Mary and Max “a Belleville”

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Il cinema di animazione ci ha spesso regalato dei veri e propri capolavori. Opere che raccolgono premi in tutti i festival (di settore e non), che vengono esaltati dalla critica, ma che quasi mai riescono a trovare una distribuzione ed uscire nelle sale. Men che meno in Italia. In Italia, se non sei Pixar o Disney (ora fuse in un’unica società), non esci nelle sale. Quando poi riesci a trovare spazio in prima fila, ti stampano poche copie le distribuiscono male, e il botteghino è impietoso. Ma ciò non toglie la qualità di queste pellicole e il rammarico cresce perché capita spesso che vengano ignorati film favolosi. È questo il caso di Mary and Max e Appuntamento a Belleville, due film che non hanno nulla in comune se non la straordinaria riuscita e il merito di aver fatto capire che l’animazione non è un mercato esclusivo per bambini o per tutta la famiglia. L’animazione è un linguaggio con un pubblico eterogeneo, esattamente come i film “dal vero”, e non bisogna trattarlo come un genere, ma bensì come una tecnica filmica, al cui interno possono sottostare molti generi, tra cui i drammatici indirizzati esclusivamente agli adulti.

Mary and Max è un film australiano del 2009 scritto e diretto da Adam Elliot. Da due anni gira tra i festival di tutto il mondo e fa incetta di premi. La speranza che possa essere distribuito in Italia c’è ancora, ma per il momento è stato visto in esclusiva allo Spazio Oberdan di Milano grazie alla Cineteca Italiana, che l’ha tenuto in cartellone per tre proiezioni. Ovviamente in versione originale, così abbiamo potuto gustare le voci di Philip Seymour Hoffman, Toni Collette ed Eric Bana. Il film racconta di Mary Daisy Dinkle, una ragazzina australiana di 8 anni, che vive nei sobborghi di Melbourne con la madre alcolizzata e senza amici, e del suo pen friend (scelto a caso dall’elenco telefonico) Max Jerry Horowitz. Max abita a New York, è sovrappeso e affetto dalla sindrome di Asperger. Le lettere di Mary sconvolgeranno la vita di Max che comincerà a farsi delle domande e a cercare le risposte sulla vita di tutti i giorni, ma non senza problemi, e Mary comincerà a studiarne la malattia insieme a tutte le altre malattie mentali. Ispirato ad una storia vera e dal pen-friend dello stesso regista, la qualità narrativa di Mary and Max è stupefacente. Sia Mary che Max sono due persone a loro modo particolari e il film ci racconta dei loro problemi con la crudezza necessaria, unita ad una delicatezza che raramente si è vista da altre parti. L’umorismo del film si mischia con temi difficili quali la negligenza verso i minori, il bullismo, la solitudine, l’autismo, la depressione e l’ansia. Mix che si rispecchia anche nell’aspetto visivo dove la tecnica di animazione utilizzata (pupazzi di plastilina), con il suo tono leggero da cartone animato, è fotografata con un tristissimo bianco e nero nelle scene Newyorkesi, e con toni seppia per il mondo colorato, ma triste, di Mary. Sono due solitudini che si incontrano e per un po’, seppur distanti, creano un legame molto profondo. E lo spettatore sorride amaramente di fronte ad un film vero, che ci scalda il cuore e ci può insegnare molto. Una nota di merito va anche alla colonna sonora ed in particolare a Perpetuum Mobile della Penguin Cafè Orchestra, utilizzata sui titoli di testa e ripresa varie volte durante il film, che coi suoi archi e il pianoforte aumenta ancora di più la dolcezza del film. Una perla da gustare in dvd nella speranza (flebile e remota) di vederlo in sala.

Appuntamento a Belleville è invece un film franco-canadese del 2003 scritto e diretto da Sylvain Chomet, che grazie all’Oscar vinto nel 2004, ha trovato distribuzione (Mikado) anche in Italia, ma purtroppo è rimasto comunque nell’ombra. Il film racconta della vita di Champion, un ragazzino triste e solo, la cui unica gioia è il triciclo regalatogli dalla nonna Madame Souza e la conseguente passione per il ciclismo. Durante un Tour de France, dove Champion partecipa come concorrente, viene rapito insieme ad altri 3 ciclisti e portato oltreoceano a Belleville, una città immaginaria che ricorda Parigi, Montreal e New York e gli abitanti sono delle macchiette dell’uomo americano anni ’50. La nonna è fortemente intenzionata a ritrovare il nipote e per lui muoverà mari e monti, e grazie all’aiuto delle Triplettes, tre vecchie donne di spettacolo, riuscirà nella sua impresa. Il film è un vero e proprio gioello. Chomet viene dal fumetto e lo dimostra l’incredibile cura dei disegni per tutta la durata del film, con i colori che sembrano allo stesso tempo ridotti al bianco e nero, e pieni di tutte le possibilità della tavolozza, e con il tratto che ruba molto alla caricatura. I personaggi sono favolosi, con le Triplettes che pescano con le bombe a mano o la vecchia Souza che si scopre rumorista. O il cane Bruno, coi suoi meravigliosi sogni/incubi in bianco e nero. Stilisticamente è perfetto. La bellezza e la qualità del disegno ci lasciano stupefatti. Ha impressionato e riscosso successo per il suo stile “vecchio stampo”, e dal punto di vista narrativo non è da meno. Tutto il film è una grande pantomima e il debito nei confronti di Tati è evidente. Tanto evidente che Chomet gli concede un omaggio: alla televisione, le Triplettes guardano proprio il suo Giorno di festa. Le citazioni, ironiche e caricaturali, la fanno da padrone: le auto sono tutte ispirate alla Citroen, Champion è chiaramente una caricatura di Fausto Coppi, la colonna sonora è ispirata agli anni ’20 e include personaggi che ricordano Django Reinhart e Fred Astaire. Tutta la sequenza iniziale è poi un enorme omaggio a Disney, con i personaggi che indossano i tipici guanti bianchi a quattro dita, ma soprattutto con le scarpe che, animatesi, divorano Fred Astaire. Un film imperdibile, soprattutto per i cinefili, che tiene incollati allo schermo per 80 minuti anche se i dialoghi sono inesistenti. D’altronde non ce n’è bisogno.

Michele Comba

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