano a misura di gnomi. Infatti, queste pietre erano molto più piccole delle varie pietre fitte sparse per la Sardegna, e non erano certamente incise o lavorate in nessun modo, ma l’effetto magico era abbastanza simile.
A me piace pensare che il nonno si sia imbattuto nei menhir che S. Gregorio Magno ordinò di far abbattere perché simboli pagani di fertilità. Naturalmente non è così, i massi “piantati” dal nonno non erano certamente gli dei pagani, ma sassi anonimi, senza alcuna storia alle spalle. Ma il pensiero che mio nonno abbia, anche inconsapevolmente, vendicato i nostri avi devoti al Sardus Pater, rimettendo in piedi gli idoli dell’antica Shardana, combattuti dal Cristianesimo, mi fa sorridere.
Mio padre, dal canto suo, subisce in un altro modo il fascino delle pietre.
Fin da piccola, mi ha portato in giro per la Sardegna a vedere le pietre fitte, quelle vere, simboleggianti la Gran Madre, con tante mammelle.
Però la sua attenzione maggiore l’ ha sempre destinata ai ciottoli, ai sassolini. Da vecchio cacciatore, ha mantenuto, anche ora, la sana abitudine di camminare per ore in campagna.
Non solo conosce ed apprezza i frutti che essa offre, come i funghi o gli asparagi, ma non trascura i sassi, specie quelli più curiosi. A patto che siano prodotto del capriccio della natura, e non opera dell’uomo. Se la forma del sassolino stimola la sua curiosità, lui lo raccoglie.

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Mitologia familiare – terza parte

Senza dimenticare che il vecchio pastore era diventato parte del nostro lessico familiare per un’altra ragione.
Quante volte ho udito mia zia usare questa espressione per definire il nero più nero: “Nero come il camino di tziu Antoni!”. Noi tutti in casa sappiamo cosa vuol dire, indica il nero più assoluto, anche se non abbiamo visto di persona quanto fosse affumicata la cappa del camino nello stazzo di tziu Antoni, e ancora mi chiedo come potesse essere scura, per impressionare mia zia a quel modo, a distanza di decine d’anni.
Grazie alle indicazioni del vecchio, arrivammo finalmente alla fonte. Dopo aver riempito un bidone d’acqua freddissima, mi sono ricordata che anche questa fonte rinomata, faceva parte del nostro lessico familiare.
Impossibile dimenticare, infatti, la famosa frase con cui uno zio di mia madre, quando veniva a trovare i miei nonni, rifiutava qualsiasi bevanda o rinfresco gli si potesse offrire: “No, grazie, prima di uscire ho bevuto un bel bicchiere d’acqua del monte Arci!”. Esisteva forse al mondo qualcosa di meglio di quell’acqua, perché rovinarsi la bocca con una bibita od un moscato qualsiasi?
Era così convinto delle virtù di quest’acqua, che nessuno ebbe mai il cuore di contraddirlo. A dire il vero, sospetto che il nonno, in fin dei conti, fosse dello stesso parere, anche se con me mostrava di dissentire, per solidarizzare con la nonna, la quale riteneva si trattasse di un’innocua stramberia del cugino.
Sarà o no suggestione, ma io ancora oggi, quando vado a trovare la zia, continuo a ritenere ottima l’acqua del monte Arci, tanto da preferirla ad ogni bibita.
Non sono sicura di sapermi spiegare il perché di una “passione” per le pietre, che si manifesta, sia pure in forme diverse, in entrambe le famiglie d’origine dei miei genitori.
Prendiamo per esempio, la pietra come materiale per la fabbricazione di abbeveratoi degli animali.
Non ho mai visto, e nemmeno sentito parlare, che si siano usati altri materiali. Nessun catino di zinco, alluminio, rame, latta in genere, neanche per le ciotole di cani, galline, maiali o cavalli. Che dipenda solo dal fatto che questi materiali arrugginiscano o possano danneggiare il bestiame, come potrebbe trattarsi nel caso del verderame, non sono in grado di affermarlo con certezza. In ogni caso, ho sempre e solo visto lacus e lacchiteddus in pietra.
Non credo sia perché è un materiale economico e facilmente reperibile. Questo potrebbe essere vero nel caso della famiglia di mia madre, perché nel suo paese d’origine la pietra abbonda, mentre nel paese di mio padre la pietra scarseggia, ed era considerato quindi un materiale da “ricchi”. Comunque sia, anche con la facile reperibilità, restava sempre il costo della lavorazione, e non credo sia mai stato ininfluente.

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