Un grande ringraziamento allo scrittore Enrico Luceri per avermi permesso di pubblicare il suo intervento al Festival del giallo Pistoia 2014
IL SENTIMENTO PIÙ PERICOLOSO
L’AMORE COME MOVENTE IN AGATHA CHRISTIE E EARL DERR BIGGERS
CLUB AMICI DEL GIALLO
PISTOIA, 1 FEBBRAIO 2014
di
Enrico Luceri
“Fece una pausa, tirò un sospiro e riprese: -Comunque è morta.
-Di cosa?
-Amore – disse.
-Amore? – ripeté miss Marple.
-Uno dei sentimenti più pericolosi che esistano – disse Elizabeth Temple.”
(Miss Marple: Nemesi)
L’amore è uno dei moventi più validi nel giallo. Valido e convincente, perché ognuno di noi almeno una volta ha immaginato di strappare l’uomo o la donna della propria vita dalle braccia di chi ce li aveva rubati. Cioè di eliminare chi rappresentava un ostacolo alla realizzazione di un sogno. Rubati: un furto, e quindi una colpa da espiare con una sola pena, quella di morte. È dalla notte dei tempi che Eros e Thanatos camminano a braccetto.
Agatha Christie, la più abile manipolatrice di enigmi della storia del giallo non ha esitato a usare questo ingrediente per dare sapore alle proprie pietanze, ma lo ha fatto con misura, calibrandone la quantità con precisione, consapevole della difficoltà di maneggiare una pulsione antica come il mondo. Già, ma cosa s’intende per movente sentimentale: sesso, gelosia, passione, espediente, sacrificio? L’elenco è lungo, e la regina del giallo lo ha declinato nella maggior parte degli aspetti.
Così in un romanzo della tarda maturità (Endless night, Nella mia fine è il mio principio) l’idillio fra un modesto autista e una ricca ereditiera supera ogni ostacolo come nelle favole (non a caso l’archetipo è Cenerentola), ma si rivela il crudele piano di una coppia di amanti diabolici per d’impadronirsi di un consistente patrimonio.
La testimonianza di una donna fedifraga e ingrata sembra più efficace della requisitoria di un pubblico ministero per smontare l’alibi del marito, un presunto assassino, ma quella gelida sicurezza nasconde la volontà di difendere a oltranza l’unico, vero amore, in un labirinto di specchi che inganna l’occhio di lettori e spettatori e confonde i ruoli (The Witness for prosecution, Testimone d’accusa).
Quando un arido marito di mezza età perde la testa per una giovane bionda mozzafiato può accadere di tutto, anche che egli pianifichi l’uxoricidio per mezzo di una catena di velenose lettere anonime che giustifichino l’opportuno suicidio della moglie, destinataria di una missiva(The moving finger, Il terrore viene per posta).
Conseguenze fatali anche da una seduzione tardiva che per una coincidenza si rivela null’altro che un escamotage per costruire un alibi perfetto: fatali per tutti, vittima e assassino, complice e perfino testimone inconsapevole (Ordeal by innocence, Le due verità).
In senso lato, l’uxoricidio come mezzo per disfarsi di una moglie ingombrante e vivere con una donna giovane e bella, è il movente che parecchi anni dopo provoca la condanna a morte di un innocente sventata in extremis da Poirot (Mrs. McGinty’s dead, Fermate il boia).
Un insopprimibile istinto materno risvegliato da una lunga narcosi esplode violento quando una ragazza cerca di evadere da un ambiente soffocante, cedendo all’amore per un suo coetaneo (Nemesis, Miss Marple: nemesi).
Potremmo continuare a lungo, ma oggi vogliamo esplorare il punto di vista della Christie su un altro aspetto tutt’altro che secondario: l’adulterio. L’amore tradito, con tutto il corollario di tresca più o meno clandestina, gelosia e relativa vendetta.
