Non amo parlare di politica. La mia vita è raccontare storie. Ed è così che scelgo di commentare una legge europea che rischia di cambiare per sempre la storia delle spiagge italiane e di colpire duramente chi vive e lavora sul mare.
Scrivo questo articolo da Forte dei Marmi, dove ho presentato i miei libri per ragazzi. Questo per alcuni è un posto per vip, dove si fa bella mostra dell’automobile e dello yatch. Per chi ama la natura, il mare e i suoi colori, una spiaggia che lascia il segno e toglie il fiato. La linea dorata della sabbia si specchia sul mare, dove al tramonto si tuffa il sole. Dalla parte opposta, le montagne mostrano venature di marmo e sono sempre accarezzate da bianche nuvole soffici. La spiaggia è ben curata, accogliente e, oggi, prestigiosa. Ma non è sempre stato così.
Parlo con Sergio, proprietario di uno degli stabilimenti e portavoce del Comitato contro l’attuazione di una legge che rischia di spazzare via il lavoro di una vita. Mi racconta dei suoi genitori, che l’hanno aperto nel 1946, con le ferite della guerra ancora sanguinanti. All’epoca, lui era un bambino ammalato di difterite. Il medico disse che per salvarlo dovevano farlo vivere sul mare. E così il padre, un falegname che aveva sempre vissuto in campagna, e la madre che raccoglieva il carbone nelle cave in montagna, decisero di indebitarsi per comprare uno stabilimento balneare. Allora il turismo era riservato a una ristretta élite, non c’erano strutture né soldi e non c’era l’abitudine alla villeggiatura.
Ma a volte si decide di credere in un sogno.
E così i genitori di Sergio, come stavano facendo altri, iniziano a bonificare la zona. Un lavoraccio, perché sulla spiaggia si doveva camminare con gli zoccoli a causa dei rovi, gli “spraccallocchi”, detti così perché, se li pestavi, ti facevano spalancare gli occhi. Il padre di Sergio non era uomo di mare e per costruire dei remi, che oggi sono ancora visibili nell’area ristorazione, osservò quelli dei pescatori. Anche le cabine le costruì con le sue mani. Diciotto, unite a pochi ombrelloni. I pochi clienti degli esordi venivano chiamati “signori”. Poi, le cabine raddoppiano e i sacrifici cominciano a dare i frutti: la tenacia del lavoro dell’uomo trasforma l’ambiente senza deturparlo, la gentilezza fa tornare i “signori”, anno dopo anno. Per Sergio, un sogno da lasciare ai suoi, di figli, che oggi lavorano nello stesso stabilimento. Ma un sogno portato avanti con coscienza: l’articolo 37/2 del codice della navigazione sanciva il diritto di insistenza, continuità e prelazione a chi aveva investito tempo e fatica sul mare. Alla fine degli anni Ottanta, Sergio vende l’albergo e l’annessa stazione di servizio costruito negli anni Sessanta (“ho lavato automobili per cinque anni per costruirlo” ricorda). Per continuare a lavorare sul mare, con i suoi sulla soglia della pensione, per continuare la tradizione della famiglia, investe tutto nello stabilimento balneare. Sicuro della tutela della legge, come molti altri ha costruito la sua casa sullo stabilimento. Mi sono guardata intorno, e a una parete ho trovato un certificato risalente a metà degli anni Settanta, in riconoscimento di quella volta che, in mare, Sergio stava perdendo la vita per salvare quella di alcuni bagnanti in balìa del mare forza otto: una belva affamata capace di spezzare le imbarcazioni di salvataggio che cercavano di avvicinarsi. Cinquanta infiniti minuti per tenere in vita il bagnante che si era allontanato di più. Alla fine tutti sono stati salvati.
Pochi metri attraverso la spiaggia e incontro Martina, figlia del proprietario di un altro bagno. Mi racconta che i suoi ricordi di bambina sono tutti sul mare. Col fratello aspettava che i figli dei turisti uscissero dai ristoranti, per fare amicizia. Come è avvenuto con me, quest’anno. Suo padre mi parla della legge Bolkenstein, e della procedura avviata contro lo Stato italiano in nome del libero mercato. La legge vuole abolire il diritto di insistenza, togliendo alle famiglie che hanno addomesticato il mare il diritto di prelazione. Sulla carta la legge parla di democrazia: tutti hanno il diritto di usufruire di un bene pubblico. Molti la vedono in modo diverso.
Un bene pubblico non può essere affidato a privati, ma che dire di un terreno affidato a famiglie che hanno investito tempo, soldi e fatica per trasformarlo? “Questo è un bene pubblico che è stato affidato a persone che hanno trasformato un terreno in un’industria. Oggi della situazione di benessere e ricchezza che si è venuta a creare ne beneficiano tutti in città, ed è vanto e prestigio italiano anche all’estero” afferma Sergio. E allora dico: mi sta bene il libero mercato, ma esiste anche il diritto di “peculiarità” che serve a mantenere intatte le tradizioni di una zona. Come avviene per la gastronomia: non può essere marcato “prosciutto di Parma” qualcosa creato altrove.
