Presentato in anteprima a diversi Festival, da Toronto a Torino, “Quartet” segna il debutto dietro la macchina da presa dell’attore Dustin Hoffman, classe 1937, due volte premio Oscar e protagonista di numerosi cult del cinema americano degli ultimi quarant’anni.
Immersa nella più florida campagna inglese, la Beecham House ospita cantanti e musicisti ritiratisi dalle scene: un’elegante casa di riposo su modello della famosa Casa Verdi meneghina. Le giornate passano gaie tra tazze di tè e partite di cricket, ravvivate quel tanto che basta dai preparativi per l’annuale concerto organizzato dagli anziani artisti in occasione dell’anniversario della nascita di Giuseppe Verdi.
La placida routine della casa è però sconvolta dall’arrivo del soprano Jean Horton, volubile e scostante diva dal passato (sentimentale) burrascoso, che si ritrova a partecipare, non senza ritrosia, all’allestimento del grande evento: con la complicità di due vecchi amici e dell’ex-marito, in realtà ancora affezionato, troverà la spinta per superare le proprie paure e rimettersi in gioco, non solo nella musica.
Tratto dall’omonima pièce di Ronald Harwood, che l’ha anche adattata per lo schermo, “Quartet” è una commedia garbata e cortese che ci insegna come nella vita ci sia sempre una seconda occasione, è un inno festoso alla terza età che alle paure del futuro e ai patemi del passato preferisce una giocosa affermazione del presente.
Sebbene, infatti, qualche commovente sequenza non manchi di ricordarci come la morte aleggi sempre sui sorrisi degli arzilli abitanti di Beecham House, la struttura esile del racconto concede ben poco spazio all’approfondimento dei temi più intensi e complessi che percorrono il racconto e segnano nel profondo i protagonisti. Morte, solitudine, malattia, sono fantasmi che si affacciano appena sui volti solcati di Jean e compagni e vengono subito scacciati con educata caparbietà da un’aria del “Rigoletto” o da una fantasia galante.
Contribuisce notevolmente al generale tono di levità e spensieratezza un copione ricco di battute fulminee e spumeggianti, di compiaciuto umorismo british, recitato da quattro fuoriclasse del cinema e del teatro inglesi tenuti a briglia sciolta da un regista che certo sa cosa chiedere ad un attore. Se Maggie Smith è maestra in vezzosità e alterigia, Billy Connolly (sue le battute migliori) tratteggia un vulcanico sornione di impagabile simpatia mentre Pauline Collins, volto paffuto e sguardo limpido, strappa molti sorrisi e qualche lacrima con la sua stravagante tenerezza. Completa il quartetto Tom Courtenay, il cui impareggiabile aplomb salva il film dal rischio di qualche scivolone nel retorico (la lezione sul rap).
La macchina da presa è tutta al loro servizio: Dustin Hoffman si limita a seguire i personaggi nelle loro schermaglie verbali o durante i colloqui più intimi, confezionando un film un po’ fuori dal tempo e dalle mode, piuttosto convenzionale nella forma ma compiuto e godibilissimo.
Un film da sabato pomeriggio, tanto inutile quanto piacevole: scritto bene, recitato meglio e diretto senza brio da un “esordiente d’eccezione” il cui passato cinematografico (da Peckinpah a Nichols, da Penn a Pakula, Schlesinger, Pollack, Benton…) poteva far sperare in un tocco di originalità in più.
Stefano Guerini Rocco
Accidenti, sei proprio bravo. Concordo in pieno su tutto….