Il triangolo di tante commedie, brillanti o drammatiche, nelle sue storie è molto spesso lui-lei-l’altra, una figura geometrica che contiene in sé un difetto strutturale di fondo, la presuntuosa certezza di garantirne la stabilità anche dopo l’eliminazione, brutale, di un lato. Presuntuosa perché la stessa collassa inesorabilmente per l’intervento del detective di turno. Un groviglio di relazioni, un impasto di passioni, una miscela di speranza e delusione, un vento improvviso e impetuoso che spazza tutto ciò che incontra sul suo cammino. Ma qui parliamo di romanzi gialli, e quindi fuor di metafora quel vento è l’omicidio.
Il classico triangolo ha considerevoli margini di ambiguità. Che l’uomo finga solamente (per qualche motivo legato alla dinamica del giallo) di assecondare la passione di un’amante più giovane, più bella o più ricca della moglie o fidanzata, o ceda alla tentazione, finisce comunque per scatenare una serie di circostanze che conducono al delitto, ma sempre in posizione subalterna, irretito e affascinato da colei che ha deciso di conquistarlo incurante delle conseguenze.
Un uomo oggetto del desiderio, conteso da due donne: si tratta di una situazione frequente, in fondo, nella società attuale come in quella conservatrice dell’epoca della scrittrice, nulla di strano o sconveniente se ella la piega alle sue esigenze di giallista. Ovvero con la consueta e riconosciuta abilità e un certo distacco professionale. Proprio così?
Si è creduto di riconoscere in alcuni personaggi certe caratteristiche della Christie: per esempio, un suo divertente e divertito alter ego letterario, quella Ariadne Oliver, che deve la sua fortuna di autrice di mystery a un ascetico investigatore finlandese che peraltro detesta. O l’infermiera (Amy Leatheran), testimone oculare e io narrante di un romanzo (Murder in Mesopotamia (Non c’è più scampo, dove il triangolo è lui-ancora lui-lei, sorprendentemente), che probabilmente deve alcune delle sue innegabili competenze professionali all’esperienza vissuta dalla Christie in un dispensario d’ospedale durante la Grande Guerra. L’elenco potrebbe continuare, ma sono sempre aspetti esteriori, vezzi, esperienze pubblicamente note, che ben poco rivelano delle reali pulsioni di questa scrittrice la cui popolarità è direttamente proporzionale a una tenace riservatezza.
La discrezione, il rispetto della privacy, la diffidenza per le interviste e i giornalisti, la timidezza di questa donna nata nell’epoca vittoriana sono proverbiali, ma si tratta davvero ed esclusivamente del condizionamento di un’adolescenza trascorsa in un ambiente sociale conservatore, o c’è dell’altro? Per esempio, qualcosa di misterioso, un segreto intimo e sconvolgente custodito per oltre cinquant’anni? Certo è solo una congettura, ma forse in questo enigma inconfessabile si nasconde la radice di alcuni moventi d’amore nei gialli di Agatha Christie.
Ai primi di dicembre del 1926 la scrittrice, all’epoca trentaseienne, ha appena raggiunto la fama con un romanzo considerato uno dei suoi capolavori (The murder of Roger Ackroyd, L’assassinio di Roger Ackroyd), è madre felice di Rosalind, e moglie del colonnello Archie Christie, un valoroso pilota della Grande Guerra che non ha ancora trovato un’occupazione gratificante nel difficile periodo post-bellico.
Il 3 dicembre 1926 Agatha Christie scompare all’improvviso dalla sua tenuta nella contea meridionale del Surrey, che lei stessa ha ribattezzato Styles (come la località in cui è ambientato il suo primo romanzo, in cui esordisce Hercule Poirot). Nottetempo si aggira senza meta per la campagna buia a bordo della sua auto, infine l’accosta al ciglio della strada e svanisce, letteralmente. Nel tardo pomeriggio del giorno seguente un’altra donna giunge alla stazione termale di Harrogate, nello Yorkshire, nel nord est dell’Inghilterra. Lì prende alloggio in albergo, registrandosi come Teresa Neele, proveniente dalla sudafricana Città del Capo.
Intanto nel Surrey la polizia conduce ricerche febbrili ma confuse. Giornali, riviste e tabloid alimentano la curiosità morbosa dell’opinione pubblica sguinzagliando giornalisti, reporter e fotografi, alla ricerca di immagini e notizie, non sempre attendibili, da pubblicare prima dei rivali.
