Ottunde, obnubila, occulta. Omologa le differenze. Interviene sulle distanze. Appiattisce gli spigoli e rende i contorni friabili. Pattina sulla scia di una danza fredda per poi schiantarsi, ancora più gelida, a terra.
Mi frega sempre.
Ogni anno mi ripeto che in città complica le cose, annebbia la vista e confonde i guidatori. Poi, riconosco un fiocco. Seguito da un altro, e a cascata, una marea di acini di ghiaccio, a riempire la finestra. L’inverno piega i rami dei pioppi del parco. Un sipario albino cala su Milano mentre il silenzio incide il caos di quello che sarebbe uno stereotipato risveglio metropolitano. Asettico se non ci fosse tutto quel bianco a sporcare la ritualità del traffico.
E non resisto. Mi butto nel freddo. In compagnia del ritmico dondolio di un respiro, ad ascoltare il nulla. Divorando un giorno che non cercavo ma che è successo.
Come quelle occasioni, abbandonate lungo il percorso della vita, che non ti aspettavi ma che la rendono degna di essere vissuta.