L’ORA DI AGOTA

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La prima volta che mi addentrai in un testo di Agota Kristof fu per la Trilogia della città di K., terreno tra i più impervi e sinistri. Di certo, anche tra i più radicati ai miei occhi nelle asimmetrie degli umani. Il passaggio ad alcuni copioni teatrali mi fu poi necessario per meglio districare la matassa di un’autrice che non ha mai avuto paura di affrontare i ruoli del male incarnato. C’è molta diffidenza da una battuta all’altra e insieme la certezza di trafiggere con una dimostrazione che non vuole essere sapiente, ma ereditare dalla realtà rapporti di forza reciprocamente infranti e beffeggiati. I personaggi sembrano esistere senza troppe domande, perché il mistero che aleggia attorno fa da traccia verso altri inconoscibili e nature attorcigliate dalla povertà di tutto.

Ricordo bene, a proposito, il linguaggio de L’ora grigia: una sequenza di affondi brevi e rapide violenze che in qualche modo sgorgavano dal suolo senza radici di un’esule. Un’autrice ungherese costretta a una seconda lingua, il francese, per pubblicare laddove non era più indispensabile fuggire da un regime e mettere in salvo la famiglia. Quel regime rivive però in fattezze che abitano luoghi innominati, anche se mai tanto simbolici da apparire intoccabili. La gestualità insieme viscerale e meditata delle loro storie rivive in una carta calcata con rigore: Agota fa pulsare un dolore che trafigge e non lascia scampo, ammette e costruisce la durezza in cui è indispensabile tramutarsi per resistere.

L’abusato non mondo degli espressionismi alla Kafka è di fatto una categoria troppo semplice per etichettare un’operaia della scrittura spesso confusa o ignota, certo mai ignara della risalita che comporta anzitutto la rinuncia ad essere invasi. La sua è una lotta che sa tuttavia riconoscere e condividere il bisogno di ogni scrittore di rinunciare a se stesso solo se vinto da una malattia più prepotente. Una dichiarazione di volontà dove nessun protagonista è mai del tutto abbandonato e ritorna, almeno nel pensiero, come abitante che chiede di essere salvato nell’innocenza.

Kristof ha conosciuto lo stremo dopo la fuga, si è addentrata tra ladri e prostitute, gemelli che diventano l’uno il tiranno dell’altro, ingranaggi passati e sopravvivenze restie a definirsi perché universali. I suoi sono archetipi che alimentano una determinazione a non lasciarsi sfuggire il mondo senza nome e a non soccombere. Il tempo ci ha sospesi da un’altra combattente, ma quella valigia si è chiusa soltanto per le pessime memorie.

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