Pare che solo due persone assistano impassibili alla spasmodica caccia che appassiona il Regno Unito: la signora Neele, a Harrogate, e il marito della Christie, Archie, che nega dissapori con Agatha e confida in un suo prossimo ritorno. La stampa si affretta subito dopo a precisare che fra i domestici di Styles si mormora il contrario. Così la polizia comincia a sospettare che egli sia coinvolto nella vicenda, soprattutto quando si scopre che coltiva quella che un tempo si chiamava con pudore e ipocrisia un’affettuosa amicizia con la sua segretaria, che si chiama Nancy… Neele.
Gli investigatori del Surrey ricevono una segnalazione che fra le tante sembra attendibile e partono per il nord.
Martedì 14 dicembre 1926: Teresa Neele sembra indifferente alla concitazione nella hall. Scende nel salotto e incrocia senza batter ciglio lo sguardo di un uomo, il colonnello Archie Christie. Questi fissa mrs. Teresa Neele, poi la riconosce senza esitazione: è sua moglie, è Agatha, la scrittrice di mystery più famosa d’Inghilterra. La ricerca è finita: la donna scomparsa nel Surrey è ricomparsa nello Yorkshire. Ma l’enigma non è risolto.
Spiegazione ufficiale e immediata: ha sofferto di una perdita di memoria, provocata dal trauma dell’incidente automobilistico. Caso chiuso. La presunta smemorata di Harrogate e il marito cenano assieme, al ristorante dell’albergo, poi salgono a dormire. In camere separate. Qualche mese dopo avvieranno le pratiche di divorzio. Qui finisce la cronaca degli 11 giorni della sparizione di Agatha Christie e comincia il vero mistero. Che cosa è accaduto davvero alla donna di Styles?
Non si saprà mai, lei stessa accenna evasivamente alla fine del suo primo matrimonio nella pur monumentale autobiografia e glissa sulla scomparsa, rimarcando solo che l’avversione per l’invadenza della stampa e dell’opinione pubblica nacque in quel periodo.
Da allora si sono accavallate le ipotesi più stravaganti e fantasiose, confermate e smentite puntualmente dal comportamento contraddittorio della Christie. Che si può spiegare solo così: a scappare, a fuggire nascosta dietro il cognome dell’amante che le stava rubando il marito, non era la più grande autrice della storia del giallo ma solo una donna innamorata che cercava di riconquistare il suo uomo, stimolandone senza successo i sensi di colpa, per ridurre una passione travolgente a infatuazione passeggera.
Una sofferenza, uno strappo, “una cruda afflizione bravamente sopportata” (A murder is announced, Un delitto avrà luogo), una mutilazione affettiva, un trauma subìto (certificato anche dalla compiacente diagnosi dei medici, come una provvidenziale amnesia da stress), forse non razionalizzato del tutto, un’ossessione addormentata ma non rimossa (come quello sleeping murder su cui indagherà miss Marple nel suo commiato dai lettori), confinata in un posto freddo in fondo al cuore, così buio e profondo che fa paura solo immaginarlo.
In Death on the Nile (Poirot sul Nilo), la ricca e bella ereditiera Linnet Ridgeway, che ha soffiato il fidanzato all’(ex)amica Jacqueline de Bellefort, si giustifica così:
“-Capisco perfettamente dove vuole arrivare, signor Poirot- disse Linnet con gli occhi scintillanti di collera. –Per dirla in parole povere, lei pensa che io ho rubato il fidanzato alla mia amica. Considerando le cose dal punto di vista sentimentale… l’unico dal quale possano vederle quelli della sua generazione… può anche esser vero. Non nego che Jaqueline amasse appassionatamente Simon… ma per lui la cosa era diversa. Credo che anche prima di conoscere me, avesse cominciato a capire di essersi sbagliato… Consideri le cose logicamente, signor Poirot! Simon si è accorto di amare me, e non Jaqueline: che doveva fare? Mantenere eroicamente il suo impegno morale, e fare infelici tre persone? Perché non credo che sposando Jaqueline controvoglia, l’avrebbe resa felice. Molto meglio riconoscere schiettamente l’errore, prima che fosse troppo tardi. Ammetto che per Jaqueline sia stato un gran colpo, e mi dispiace. Ma era inevitabile.”
