Continuando le vacanze, la voglia di serie aumenta e sarà il clima, sarà il tanto tempo libero, sarà che la serie è favolosa, ma mi sembra che In Treatment sia ideale da gustare in questi giorni. Tanto per cambiare, anche stavolta consiglio una serie HBO. Non ci posso fare niente. Le produzioni migliori sono lì e da tanto tempo. Su altri canali nascono serie di altrettanta qualità, ma per numero di successo e anni di produzione la HBO è ancora il maestro. Che non si stanca mai di stupirci con idee nuove e diverse ogni anno.
In Treatment racconta dello psicoterapeuta Paul Weston (uno strepitoso Gabriel Byrne) e delle sue sedute settimanali coi pazienti. Niente più niente meno. In realtà è uno show quasi rivoluzionario per il tema, per l’ambientazione e per la messa in onda. Per la messa in onda perchè negli Stati Uniti nessuno è abituato alla messa in onda con cadenza giornaliera. A noi sembrerà strano perchè siamo abituati ad avere alla stessa facia oraria le stesse programmazioni ogni volta. Va da sé che così le serie si esauriscono nel giro di due/tre settimane. Negli Stati Uniti invece la cadenza è settimanale, per cui vedere una serie che manda in onda cinque episodi a settimana, crea “scalpore” e si chiama fuori dal gruppo. Ci troviamo così di fronte ad una prima serie composta da 43 episodi, una seconda da 35 e una terza da “solamente” 28 episodi. La diminuzione della terza serie a quattro puntate per settimana è dovuta principalmente al fatto che per la prima tutto è scritto in maniera completamente originale e non ispirata dalla pluripremiata Be’Tipul israeliana. La serie è poi innovativa per via del tema, perchè pur inserendosi nel filone della pscicologia, tema arcinoto e saccheggiato fin dai melodrammoni anni ’50, porta qualcosa di nuovo perchè le storie dei pazienti sono sì ben curate e attirano la nostra attenzione, ma quello che veramente è oggetto di indagine della serie è lo stesso Paul. Un brillante pscicologo affetto da una crisi esistenziale, dovuta all’età, ma non solo. E quando finisce la settimana, l’ultimo incontro è con Gina, il suo supervisore, e Paul diventa veramente paziente, mettendosi a nudo e confidando tutti i suoi problemi, lavorativi, affettivi e familiari. E a fare da cassa di risonanza per tutte queste innovazioni è l’ambientazione: noi vediamo solo ed esclusivamente le sedute settimanali. Tutte chiuse nello studio di Paul (o di Gina). Mai vediamo in maniera diretta vicende personali, e mai assistiamo a qualcosa che avviene al di fuori degli orari canonici dell’agenda di Paul. Mai si era vissto qualcosa di simile in tv, come neppure al cinema. Una delle regole base per gli sceneggiatori è che se devono scrivere un dialogo più lungo di 20/30 secondi, devono far fare qualcosa ai personaggi, altrimenti l’attenzione dello spettatore si spegne. Qui assistiamo a 25/30 minuti di dialogo, con i personaggi sempre fermi seduti, nella stessa stanza movimentati solo da leggeri carrelli a stringere sui volti e campi-controcampi giostrati con molta delicatezza. Mi pare evidente la novità di questo formato, che non è facile da vedere come altre cose, ma che una volta che ci si abitua, si entra e non si esce più, complice anche una sceneggiatura bella come poche, che compone dei dialoghi favolosi (come potrebbe essere altrimenti?) dando una veridicità straordinaria alle sedute. Dopo averlo cominciato a vedere è impossibile smettere. Personamente, alla fine di ogni puntata, mi accorgo di aver visto qualcosa di molto significativo e, forse esagero, ma forse no, durante i titoli di coda della puntata, mi trovo a riflettere e mi accorgo di aver imparato qualcosa di nuovo. Come una lezione a scuola, ma sulla vita, sui sentimenti e sulla capacità di gestire le situazioni conflittuali/problematiche.
Certo una serie così minimale dal punto di vista di scenografie e azione, deve per forza reggersi sulle capacità degli attori. E qui nessuno delude. In particolare la giovanissima Mia Wasikowska che interpreta Sophie. Il suo personaggio è stupendo e la sua storia l’ho seguita con tale passione da dimenticarmi che in fin dei conti stavo osservando della fiction. La sceneggiatura e l’abilità degli interpreti creano dei personaggi che hanno una tale profondità umana che ingloba lo spettatore che non si stanca mai di vedere due persone che non fanno altro che parlare. La parola diventa la padrona, tutto si basa sul dialogo. Su quello che si dice e su quello che non si dice chiaramente, ma che si lascia intendere o che si capisce intrepetandola. Riprende la sua forza descrittiva e invita lo spettatore ad immaginare i ricordi e i racconti, ognuno per sé, proprio come quando leggi un libro. Lo stesso Hagai Levi, creatore della serie originale e produttore esecutivo di questa dice: “Non esiste un’altra serie incentrata interamente sui dialoghi, in cui ci siano solo due attori, praticamente fermi dall’inizio alla fine, con poca azione. Gli attori possono usare solo il potere della parola e loro stessi, e quando giriamo facciamo spesso un’unica ripresa da venti minuti.” E i dialogi non sono mai banali, raramente succede quello che ti aspetti e non dobbiamo sorprederci di vedere urla, pianti, insulti e anche lunghissimi silenzi riflessivi, dove il paziente si trova di fronte a se stesso e semplicemente non ha più nulla da dire. Il tutto con un colonna sonora praticamente nulla, ma che quando si fa sentire è delicata e accarezza i volti dei personaggi, quasi accompagnondoli. Questo è In Treatment, ed è masturbazione mentale all’ennesima potenza. Ed è bellissimo.
Michele Comba