Wikileaks: una serata al Giambellino e i piaceri della carne

Il titolo non ha nessuna attinenza con ciò che è stato scritto. Seppure, quelle che seguiranno, risulteranno dichiarazioni intime e (a tratti) sconvenienti. L’intenzione era quella di lasciarmi avvolgere dalla scioglievolezza della neve. Appurato che il vocabolo scioglievolezza non lo troverete neppure nell’edizione più aggiornata della Treccani, aiuta a rendere l’idea di quello che avevo preventivato come lo svolgimento della serata di ieri.

Lo ammetto. Per la prima volta ho indossato un paio di cuissard, obtorto collo. Non per altro ma perchè i gufi delle previsioni allertavano un’ipotesi di neve. Tuttavia sarebbe stata una deprecabile contraddizione  che un’icona fetish come la sottoscritta si mostrasse con l’inquietante plantarino ortopedico delle Hogan. Così, più divisa che a un bivio, ho sfidato le precipitazioni. Durante la presentazione, mentre il mio interlocutore mi sottoponeva a tranelli chiedendomi le identità reali dei letterati tromboni nascosti nel romanzo, simulando la visione angolare del geco, roteavo l’occhio sinistro verso la finestra. Stato meteo stazionario. Sottile e insidiosa pioggerellina che non da adito a peggioramenti.

A torto credevo che la serata volgesse al termine, quando il gatto e la volpe, alias i due paladini che mi avevano introdotta, mi conducono in un locale memorabile: il Giambellino. Nomen omen. Un’amica, poco prima, avendo toccato con mano l’esperienza di una cena picaresca, mi aveva caldamente consigliato di darmi alla macchia, ma la mia componente triviale e crapulona ha avuto la meglio. Così, a braccetto dei due eroi e in bilico nella guaina di pelle come il peggiore dei cotechini, mi sono trascinata fino al locale pluristellato. A fare gli onori di casa sulla porta un centurione di cera, rubato dal magazzino del Madame Tussead.

Vorrei stringergli la mano ma l’effetto della bruma serale lo fa apparire così umettato che ho l’impressione che l’armatura traspiri. Lo stick che usa deve essere a lunga tenuta perchè il nostro, nonostante i calzari a vista, non emana inquietanti fetori. In compenso, l’odore mi travolge appena entrata. Fritto, misto a stantio.

“E’ il luogo per me”, canticchia scimmiottando nei gesti la tigre di Cremona uno dei miei compagni. Già, il luogo. Al posto del triclinio, tristi panchette. Abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno, penso e mentre rimugino i due cavalieri hanno già ordinato per me. Un frankenstein di carne annegato nelle patatine, è il nostro piatto. E le posate? Qui si mangia con le mani. I due ormai sono una cosa sola con la grigliata. Riconosco la coscia di un pollo di batteria e una salsiccia di un porco bustocco. Uno sguardo al mio noir di Chanel fresco di stesura e mi catapulto tra maionese e patatine. Da cortigiana del web a camallo di porto.

Credo di avere fatto colpo. L’uomo con l’occhio di vetro non smette di squadrarmi.

Quant’è?

Per voi sono 36 euro. Mentre parla, la biglia che ha al posto dell’occhio sfiora la patina di pelle dei miei stivali.

La signorina è mia ospite.

Fuori comincia a fioccare. Mi rimetto in piedi. Almeno la serata l’ho portata a casa. Divorare carne a mani nude, in fondo, ha avuto qualcosa di eccitante. Quel quid di porno-gastrico, oserei dire.

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