di Isabella Pesarini
Domenica di novembre, primo pomeriggio. Pioggia copiosa. Giornata perfetta da dedicare alle mostre culturali!Sfogliando l’ampia scelta offerta dal capoluogo lombardo e dintorni, mi ricordo di un appuntamento irrinunciabile: la mostra personale del fotografo statunitense Steve Mccurry allestita in uno dei luoghi d’epoca più suggestivi dell’immediato vicinato: la Villa Reale di Monza.
È sufficiente qualche telefonata alle amiche di simil interesse che appena dopo pranzo sono già in strada per raggiungere Monza. Chissà perché, nonostante sia stata fedele alla strada cittadina che da piazzale Loreto, attraversando tutto viale Monza, dovrebbe portare a Sesto S.Giovanni, mi ritrovo in un susseguirsi di curve che mi portano in viale Fulvio Testi, per imboccare un tratto di Tangenziale Nord. Che coi lavori dell’EXPO la tangenziale sia diventata d’obbligo? Per fortuna sono in macchina con amici fidati, per cui l’allungo di strada e temporale passa in fretta piacevolmente.
Metà pomeriggio, pioggia in aumento. Sarà per pigrizia, sarà per la stagione, sarà per il tempo stesso, che decidiamo di parcheggiare all’interno del cortile della Villa Reale, fosse anche a tariffa piena! C’è ancora qualche posto libero, parcheggiamo liberamente e … ci chiediamo il perché! Liberamente? Senza traccia di parcheggiatore? O un divieto? Alla Villa Reale di Monza? Inizio a pensare di essere troppo abituata ai pregiudizi, se sarà a pagamento il parcheggiatore spunterà, se sarà libero tanto meglio!
In coda alla cassa, rimango un po’ delusa dalla penuria di riduzioni: gli aventi diritto sono solo i tesserati FAI e gli insegnanti, oltre ai classici accompagnatori di gruppi, scolaresche e disabili. Sarebbe bello se le convenzioni fossero pressoché universali. O forse così c’è più scelta? Nasce già un pensiero su cui rifletterci un po’.
La mostra inizia ufficialmente! Salendo la scalinata principale della Villa uno dei protagonisti più rinomati del fotografo umanista statunitense introduce alla mostra da una gigantografia: il vecchio asiatico dai capelli e barba color arancio. Energia, mi sento già pervadere da un flusso combinato di energia ed entusiasmo.
Come spiegato dallo stesso Steve Mccurry dal video introduttivo sul sito ufficiale della mostra, le pareti e le pavimentazioni della preziosa reggia sono rimaste intatte, senza alcuna necessità di adattare spazi d’epoca a un’installazione moderna. Piuttosto le fotografie sono state appese e poggiate su scale di legno che seguono i lunghi due corridoi principali, le pareti sono intervallate dalle fotografie sospese con tiranti d’acciaio ancorati al soffitto. Lo studio della stessa installazione porta traccia di architettura e di design, quindi di ricerca e di preservazione del bene artistico preesistente. Questa è arte! Rispetto e coesistenza di diverse epoche, stili, correnti di pensiero in uno stesso ambiente, così che l’antico possa ospitare la novità e l’elemento moderno possa portare una sferzata di avanguardia nello spazio più classico.
Ecco un uomo che legge sotto una finestra, probabilmente per utilizzare al meglio la luce diurna che entra dai vetri senza tende. L’uomo indossa un turbante, Mccurry l’ha ritratto seduto a terra, chissà se ignaro di essere diventato icona dell’umanesimo fotografico di cui lo statunitense è portatore, dovunque, nel mondo. L’installazione ha deciso di ospitarlo davanti a una parete che riecheggia i colori di quell’interno domestico di un angolo lontano.
Entro in una delle tante stanze della Villa. Qui si respira Africa! Sento vibrare l’energia, i colori si fanno più vivaci, i sorrisi più ampi, le storie cariche di speranza. Col denominatore comune di un agricoltura più ragionata e sostenibile, Mccurry immortala sorrisi di ragazzi, giovani donne nella savana, momenti di lavoro quotidiani nei campi per la raccolta, occhi spalancati per lo stupore di bere e mangiare qualcosa coltivato da loro stessi, di giovarsi del prodotto finale. Per il mondo occidentale sviluppato questo ciclo di produzione è scontato, per molte regioni del mondo affatto.
Lo foto più contradditorie appaiono come le più suggestive. Un uomo vestito in tunica tipica ha evidentemente bruciato qualcosa nel terreno, il fuoco divampa alle sue spalle, nuvole di fumo nero presto rubano la scena al cielo di quel sole pieno che solo l’Africa può regalare, eppure … eppure la foto sembra un dipinto, la posa dell’uomo è maestosa, egli si erge in fierezza, ombre e sfumature delle nuvole di fumo sembrano dei sipari che separano la scena dal resto della savana. Sarà stato consapevole Mccurry di tanto pathos?