In Sad Cypress (La parola alla difesa), la giovane Elinor Carlisle vede le nozze con l’amato Roderick andare in fumo per l’apparizione di una ragazza bionda, Mary, che fa perdere la testa al promesso sposo. Quali pensieri possono passare per il capo di una donna umiliata e abbandonata?
“Cosa ne sapeva Roddy di Mary Gerrard? Niente… meno di niente! Era veramente innamorato di lei… della vera Mary? Non si poteva affatto escludere che lei possedesse vere e ammirevoli doti ma… cosa ne sapeva, tutto sommato, Roddy? Sempre la solita vecchia storia… l’eterno vecchio scherzo della Natura!
Non era stato lo stesso Roddy a dichiarare che si trattava di un “incantesimo”?
Non era stato lo stesso Roddy a dire… ma sul serio… che il suo desiderio era di liberarsene? Se Mary Gerrard… sì, se per esempio, Mary Gerrard fosse morta, Roddy non avrebbe ammesso un giorno: “È stato meglio così. Adesso lo capisco. Non avevamo niente in comune…”
E forse avrebbe aggiunto con voce dolce e malinconica: “Era una creatura incantevole”.
Che continuasse a essere così per lui… sì… un ricordo stupendo… una creatura bella e gioiosa, che doveva rimanere tale per sempre.
Se fosse capitato qualcosa a Mary Gerrard, Roddy sarebbe tornato da lei… Elinor. Di questo era assolutamente sicura!
Se fosse capitato qualcosa a Mary Gerrard…”
Qui però l’amore è un falso movente, che abbaglia il lettore e confonde la prospettiva, come in Evil under the sun (Corpi al sole), un comodo paravento per celare l’interesse più concreto.
Questo brano del dialogo fra Poirot e la non più giovane ma sempre affascinante Elsie Greer, tratto da Five Little Pigs (Il ritratto di Elsa Greer) la dice lunga sul punto di vista della scrittrice a proposito della spregiudicatezza di un’amante:
“-Voi non capite e non compatite la gelosia?
– No, non credo. Se una cosa è perduta, è perduta. Se non si riesce a tenere il proprio marito, si deve lasciarlo andare. Non capisco questo istinto di proprietà esclusiva.
– L’avreste potuto capire se lo aveste sposato.
-Non credo. Noi non eravamo… Vorrei che voi foste convinto di una cosa: non dovete pensare che Amyas Crale abbia sedotto un’innocente fanciulla. No, niente di tutto questo. Dei due, io ero la responsabile. Lo incontrai a una riunione, e subito fui attratta da lui… e seppi che lo avrei avuto…”
Secondo la logica di Poirot, questi tre indizi dovrebbero provare che la Christie aveva razionalizzato a fatica il proprio divorzio, e consciamente o meno proiettava nelle trame elaborate il suo punto di vista sulle persone coinvolte: una moglie ingannata (e forse con qualche responsabilità nella propria algida distrazione), un marito indebolito da una certa insoddisfazione coniugale o professionale che si lascia sopraffare dalla passione, un’amante spregiudicata e determinata a conquistare chi appartiene a un’altra.
Proviamo a precisare i ruoli dei personaggi: una moglie di successo, tanto da risultare ingombrante per un valoroso reduce che nel dopoguerra accumula frustrazioni, una giovane innamorata di quest’ultimo, di una personalità che è lecito immaginare assai meno spiccata della rivale, e quindi meno impegnativa.
Enfin, mes amis, non siete d’accordo? Come in Murder on the Orient-Express (Assassinio sull’Orient-Express) l’enigma può avere due spiegazioni, ambedue attendibili. E in questi casi si sceglie sempre quella più comoda.
