Community 2.0 – Il ritorno di Dan Harmon

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Dan Harmon è tornato, in gran stile. E tornando ha tracciato una lunga riga nera su tutta la quarta stagione, cancellandola e ricominciando da capo, sperando che presto tutti si dimentichino di una delle più brutte stagioni televisive. Il secondo inizio comincia già dal titolo: repilot. Un secondo pilot necessario per far capire a tutti che ora si ricomincia, necessario per scrollarci di dosso le brutture della quarta stagione. La situazione iniziale è la stessa di cinque anni anni fa. Troviamo infatti un Jeff disperato e senza nulla, proprio come nella 1×01. Ma dopo quattro stagioni c’è in lui qualcosa di diverso: volente o nolente il Jeff di oggi è cambiato un po’, ci sono sei persone che lo hanno cambiato e influenzato. E come lui anche gli altri tornano al punto di partenza un po’ cambiati, fomentando così un circolo di crescita che ti porta negli stessi posti e nelle stesse situazioni, ma con una coscienza diversa. Più cresciuto insomma. Qui si racchiude il primo grande pregio delle sceneggiature di Harmon: i personaggi non percorrono una linea da un punto A ad un punto B e poi basta, ma percorrono un cerchio come accade nella vita vera, e sullo schermo sono estremamente più credibili e incisivi.

Jeff e gli altri infatti tornano a Greendale ingannati dallo stesso Jeff che ufficialmente forma un comitato per la salvaguardia del College, ma che in realtà vuole denunciare la scuola per aver rovinato la sua vita e quella di tutti gli altri. I componenti del gruppo di studio sono armati di buoni sentimenti e amore verso il college, ma Jeff, mentendo, ingannando e manipolando, li convince che in realtà il college ha rovinato le loro vite. Questa convinzione, nei piani di Jeff, dovrebbe portare testimoni per la sua causa, ma invece porta tutti a decidere di inseguire (stavolta per davvero) i loro sogni e di re-iscriversi al college perchè in fondo Jeff, mentendo e ingannando, mostra la vera verità. In questa affermazione, esplicitata da Abed, si racchiude il tocco di Harmon e si sente il suo ritorno in cabina di regia. Vengono infatti abbandonati tutti i sentimentalismi e buonismi della quarta stagione e si ritorna qui ad una cattiveria ed egoismo rivelatori. Attraverso il personaggio egoista di Jeff, gli altri personaggi ricevono le più vere lezioni di vita che possano mai ricevere, e lo stesso Jeff, sorpreso dall’effetto che sortiscono le sue “mezogne”, in un certo senso si ravvede e diventa anche lui una persona migliore. Così anziché denunciare il college, Jeff avverte il preside del rischio che la scuola sta correndo e decide di proteggerla da dentro, diventando insegnante. In fin dei conti, il Greendale Community College è un posto speciale perchè offre ai disperati e a chi non ha più nulla, un’occasione per riscattarsi e con Jeff lo sta facendo per ben due volte. Un posto così va protetto, e per proteggerlo ci vogliono tutti.

La complessità dell’episodio è tale che scriverne lo ridurrebbe tantissimo. Va visto tutto d’un fiato godendo di battute taglienti e citazioni raffinate. Abed, per esempio, spende molto tempo a spiegare come loro siano nella stessa situazione della season 9 di Scrubs provocando l’indignazione di Troy che non capisce come Zach Braff possa apparire in soli sei episodi “dopo tutto quello che Scrubs ha fatto per lui”. E qui parte il paragone con Jeff: come fa Jeff a denunciare il college dopo tutto quello che ha fatto per lui? Infatti non lo farà, e come JD, diventerà insegnante. Anche la scrittura torna agli altissimi livelli iniziali e su tutti vale la frase con cui viene gestita l’uscita di Pierce dalla serie: “Do you guys feel weird doing this without…. Magnitude?” Non credo possa esserci modo migliore per gestire l’assenza di Pierce.

La bellissima complessità di questo show non lo rende la punta di diamante per gli ascolti della NBC, ma tornando ai livelli che lo hanno reso celebre, Community crea un forte pubblico fedele e porta premi e critiche molto positive da tutta la stampa, speriamo che la NBC si “accontenti” e smetta di provare a trasformarlo perchè, ragazzi, Community is back on fire.

