Viaggio nel dolore

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Questo è quasi un… diario di bordo che ho scritto dopo essere riemersa dalla lettura dell’ultimo libro di Francesco Abate. (“Chiedo scusa” di Francesco Abate e Saverio Mastrofranco, Einaudi Stile libero – big)

Chi già ha letto i libri di Francesco Abate riconoscerà lo stile, solo apparentemente light, scanzonato, ironico. Ma questa volta l’argomento è davvero tosto, di quelli che fan tremare i polsi. Sin quasi dalle prime righe ci si ritrova catapultati in un gorgo, che diventa ben presto un girone infernale, qualcuno potrebbe definire questo romanzo una discesa agli Inferi.

Un viaggio nel dolore, quello proprio e altrui, che si rifrange come in un gioco di specchi (quasi un giro in una Casa dell’orrore di un parco giochi stile Disneyland, di cui però non si riesce a vedere l’uscita), moltiplicandosi ad ogni riflesso, che aggiunge altre sfumature dolorose di cui non si vorrebbe mai conoscere l’esistenza.

Il protagonista, un cronista di nera, che ha sempre usato l’arma del sarcasmo per difendersi, facendo finta che una malattia non possa mai cercarlo, e sentendosi per questa condanna ad orologeria in perenne credito con la vita, quando la malattia bussa alla sua porta conosce il dolore più acuto che si possa solo vagamente immaginare. Il suo, prima di tutto, ma anche quello degli altri malati come lui e di tutti gli occasionali compagni di viaggio nel dolore chiamato vita.

Quello che colpisce, in questo romanzo, è l’affollamento di persone, vive e morte, intorno al protagonista. Che sembra molto solo, per scelta, essendosi volontariamente allontanato dal nutrito gruppo di famigliari, e non tanto propenso a legami troppo stretti con i colleghi della redazione.

Ma nel periodo di limbo, in cui non lavora e fa solo lunghi, estenuanti, frequenti controlli in ospedale, in attesa del trapianto che potrebbe salvargli la vita, siamo con lui e i suoi ricordi, i suoi parenti, soprattutto gli Assenti mai stati così presenti. Poi ci sono gli altri malati, nel suo stesso limbo di attesa, i medici, gli infermieri. Le analisi e gli esami, che sono diventati il metronomo della vita di Valter, quasi protagonisti a loro volta: da un valore fuori range dipende tutto, quindi dieta ancora più rigorosa e l’Amuchina a scandire le frazioni della giornata. Seguiamo Valter nei suoi giri, a volte da mosca rinchiusa dentro un bicchiere, mentre cammina nel suo appartamento. A volte per le strade della città, che rivediamo con lui: dalla Basilica con la scalinata che scende invece di salire, al cimitero, con le sue lapidi. Quelle opacizzate dal tempo, nel cimitero monumentale, e quelle moderne, con le foto a colori stile Voltotomo.

Ci riconosciamo nei suoi passi lungo i corridoi dell’ospedale, conosciamo gli ascensori che portano ai sottopiani, in radiodiagnostica, ma anche all’obitorio. Conosciamo quei pavimenti di linoleum blu, azzurro marezzato, quelle panchine a volte scrostate, quei corridoi lunghi con le frecce indicanti Endoscopia, o Cardiologia, ecc.

Abbiamo nel naso l’odore dei disinfettanti, del brodino nei carrelli del pranzo, dei malati coi pigiama a righe diventati troppo grandi, e quello, indescrivibile ma inconfondibile e indimenticabile, dell’obitorio, e nelle orecchie i colpi di tosse dei malati, i bip degli infusori che fan cadere goccia a goccia i liquidi che stilleranno nelle vene, il cigolio del trespolo che regge la fleboclisi, lo sguisshhh dei guanti monouso dei medici e degli infermieri che se li sfilano rapidi, il cic-ciac dei sacchetti del drenaggio, via, via che si riempiono di liquido striato più o meno di sangue.

E poi, la lenta rinascita, dopo il giro di boa in Terapia Intensiva.

Dove Valter diventa Chiedo scusa. È chiedendo scusa che impara ad accettare. Dopo impara a vivere. Ed insegna a rimanere a galla, nonostante tutto.

Alla fine ci svela il trucco: accettare l’inaccettabile, e incassare il credito con la vita, quale che sia.

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