Che tutte queste siano solo congetture, nulla impedisce di trarre una morale dalle opere citate: abbandonare la legittima consorte per un’altra donna è una scelta quantomeno sconsiderata. Come nulla impedisce di sospettare che la radice di una “cruda afflizione bravamente sopportata” affondi nel buio di quegli undici giorni lontana da casa nel freddo inverno del 1926.
1926: il romanzo The chinese parrott (Il pappagallo cinese) consacra la fama di un altro detective letterario che ha esordito l’anno precedente, importante come Poirot e miss Marple, anzi per certi versi fondamentale, come tutti coloro che nella propria vita, reale o letteraria, dividono la storia in un prima e un dopo.
Fino a quel momento infatti ogni personaggio orientale, meglio ancora se cinese, come il diabolico Fu Manchu creato da Sax Rohmer, era sinonimo di inganno, perfidia e sottile crudeltà. Fin quando lo scrittore americano Earl Derr Biggers decise di ribaltare i canoni consolidati, e non di rado venati da un latente razzismo, creando un cinese, anche se naturalizzato statunitense, al servizio della legge e dell’ordine: Charlie Chan.
Nato in Cina, Charlie si trasferisce adolescente a Honolulu, nelle Hawaii, dove entrerà nella polizia locale per diventare ben presto sergente investigativo. In seguito, sbrogliando i complicati casi scritti dal suo creatore, Chan farà carriera fino a diventare ispettore. E qui la sua parabola si ferma, perché dopo sei romanzi, pubblicati fra il 1925 e il 1932, al ritmo di quasi uno l’anno, Earl Derr Biggers scompare prematuramente per una crisi cardiaca.
O per meglio dire, la carriera di Charlie Chan prosegue diversamente, perché il cinema continuerà a sfornare per anni nuove avventure dell’investigatore venuto dalle isole più esotiche dell’immaginario collettivo, anche se i soggetti apocrifi si scostavano sempre più da quelli originali dell’autore.
Nel primo dei quali, The house without a key (La casa senza chiave), Charlie scopre l’assassino di un facoltoso imprenditore di Honolulu, cinica “pecora nera” di un’eminente famiglia bostoniana.
In seguito, l’investigatore si trasferisce per un breve periodo sulla costa occidentale degli Stati Uniti, per risolvere i misteri creati da Biggers con abilità degna del miglior giallo classico: il già citato The chinese parrott, dove Charlie indaga in un ranch nel deserto della California sotto le mentite spoglie di un cuoco.
Poi Behind that curtain (La donna inesistente, conosciuto anche con il titolo Sangue sul grattacielo), in cui Chan collega da par suo l’omicidio di un alto funzionario di Scotland Yard in pensione, avvenuto in un attico di San Francisco, con l’assassinio di un avvocato londinese e la scomparsa di una giovane sposa inglese nell’aspro territorio di confine fra Pakistan e Afghanistan, allora colonia britannica, lontani nel tempo e nello spazio.
Tornato finalmente nella sua Honolulu, Charlie Chan dovrà affrontare in Black camel (Il cammello nero) una delle sue inchieste più difficili, e di conseguenza più appassionanti per noi lettori, che esamineremo in dettaglio perché esemplare per l’argomento che trattiamo oggi.
Nel romanzo seguente, Charlie Chan carries on (Una tragica promessa), Charlie collabora con un’istituzione prestigiosa come Scotland Yard per smascherare un intraprendente omicida che ha preso di mira un gruppo di turisti impegnato nientemeno che in un… giro del mondo!
Nella sua ultima avventura, Keeper of the keys (Il canto del cigno, pubblicato anche come Il custode delle chiavi), Chan torna sul continente e si trova alle prese con l’omicidio di una famosa cantante lirica, avvenuto in uno chalet, nell’ incantevole cornice di una località montana del Nevada.
Nelle opere di Earl Derr Biggers, modernissime come impianto, introspezione psicologica dei personaggi e descrizione degli ambienti, il protagonista deve affrontare spesso il pregiudizio, se non l’antipatia, di chi, anche nella polizia, diffida dell’uomo di colore. Un rapporto che presenta una singolare e significativa simmetria con quello del tenente Colombo con i suoi indagati: tutti commettono l’errore di sottovalutare l’investigatore, ingannati dal proprio orgoglio e dall’altrui aspetto dimesso, o per meglio dire modesto ma non per questo sottomesso.