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La Top Ten del 2013 secondo p&p

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Mentre American Hustle inaugura con successo una nuova stagione, c’è ancora tempo per volgere lo sguardo alle pellicole che hanno segnato l’anno appena passato. Del 2013 si ricorderanno alcune sorprese fulminanti e altrettante cocenti delusioni, oltre a una manciata di capolavori (più o meno) acclamati che sembrano destinati a superare la prova del tempo.

Innanzitutto, a giocare la parte del leone è stata la Francia, davvero in gran forma, grazie soprattutto a un Festival di Cannes particolarmente ricco e fortunato. Dalla Croisette provengono infatti Giovane e bella del sempre apprezzato François Ozon (che si è sdoppiato con Nella casa), lo scottante e chiacchierato Lo sconosciuto del lago, Il passato (di nazionalità iraniana solo sulla carta) dell’acclamato Farhadi e soprattutto La vita di Adele, film-evento (ma non l’unico) di una eccezionale stagione cinematografica, che con tutta probabilità consegnerà il suo autore Abdellatif Kechiche ai manuali di storia del cinema. Ancora dalla Francia e ancora da Cannes, ma 2012, proviene Holy Motors di Leos Carax: misterioso, affascinante, multiforme, bizzarro, complesso, inquietante. Uno dei titoli più interessanti dell’anno.

Negli USA, invece, il 2013 ha visto l’affermazione (o consacrazione, a seconda dei casi) di una folta schiera di autori trenta/quarantenni, a cominciare dal lanciatissimo David O. Russell per proseguire con Paul Thomas Anderson, Harmony Korine, l’attore/autore James Franco, Stephen Chbosky. Una nuova generazione di registi che ha saputo mettere in ombra nomi ben più paludati come Spielberg (il suo Lincoln è sontuoso ma privo di guizzi) e Malick (reduce dallo scivolone di To the Wonder), anche se alcune vecchie glorie hanno saputo reggere il colpo, come Woody Allen con il suo amarissimo e sfolgorante Blue Jasmine.

Sempre oltreoceano è da registrare il vero e proprio exploit del Cile, che ha visto distribuiti anche in Europa almeno tre titoli da incorniciare: l’impeccabile No – I giorni dell’arcobaleno, il trascinante Gloria e il sofferto Violeta Parra goes to Heaven. Opere squisite, complesse e variegate, sintomo di una stagione cinematografica (supponiamo) esplosiva.

Infine, tornando in territorio nazionale, c’è da supporre che chi parla di crisi del cinema italiano, si riferisca esclusivamente ai dati del box office (Checco Zalone escluso, ça va sans dire) o al numero dei film prodotti. Perché per quanto riguarda la qualità delle produzioni nostrane, il 2013 ha saputo sorprenderci.

Se da una parte l’anno è stato segnato dalle uscite, in pompa magna, di maestri conclamati come Tornatore e Sorrentino, dall’altra è importante segnalare debutti stupefacenti e incoraggianti, come quelli eccellenti di Pif, Emma Dante, Luigi Lo Cascio e Valeria Golino, o quello in coppia di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che con il loro toccante Salvo hanno vinto la Settimana della Critica a Cannes 2013.

Ma il vero fenomeno di quest’annata cinematografica è stata l’affermazione di pellicole come Sacro GRA di Gianfranco Rosi, Leone d’oro a Venezia, oppure Tir di Alberto Fasulo, vincitore a Roma, o ancora Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini, passato con successo al Festival di Torino. Opere a metà tra finzione e documentario, ibridi narrativi che mettono in scena il reale, oggetti non bene identificabili che travalicano le categorie usuali alla ricerca di nuovi modi di fare cinema. Una tendenza che potrebbe aprire nuove felici strade per il cinema.