Cambio stanza, ci si sposta decisamente, in un altro continente. Un altro mondo. Qui forse la base è la contraddizione, come per le due bambine ritratte nello Yemen nel 1997 con indosso abiti tipici, il velo nero per coprire il volto lasciando scoperti solo gli occhi e un copricapo particolare che ricorda i sombreri messicani. Un ritratto di un altro bambino mi impone di fermarmi, più a lungo, ad osservare. È come se il bambino guardasse dall’interno di un vetro sporco, appannato, un vetro di una finestra, di un automobile, gli occhi del bambino cercano il fuori, l’esterno, sono decisi, esplorativi. Torno in corridoio, dove ammiro l’originale del vecchio asiatico dai capelli arancioni diventato icona dello stesso Mccurry.
Una foto scattata in India nel 2007 scatena la mia curiosità. Un ragazzino è ritratto di spalle mentre corre, o meglio, vola scalzo sulla pavimentazione quasi da sterrato, costeggiando un muro continuo su cui sono state dipinte delle impronte di mani aperte, ognuna con la sua identità. Nella totale semplicità questa opera di Mccurry può ben rappresentare il concetto di umanesimo inteso come diversità e caratterizzazione precisa di ogni individuo nel mondo. La vitalità è racchiusa nel dinamismo del bambino, protagonista di una scena solitaria con un inaspettato spettatore.
Una delle installazioni di legno più riuscite sono i quasi ponti poliedrici, sulle cui pareti interne poggiano le fotografie: una vecchia auto colorata per le strade di Cuba, monaci birmani sotto la pioggia tutti vestiti di rosa e con lo stesso ombrello rosa!
La Kyoto, Giappone 2007, è un accostamento perfetto di colori abbinati: l’uomo, ritratto di spalle, emerge in tutta la sua figura dalla camicia bianca sugli ampi pantalone blu mare, figura che spicca ancor più in risalto mentre attraversa un corridoio fiancheggiato su entrambi i lati da colonne di un arancio vivo. Lo stile giapponese prosegue con un’altra Kyoto, Giappone 2007, stavolta l’uomo è vestito con scuri abiti moderni, l’arancione del corrodoio è diventato più oppressivo, arrivando a coprire addirittura il soffitto e ad alimentare la luce delle lanterne. E come ogni contraddizione, scaturisce la suggestione.
Una foto mi appare più allegra di quelle finora viste, una statua fa spiritosamente capolino dalla finestra di un’abitazione evidentemente dismessa. E sì, Mccurry ci ha portati a Spoleto. È l’Italia, il Paese dove regna l’allegria, dove la sorpresa artistica è dietro l’angolo, dove si scherza, sempre e dovunque.
Un’altra foto gioca coi colori lasciando libero arbitrio sugli elementi coinvolti: saranno affreschi o foglie e fiori secchi quelli sugli scalini, sulle persiane, sui muri? È Venezia, colorata e perennemente in bilico, tra il vecchio e le avanguardie, la nebbia che Mccurry ha catturato all’orizzonte e il dettaglio d’arte più rifinito.
Si torna in posti lontani del mondo. Un barcaiolo di fiori nel Kashmir, dove le onde alzate dai remi sembrano emettere luce, ancora Venezia in décapage su chissà quale muro che ha visto invecchiare decine e decine di manifesti, un cavallo che corre libero in Afghanistan, un ragazzo che legge poggiandosi sulla proboscide di un elefante in Thailandia.
Il finale è la suggestione, l’impatto visivo, l’istante che mai si dimenticherà. Kuwait, 1991, quando la terra bruciava. La foto di Mccurry è testimone: l’orizzonte brucia, non si vede più il cielo, solo rosso, giallo e fumo, fumo nero e denso. Tre cammelli in primo piano si allontanano dal pericolo, forse il messaggio della speranza può darlo anche la natura stessa, nella sua semplicità e nella sua praticità. Dove gli interessi non esistono, dove quello che importa è la continuazione della specie.
Crepuscolo, pioggia fine. Una maschera mi invita a salire per ammirare l’ultimo piano della Villa. L’interesse inatteso alla mostra di Mccurry mi ha fatto perdere di vista gli amici, penso che li ritroverò all’uscita o al bookshop, quindi salgo. Un piano, due piani … sento delle voci! Salgo fino in cima e trovo degli ambienti spogli, sicuramente delle stanze della reggia, ma senza il minimo tentativo di esaltazione artistica. Un po’ delusa cerco l’uscita. Dov’è l’uscita? Con l’aiuto di un’altra maschera trovo l’uscita, solo che scendo, scendo, scendo, ma i piani in tutto non erano tre? Perché sto contando cinque piani? Apro porte di sicurezza, non le richiudo, le lascio aperte, almeno so come tornare indietro. Incrocio una signora, con lo sguardo implorante le chiedo se sto facendo la strada giusta per arrivare al bookshop, lei annuisce. Evviva! Accelero un po’, davanti a me fanno strada tre ragazzi, uno di loro mi aspetta gentilmente per non chiudere le porte di sicurezza che via via si presentano. Scopro che anche i ragazzi stanno procedendo per tentativi, a un certo punto la luce si fa più vivace, più moderna e l’ultima porta di sicurezza si apre direttamente al bookshop. Entriamo con una risata di traguardo, raggiunto piano dopo piano.
L’umanesimo di Mccurry è rimasto anche ben oltre la mostra, forse il suo esempio, una fotografia artistica da Nuovo Rinascimento, ha indicato il valore più alto del mondo. Il fattore umano.
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