Earl Derr Biggers è autore dai canoni consolidati e mai convenzionali, declinati con stile e misura. Ogni suo giallo è un piccolo capolavoro del mystery classico, un whodunit squisito e inesorabile, l’ennesima dimostrazione di come ogni indizio, ogni dettaglio e ogni prova che l’investigatore scopre sia alla portata del lettore, che però in genere non ha la finezza e l’intuito del detective venuto da una terra lontana impregnata di grande saggezza per sbrogliare i delitti dei “diavoli bianchi”.
Autore ironico e distaccato, prolifico e intelligente, Earl Derr Biggers non è immune da un sobrio e misurato romanticismo, visto che a ogni inchiesta scorre parallela una storia d’amore fra due personaggi, non di rado un giovane più bello che intelligente, e comunque spavaldo e di buoni sentimenti (un po’ come l’America vista dagli stessi americani?) e una donna emancipata e di forte personalità. Un abbinamento inedito per l’epoca, e anche in questo lo scrittore si dimostra in anticipo sui tempi rispetto a molti suoi colleghi.
Esemplare è soprattutto l’irresistibile trasformazione dell’azzimato John Quincy Winterslip, uno dei miglior prodotti della buona società bostoniana, che nel romanzo La casa senza chiave, contagiato dall’atmosfera languida e romantica di Honolulu s’innamora di una bellezza tropicale, cui strappa la promessa di matrimonio fra le onde che s’infrangono sulla spiaggia di Waikiki.
Le stesse onde che anni dopo fissa turbata Shelah Fane, attrice di rara bellezza in crisi personale e artistica, e catalizzatrice di passioni infauste, quando sbarca a Honolulu, dove verrà allestito il set del film che dovrebbe restituirle la fama. Ma il copione studiato dal destino (e da Biggers nel romanzo Charlie Chan e il cammello nero) è diverso: sullo sfondo di spiagge dalla sabbia chiarissima e di un oceano sconfinato, dove soffiano gli alisei e sui piroscafi i turisti attendono di sbarcare fra aloha e ghirlande di fiori, si muove un assassino rapido e intelligente, un avversario temibilissimo per l’imperturbabile detective dagli occhi a mandorla e il linguaggio forbito e dignitoso al tempo stesso.
Un indagine difficile, perché il movente dell’omicidio sembra affondare le proprie radici in un altro delitto, quello commesso anni prima a Los Angeles, quando il famoso attore Denny Mayo era stato trovato morto nella propria abitazione.
Un vecchio adagio, citato da Chan, sostiene che “La morte è un cammello nero che si inginocchia, non invitato, davanti a ogni porta” e mai come in questa inchiesta serviranno pazienza orientale, acume e un’intelligenza raffinata, al servizio di una logica pacata che non esclude fulminanti intuizioni, per raccogliere quegli indizi apparentemente insignificanti capaci di inchiodare l’assassino.
Una storia esemplare, dove l’amore che diventa il motore della vicenda spinge al centro del palcoscenico solo personaggi femminili, relegando accanto al sipario figure maschile incapaci di frenarne le pulsioni più elementari. Come Alan Jaynes, il milionario che reclama inutilmente la mano di Shelah Fane, il cui primo marito Bob Fyfe ne è ancora così perdutamente innamorato da mentire per difenderne la memoria, o l’indovino Tarneverro (ispirato a figure molto popolari nell’ambiente hollywoodiano dell’epoca) che gioca una partita difficile, in precario e rischioso equilibrio fra le imprevedibili reazioni di due donne innamorate dello stesso uomo.
