Terminata fra le ovazioni unanimi la trentunesima edizione del Torino Film Festival; tanti i film, pochi quelli che saranno distribuiti in Italia, pochi i bellissimi, molti i buoni, pochissime le schifezze.
Fra i volti noti, quelli a cui sarà data la possibilità di mostrarsi nelle sale nostrane:
Inside Llewyn Davis: l’ultima fatica dei Coen, segue le vicissitudini del classico sfigatissimo personaggio-Coen, un po’ meno inetto e stupido del solito ma sempre in balia di un destino che appare già scritto, scandito da piccoli avvenimenti (la fuga di un gatto, qualche commento poco carino durante un concerto, un preservativo bucato) che fioriscono in grandi conseguenze. Llewyn è un cantante folk che tenta di emergere negli anni ’60, lottando contro la povertà, la sfortuna, Bob Dylan, il suicidio del suo sodale, i produttori musicali mentecatti; evenienze che lo portano più volte all’idea di accantonare i sogni di gloria: ma in favore di cosa? Tra un’apertura e una chiusa tragicomiche piuttosto convenzionali spicca una parte centrale ipnotica, un’odissea di disincanto surreale, un interminabile viaggio automobilistico immerso in un’oscurità quasi onirica, empia di un eccezionale John Goodman, disgustoso musicista tossicomane.
Only lovers left alive: Jarmusch si presta all’horror vampiresco; o meglio, lo invade con la sua antipoetica rock’n’roll. Protagonisti Adam e Eve (sic!), vampiri millenari che chiamano ”zombie” gli esseri umani e che, schizzinosi e raffinati quali sono, hanno deciso di non bere mai più sangue direttamente dalla gola delle vittime. Adam è un depressone che compone gothic rock strumentale, Eve (Tilda Swinton, magnifica), sua moglie, prova a tirargli su il morale; da qui si dipana una catena di microvicende in cui ciò che emerge è la critica disillusa alla contemporaneità – in ogni sua accezione, dalla scientifica alla tecnologica alla musicale -, rea di non usufruire appieno delle proprie risorse. Il tutto condito dagli stilemi e dalle icone di Jarmusch (su una parete della casa di Adam troviamo i santini di, in ordine sparso: Poe, Lovecraft, Tesla ma anche Neil Young e Joe Strummer, e così via). Non il miglior Jarmusch, però sfizioso e divertente.
All is lost, di J.C. Chandor: cioè Robert Redford versus il Mare. Oppure versus il Cinema. Nel senso che Redford è l’unico (l’unico) attore del film e in centodieci minuti dice sì è no cinque frasi. Il resto del tempo lo passa cercando di salvarsi dalla furia dell’oceano che prima gli affonda la barca a vela e poi fa di tutto per trascinarselo negli abissi. Risultato? Il settantaseienne Redford vince, non dico se sul Mare per non fare spoiler, ma di sicuro sul Cinema: nonostante alcune ripetizioni e un briciolo di lungaggine (venti minuti in meno non avrebbero guastato), e forse un commento musicale fuori luogo, All is lost è teso e angosciante, e il ligneo Robert fa un figurone con un’interpretazione rischiosa che lui invece rende credibile e intensa, senza enfasi, con le giuste dosi emozionali.
Fra i film cui potrebbe essere data un’occasione distributiva italiana:
Frances Ha, di Noah Baumbach (collaboratore di Wes Anderson e regista de Il calamaro e la balena e di Greenberg): un’intrusione in b/n, retrò quanto basta, nella vita della ventisettenne Frances, aspirante goffa ballerina di New York che ha una migliore amica che si fidanza e l’abbandona, che cambia appartamento di anno in anno, che va a Parigi due giorni alla ricerca di se stessa o in fuga da se stessa, che diventa cameriera, che non riesce a essere ”frequentabile” dai ragazzi, che non vuole crescere perché ”a ventisette anni si è già vecchi”. Un mucchio di scenette sardoniche, amare, retoriche, simpatiche (che aggettivo orribile), intime, sempre sull’orlo dell’Allen che fu (o perlomeno, di una sua versione giovanilistica e hipster) ma senza Diane Keaton; il che fa combaciare quest’orlo con quello dell’irritante. Obiettivamente è un film che riesce nelle sue intenzioni; dunque sospendo ogni giudizio. Se si gradisce una certa levità un tantino snob, del genere esistenzialismo che non si prende sul serio, Frances Ha è buono.
La danza della realtà, di Alejandro Jodorowsky: inclassificabile, ingiudicabile. L’infanzia di Jodo, le disavventure politiche del padre di Jodo, la procace madre di Jodo, storpi canterini, dittatori amanti di cavalli, guru buffoni; nonsenso, simbolismo, poesia, religione, trash. Non esistono parametri per questa pellicola. L’unico parametro è Jodorowsky stesso, che gira con un tale menefreghismo della tecnica cinematografica da essere sublime, commovente. Inquadrature sbagliate, angolazioni impossibili, controcampi a casaccio; come nei suoi non-film precedenti, il cinema è solo uno strumento in più dei tanti (fumetti, libri, tarocchi, teatro…) di cui Jodo si serve per esprimersi, sottomettendo il mezzo ai messaggi più radicali, al suo miscuglio psicomagico di razionalità ed esoterismo, di superstizione e materialità. In sostanza, La danza della realtà è una porcheria, per chi non conosce e non apprezza le ambivalenze, il carisma, la profondità comica di Jodorowsky; ed è una meravigliosa porcheria per i fan.
Matteo Pennacchia