Classifica 2013

1. La grande bellezza di Paolo Sorrentino (Italia, Francia)

L’opera più discussa e controversa dell’anno. Dopo il tiepido debutto al Festival di Cannes, si è presa una rivincita mietendo importanti premi internazionali e sorprendenti consensi di pubblico. E adesso si prepara per gli Oscar. Sorrentino apre il film con una citazione di Céline: “Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte”. La grande bellezza è infatti un viaggio sognante e allucinatorio nella Roma contemporanea, tra festini decadenti e ideali di purezza, tra umane miserie e sprazzi di verità, tra musica disco e il “Dies Irae” di Preisner. A traghettarci attraverso questo flusso di coscienza ininterrotto, che sa far convivere il grottesco e il sublime, c’è Jep Gambardella (un impagabile Toni Servillo), scrittore mondano e disilluso alla ricerca (vana) della “sua” grande bellezza, ma perso dietro a troppi trenini che “non portano da nessuna parte”. Sorrentino fellineggia con grande disinvoltura (nel film c’è tanto La dolce vita quanto 8 ½) e firma la sua opera più ambiziosa, potente, impegnativa, complessa. Un’opera non priva di difetti, certo, ma capace di incantare grazie alla sua dirompente ricchezza visiva. Dolly vertiginosi, composizioni spiazzanti, carrelli tortuosi, zoom interminabili: il regista partenopeo e il fido Luca Bigazzi, alla fotografia, sfruttano ogni virtuosismo tecnico per creare immagini potenti e barocche, di magniloquente bellezza. Donano dunque un respiro epico e una profondità amara ai frenetici caroselli di coatti e parvenu, nobili a noleggio e soubrette derelitte, un’umanità squallida e putrescente che acquista così una statura mitologica.

È cinema che non ha paura di pensarsi in grande. Nel bene e nel male, il film più importante dell’anno.

2. Spring Breakers – Una vacanza da sballo di Harmony Korine (USA)

Ex enfant terrible del cinema indipendente americano, Harmony Korine torna in sala con la sua opera più commerciale e riuscita. Venduto, a torto, come un teen movie provocatorio e pecoreccio (si pensi al sottotitolo italiano), il film nasconde in realtà una complessa e mai banale riflessione su una generazione bruciata e senza morale, figlia di una società a sua volta degradata, avida e superficiale. La vacanza scacciapensieri delle quattro giovani protagoniste, infatti, si trasforma presto in un angosciante vortice di eccessi, corruzione, nichilismo, violenza e morte, al grido imperterrito e disturbante di “Spring Break Forever” (più o meno, “Vacanza per sempre”). Si pensi, ad esempio, alle numerose sequenze sulle masse orgiastiche di ragazzini in balia dei festeggiamenti: i loro corpi guizzanti, le tette, i culi, gli addominali, la birra, le effusioni sessuali, diventano gradualmente sempre più fastidiosi e nauseanti, mentre la narrazione si incupisce verso un tragico finale. Si potrebbe dunque pensare a SpringBreakers come a un originale racconto di formazione, immune da ogni deriva moralistica. Procedendo per dilatazioni, ellissi temporali, salti di montaggio e, soprattutto, ripetizioni, Korine traduce tutto visivamente con uno stile acido e graffiante, sempre ai limiti del kitsch, in bilico tra Godard e i videoclip. E tra colori fluo, musiche techno e immaginario gangster, ci regala almeno una sequenza cult: le protagoniste, mitra e passamontagna rosa shocking, intonano la melensa “Everytime” di Britney Spears di fronte a un tramonto patinato, prima di tuffarsi a capofitto in una girandola di sangue. Il manifesto perfetto di un film estremo e intelligente.

3. Gravity di Alfonso Cuarón (USA)

Una astronauta alla prima missione gravita alla deriva nello spazio, (quasi) completamente sola, cercando di salvarsi. Da uno spunto drammaturgico radicale, che colpisce per la sua apparente essenzialità, Alfonso Cuarón ha costruito il film più genuinamente spettacolare dell’anno. Come nel suo precedente I figli degli uomini, il regista messicano si serve della fantascienza per porre quesiti e affrontare temi cari alla sua poetica: l’angoscia dell’isolamento, la paura dell’abbandono, l’instabilità dell’uomo, tanto fisica (visto il contesto) quanto emotiva, ma anche la sua capacità di cambiare pelle e rinascere. Qui forse la sceneggiatura, scritta in tandem con il figlio Jonás Cuarón, si appesantisce con qualche sentimentalismo e qualche forzatura metaforica di troppo, come il finale che rimanda enfaticamente all’evoluzione della specie umana e alla fertilità femminile (e dell’acqua) quale simbolo di vita. Ma per oltre 90 minuti, Gravity gode di tempi perfetti, di un ammirevole senso della tensione e soprattutto di una profonda propensione all’empatia, che promuove una sincera adesione alla protagonista nella sua lotta per la sopravvivenza, minuto per minuto, millimetro per millimetro: il battito del suo cuore, il ritmo del suo respiro, la sua nausea, le sue paure, i suoi affanni, i suoi dolorosi ricordi, diventano quelli dello spettatore. Fondamentale, per la riuscita finale, l’uso finalmente maturo e consapevole di un raffinatissimo 3D, mai così funzionale e coinvolgente, che Cuarón sa sfruttare con coscienza per portare a compimento una precisa idea di regia, fondata su vedute ardite, movimenti fluidi e sensazionalismi tecnici. Spettacolo puro, da mozzare il fiato.

