Dedicato ad un amico che non c’è più, Giglio Zarattini

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Questo racconto che ho intitolato “Occhi nel mare” è dedicato ad un artista, ma soprattutto ad un amico di grande spessore umano, che non è più qui con noi. Ciao, Giglio!

Un vortice di acquadelle dalle tinte argentate fluttuava sulla tela di Giovanni, che anche quella mattina era lì con il suo treppiede e una miriade di pennelli.

Uno spesso manto di nebbia oscurava l’orizzonte, tanto che gli scogli, seppur così vicini alla battigia, non erano mai stati così lontani.

Le onde si adagiavano mollemente sulla sabbia con uno scroscio lieve, quasi impercettibile. I miei passi si confondevano nel grigiore plumbeo di quella mattina tardo-autunnale.

Non un gabbiano si levava in volo per salutare l’arrivo del nuovo giorno, ma Giovanni era già lì al suo posto, con lo sguardo fisso sulla tela, mentre la mano a pennellate forti, dure, fissava attorno ai tratti argentei delle acquadelle degli andirivieni cupi e ricurvi di onde marine, in balia di una tempesta di pioggia, che si mesceva al mare nero.

Scrutavo attentamente Giovanni, come a volerne carpire le emozioni, le sensazioni in quel momento di particolare ispirazione, ma lui, senza mai voltarsi verso di me, alzava gli occhi di tanto in tanto verso il mare, oltre la tela, quasi come se vedesse pure affiorare gli scogli dietro la coltre umida e pungente della nebbia.

Il faro di Porto Garibaldi richiamava i pescatori ancora al largo a quell’ora della mattina, con il suo incessante boato.

“Giovanni, come mai hai dipinto una danza vorticosa di acquadelle, nel mare in burrasca?”-ebbi il coraggio di chiedergli, dopo qualche momento di esitazione.

Lui si girò di scatto, come sorpreso o forse indignato per la mia domanda e aggrottando le ciglia, bofonchiò:”Ma non vedi? Non sono acquadelle! Sono occhi, occhi che ci guardano, che ci rincorrono, occhi feroci che ci inseguono nel mare in tempesta”.

“Occhi di speranza, occhi di ricerca della verità, di noi stessi, degli abissi marini che si nascondono tra gli scogli dei nostri cuori aridi”, -avrei voluto ribattere, ma ammutolii in un brivido.

Una folata di vento gelido aveva cominciato ad increspare il mare calmo, mentre un vecchio pescatore da lontano spuntava nella nebbia, con gli stivali lunghi in una mano e un grappolo scuro di cozze intrecciate da alghe filamentose nell’altra mano.

Al pescatore Giovanni riservò un saluto caloroso e un cenno di sorriso, che a me aveva negato.

Pensai che fosse venuto il momento di riprendere la camminata sulla sabbia umida, che dietro me aveva lasciato impronte di scarpe, profonde come solchi di un aratro.

Giovanni era di nuovo assorto nella sua tela. Le tinte così scure e ruvide, quasi scavate con le mani emanavano un qualcosa di inquietante, che non sapevo afferrare. Ora però sapevo che non si trattava di un branco di acquadelle, ma di una danza implacabile di occhi, che turbavano e tormentavano la vista di chi li osservava.

Quasi tutte le mattine la mia camminata sulla spiaggia deserta d’autunno tra i gabbiani che volteggiavano attorno a giovani cefali, che qua e là affioravano sulle onde schiumanti del mare era diventata prima di tutto un appuntamento con il pittore solitario.

Un giorno il cielo era stato rischiarato da un violento temporale, che aveva gonfiato paurosamente le onde, conferendo loro un color cuoio, putrescente ed opaco.

Soffiava un vento di bora pungente, impetuoso, che scoraggiava chiunque ad avventurarsi in spiaggia.

I granelli di sabbia rimbalzavano ovunque, graffiando il volto scoperto di Giovanni, questa volta ancora solo e assorto, ma senza la sua tela.

“Guarda”, -mi disse, mentre mi avvicinavo incurante del freddo-  “Si riesce a vedere la punta estrema dell’Adriatico. E’ una rarità, perchè solo in giornate fresche e limpide come questa, si può vedere la costa frastagliata fino a Trieste, a occhio nudo”.

Per me che non ero nata in una località balneare quella era una grande conquista. Giovanni mi aveva fatto scoprire qualcosa in più sul mare.“Cosa rappresenta per te la punta estrema dell’Adriatico?” gli chiesi a denti serrati.

 Con uno sguardo grave spense le mie aspettative. Mentre stavo per riprendere il mio cammino, ormai infreddolita, anche se catturata dal rumore scrosciante delle onde, che rendevano più suggestive le riprese, che avevo cominciato a fare con il telefonino, Giovanni estrasse un taccuino e una matita dal cappotto e freneticamente lasciò le dita agitarsi sul foglio.

Riconobbi ancora acquadelle grigie, onde grigie e piroette di anguille tutt’attorno. “Anche questi sono occhi che ci guardano e ci tendono insidie. Sono gli occhi della coscienza.” Rimasi sbigottita dalla velocità con cui il tratto della matita si impressionava sul foglio bianco a quadretti. Poi ci ripensai.

Il vento di bora mi aveva impedito di cogliere a pieno le parole scandite da Giovanni. Erano gli occhi della coscienza o della conoscenza?

All’indomani ritornai in spiaggia, smaniosa di sapere la risposta precisa di Giovanni.

Era una fredda mattina invernale funestata, come tante altre, dall’umida coltre di nebbia che impediva, ancora una volta, la vista degli scogli, benché la bassa marea avesse allungato a dismisura la spiaggia di Porto Garibaldi.

Giovanni non c’era con la sua tela e la sua tavolozza.

Anche il giorno dopo e poi nei giorni successivi, cullata dal fragore delle onde, feci ritorno a quell’angolo di spiaggia, dove sapevo di trovare Giovanni. Ma lui non c’era. Non sarebbe più tornato.

Se lo era portato via l’occhio del mare.

 (Katia Romagnoli)

About tinteforti

Ho 43 anni, vivo a Ferrara e ho la fortuna di lavorare al mare. Conosco il Delta del Po quasi quanto la mia Città. Amo andare alla scoperta di luoghi, mostre, eventi eno-gastronomici per trasferire con la scrittura emozioni, racconti di vita e ricordi. Da buona emiliana non disdegno la buona tavola e mi diletto a girare per sagre, fiere ed eventi a tema.
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