Qui dunque il triangolo è ancora lei-lui-l’altra e lui, l’attore Denny Mayo, diventa irraggiungibile oggetto del desiderio per ambedue, perché nel frattempo freddato nella sua abitazione all’apice del successo nella Mecca del cinema, sorta di successore nel mito infranto (da poco) di Rudy Valentino e predecessore di James Dean. Solo che qui siamo in un romanzo giallo e non si muore per una peritonite mal diagnosticata o per un incidente stradale ma per un colpo di pistola. Anche il movente dell’assassinio di Denny Mayo è l’amore, inevitabilmente, quello più profondo e consapevole, che lo spinge a scegliere la strada più difficile, che come spesso accade è anche quella più giusta, finendo per rimetterci la vita.
La versione cinematografica fu realizzata nello stesso anno di pubblicazione del romanzo, il 1931. In questa e in parecchie altre pellicole il detective di Honolulu è interpretato da Warner Oland, attore di origine svedese naturalizzato americano, che tuttavia aveva decisamente il physique-du-rôle del pacioso e corpulento Charlie (e indossò anche la tunica di Fu Manchu, quasi a raccogliere in sé i due aspetti opposti della raffinatezza orientale). Ma il personaggio che emerge prepotente dalle pagine del libro per rubare la scena al protagonista sullo schermo è l’indovino Tarneverro, magistralmente impersonato dal grande attore Bela Lugosi.
Sebbene le opere di Biggers siano state pubblicate più volte in Italia, l’immagine letteraria di Charlie Chan ha finito per confondersi con quella sovente macchiettistica del suo alter ego cinematografico. Un destino inevitabile, se oggi la memoria è affidata alla consistenza virtuale (e già questa è una contraddizione) di uno strumento controverso come Internet.
Così il profilo del detective di Honolulu sembra apparire su una fotografia d’altri tempi, in bianco e nero, magari con i bordi dentellati, sbiadita e confusa dal trascorrere dei decenni. Oppure in una dissolvenza, quell’effetto delle pellicole d’epoca, dove l’immagine sfuma sempre più fino a scomparire, spesso accompagnata da un commento musicale malinconico e struggente.
In fondo non ci sarebbe da stupirsi se fosse questo il destino del pingue poliziotto venuto da una terra dalla saggezza millenaria. Chi indaga seguendo i precetti della filosofia orientale, trova la radice della felicità in un numeroso focolare domestico, in una scodella di riso e un cuscino su cui posare il capo, e quella dell’infelicità nell’ansia che divora l’anima dell’uomo bianco, appare superato a un pubblico ormai assuefatto a personaggi del tutto diversi. Egoisti, spavaldi, violenti, presuntuosi e sbrigativi, oppure introversi, perennemente insoddisfatti, tormentati da un subdolo malessere esistenziale che impedisce le gioie più semplici.
Sì, forse è inevitabile che Charlie Chan, serafico, paziente, cortese e infallibile investigatore appaia così distante da appartenere a un’epoca irripetibile del mystery in cui la leggenda finisce per sconfinare nel mito. Ma sarebbe un oblio ingiusto, che gli verrà risparmiato finché esisterà una platea di lettori affezionati allo stile demodé di chi risolve un enigma seduto in poltrona, immerso nelle proprie riflessioni, raccogliendo e disponendo con pazienza indizi, frammenti di frasi, gesti accennati e sguardi fugaci per comporre un mosaico cinese. E svela all’ultimo capitolo perché il cammello nero si sia inginocchiato proprio sulla soglia della stanza della grande attrice Shelah Fane.
Possiamo concludere questa indagine sul movente sentimentale in Agatha Christie e Earl Derr Biggers con la consapevolezza forse futile ma certo rassicurante che le celluline grigie di Poirot, la conoscenza della natura umana di miss Marple e la saggezza orientale di Charlie Chan sarebbero giunti alla medesima conclusione: cioè che si ama, e a volte non si può fare a meno di amare, anche coloro che ci fanno soffrire, proprio quelli per cui saremmo disposti a tutto, anche a sognare di eliminare un rivale.
Sognare, appunto: senza arrivare al delitto vero però, come in quei romanzi di Agatha Christie e Earl Derr Biggers, che appartengono all’epoca d’oro del giallo, quella che per chi vi ha appena parlato ne rappresenta tuttora il periodo migliore.