4. La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (Francia, Belgio, Spagna)

Kechiche, autore sempre profondo e sensibile, affonda il suo sguardo acuto direttamente nella realtà, nella materia viva della sua narrazione. Il regista non si distrae mai, assedia ostinatamente le sue protagoniste alla ricerca della verità di ogni gesto e reazione, valorizzando anche l’imprevisto: nessuna barriera o scappatoia è offerta alle sue interpreti, che non hanno altra scelta se non quella di “essere”, autenticamente, davanti alla pressante macchina da presa. Spiccano i ritratti, cesellati con affetto ma senza indulgenza, di Emma e Adele, cui le giovani interpreti prestano letteralmente anima e corpo, con una forza e un’autenticità prorompenti. Se Léa Seydoux, dal fascino magnetico, si rivela capace di eccezionale duttilità e profondità, la semi-debuttante Adèle Exarchopoulos colpisce per la purezza e la vivacità con cui ha saputo fare del suo personaggio la spinta vitale e il cuore pulsante della pellicola: la chioma disordinata e la bocca sempre socchiusa, famelica di vita, la sua Adele non si lascia certo dimenticare quando svolta l’ultima via. Il film è lei.

5. Django Unchained di Quentin Tarantino (USA)

Tarantino vs. la Storia, di nuovo. Dopo la favola di Bastardi senza gloria, il celeberrimo cineasta statunitense si confronta con la schiavitù del profondo Sud americano per raccontare la mirabolante epopea di Django, schiavo liberato alla ricerca dell’amata perduta. Ne nasce un universo assolutamente inverosimile ma del tutto coerente, popolato da personaggi irresistibili (nel bene e nel male) e sopra le righe, impegnati in dialoghi frizzanti e surreali. Tarantino, autore colto e mai pedante, omaggia con esuberante vigore il cinema western (spaghetti e non), in un gioco che va ben oltre lo sterile citazionismo. Anche se meno corrosivo rispetto al film precedente (si pensi al finale fulminante dei “Bastardi”), lo spettacolo è decisamente pirotecnico e spassoso, costruito su immagini di potenza prorompente e accompagnato da una colonna gustosa e trascinante. Da godere, letteralmente.

6. No – I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larraín (Cile, USA, Francia, Messico)

Ovvero, come una campagna pubblicitaria riuscì a sconfiggere la dittatura. La vicenda, straordinariamente reale, è quella di René Saavedra, ideatore degli spot sul “ritorno all’allegria” che nel 1988 convinsero la popolazione cilena a votare “no” al referendum sul prolungamento del regime di Pinochet. Attraverso una messa in scena accuratissima, che mescola con scioltezza materiale d’archivio e riprese con telecamere d’epoca, a ricreare un’estetica tipicamente anni ’80, il film rende affettuosamente omaggio a questi uomini “che fecero l’impresa”. Ma Larraín e il suo sceneggiatore Pablo Peirano insinuano un secondo livello di lettura, ponendo interrogativi impegnativi sul rapporto tra politica e media, artisti e committenti, creatività e compromesso. Ecco dunque che “No”, opera densa dalla scrittura puntualissima, si trasforma in una riflessione disincantata sui meccanismi del potere, sui rischi del colonialismo culturale di stampo consumista e, soprattutto, sulla manipolazione del consenso di massa. Un film importante e maturo, per difendersi dal populismo imperante.