Non posso fare a meno di chiedermi perché nessuno stia muovendo un dito per salvaguardare il lavoro e gli investimenti di tante famiglie, e la peculiarità delle nostre spiagge. Non è una storia che riguarda solo Forte dei Marmi. Questa è la storia di tutta l’Italia del mare. Il ministro Calderoli ha ottenuto dal governo una proroga per l’attuazione della legge fino al 2015 (sarebbe entrata in vigore nel 2012). Se nemmeno allora la politica interverrà, potrebbe esserci una multinazionale a gestire lo stabilimento balneare a Cattolica, dove ho passato la mia infanzia. E magari Forte dei Marmi sarà terreno fertile per il business del riciclaggio del denaro sporco in mano alle mafie.
E un tesoro di tradizione si spegnerà come il sole, al tramonto, nel mare.
Sono un amante del mare, ma non delle spiagge turistiche. La mia pelle mi impedisce di mettermi a rosolare al sole per ore e ore, per cui al mare ci vado d’inverno… quando questo pericolo non esiste.
A ogni modo, credo che ci sia molto da fare sul frangente “gestione della spiaggia”. Posso comprendere il sudore delle famiglie che hanno costruito il loro stabilimento, ma comprendo meno il costo di ombrellone e sdraio, che oggi raggiunge livelli da gioielleria… Non mi vengano a dire che c’è crisi… visto che qualcuno, in tempi non troppo remoti, si è preso persino la briga di fare causa alle agenzie di previsioni meteo perché avevano sbagliato e la gente non era andata in spiaggia. Se hai soldi per gli avvocati, vuol dire che non stai così male. E non sono neppure troppo sicuro che sia giusto garantire lo sfruttamento a vita a una famiglia di un terreno pubblico… così che in alcune aree, addirittura, viene vietato l’accesso al mare a tutti coloro che non passano per la cassa e non pagano un ticket per lo spazio occupato dai propri piedi.
E non è neppure bello che gli spazi tra ombrellone e ombrellone si riducano sempre più in modo tale da sfruttare al massimo lo spazio a disposizione.
C’è realtà e realtà…
Credo si debba regolamentare in modo che la giustizia vada ad appianare divergenze eccessive. Probabilmente qualche famiglia ne verrà danneggiata un pochino, probabilmente qualcuno se ne avvantaggerà. Il fatto è che bisogna trovare il giusto equilibrio… e soprattutto, è necessario che il territorio pubblico rimanga pubblico. In montagna, i proprietari di un albergo, non recintano i boschi circostanti per impedire ai passanti di andare in aree “riservate” ai clienti. Altrettanto deve accadere al mare. E così pure i servizi… una sdraio non può costare come una cena a base di pesce in un ristorante di lusso.
Detto questo… c’è poco da sperare nella legislazione locale. Non riescono a risolvere i problemi più grandi, figurarsi le minuzie. Quanto alle famiglie che lavorano grazie al mare… consiglio loro di organizzarsi sin da ora per lottare contro le multinazionali, piuttosto di attendere l’ultimo minuto e rimanere soffocate dai barracuda. Possono associarsi tra loro (i cinema di Bologna lo hanno fatto per sopravvivere allo strapotere delle multisala…), o trovare altri escamotage. Hanno avuto quelle spiagge a loro disposizione per tempi lunghissimi… forse è il momento di rimboccarsi le maniche e fare come i loro avi, che per primi avevano avuto la concessione sullo sfruttamento di quelle spiagge.
Non si può pretendere che sia sempre lo stato a salvare gli imprenditori (mentalità totalmente italiana). In una economia capitalistica (in Italia non si è sempre detto che i comunisti mangiano i bambini, allora perché adesso si prega in ginocchio lo stato di salvare le imprese?), le aziende devono mostrare le unghie per rimanere sul mercato… e questo vale per gli stabilimenti, per i negozi, per le imprese… Se l’europa pretende che tutti gli stati appartenenti all’unione abbiano regolamentazioni analoghe (e mi sembra giusto…), allora le imprese dovranno adattarvisi e lottare comunque per sopravvivere.
Eccheccaspita! ‘Sti imprenditori piangono sempre di non stare a galla. Però non li ho mai visti fare la fame… Che dovrei dire io, lavoratore dipendente, che lascio il 40% (circa) del mio stipendio in tasse prima ancora di averlo sul conto corrente? Che dovrebbero dire tutti i precari che faticano ad arrivare a fine mese?
Fare impresa significa prendersi dei rischi… tra cui anche quello di non riuscire a contrastare la concorrenza. Altrimenti la loro attività non si chiamerebbe ‘impresa’, giusto?