7. Holy Motors di Leos Carax (Francia, Germania)

Il signor Oscar passa le sue giornate su una lussuosa limousine bianca, guidata dalla fidata Cèline, che lo porta da un appuntamento di lavoro a un altro. Ogni volta che ne scende, interpreta un personaggio diverso: un imprenditore, una vecchia mendicante, un assassino, un mostro subumano, un padre di famiglia… È quasi impossibile spiegare (capire?) la vera natura di Holy Motors. Tributo al trasformismo recitativo del suo protagonista, Denis Lavant? Critica sulla perdita dell’identità e sui ruoli sociali, che ci costringono a indossare delle maschere? Riflessione sull’evoluzione del mestiere del cinema? Vita che imita l’arte o arte che imita la vita? Elegia sull’ineluttabile morte della settima arte? Bizzarra fantasia sul nostro futuribile destino? Tutto e niente di ciò. Leos Carax non concede risposte allo spettatore, ma lo ammalia con questo sogno spiazzante e trascinante. Un vortice convulso di paradossi e nostalgie, una sfilata funerea di personaggi e situazioni impossibili, una stravaganza eccentrica e di straordinario fascino che ha il coraggio di spingere all’estremo le possibilità del mezzo cinematografico.

8. Giovane e bella di François Ozon (Francia)

Nei giorni dello squallore italico delle baby squillo parioline (madri incluse), irrompe un film elegantissimo e glaciale su una diciassettenne di buona famiglia che, senza apparente motivo, decide di prostituirsi. Non lo fa per noia o per ribellione adolescenziale, né certo per necessità. Autore prolifico e vivace (in questo 2013 ci ha regalato anche “Nella casa”, da non sottovalutare), François Ozon non giudica mai la sua protagonista, evitando così banalizzazioni sociologiche e spiccio moralismo. Il regista, anche autore della sceneggiatura, firma una riflessione aspra e sofferente sulle relazioni, un inno al potere e alla seduzione costruito abilmente sul filo dell’ambiguità. Al centro di questo canovaccio, Marine Vacth, bellezza altera e selvatica: una visione. La pellicola è come lei, imperturbabile e spietata.

9. Miele di Valeria Golino (Italia, Francia)

Una ragazza introversa e spigolosa, un ingegnere cinico e disilluso, lo spettro dell’eutanasia. Al suo debutto alla regia, Valeria Golino sceglie di maneggiare ingredienti potenzialmente esplosivi. Ma grazie ad uno sguardo pudico e di ammirevole misura, riesce a non cadere nelle trappole di un soggetto tanto ricco di potenziale quanto rischioso. La sceneggiatura, a firma della regista stessa con Francesca Marciano e Valia Santella, rifiuta l’impostazione del film a tesi, evitando con accortezza qualsiasi enfasi retorica e mettendosi al servizio di due personaggi sfaccettati, eccentrici e profondi. I succosi duetti tra Jasmine Trinca e Carlo Cecchi sono il cuore palpitante del film. Al suo esordio dietro la macchina da presa, la Golino si rivela regista sensibile, capace di parlare per simboli e particolarmente attenta alla composizione di bellissime vedute urbane.

10. Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow (USA)

Ha fatto molto discutere per le scene di tortura e per la ricostruzione degli “interrogatori” all’interno della prigione di Guantanamo, ma quello per cui merita di essere ricordato sono la brutalità e l’asciuttezza con cui la Bigelow è riuscita ad affondare lo sguardo nelle più grandi paure degli USA del terzo millennio, raccontando dieci anni di frenetica e paranoica guerra al terrore. Quasi come in un reportage documentaristico, la sceneggiatura di Mark Boal si concentra tutta sull’azione, senza perdere mai ritmo né tensione emotiva, e bracca incessantemente Maya, l’agente CIA cui si deve la cattura di Bin Laden, seguendone aspettative e frustrazioni. Jessica Chastain, attrice di razza, dà corpo a questa novella Giovanna d’Arco che ha fatto della propria missione un’ossessione: uno dei personaggi femminili più interessanti e inusuali del cinema americano contemporaneo.

Una menzione speciale, in chiusura, per la vera sorpresa dell’anno, Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi (Italia). Non un capolavoro, ma una piccola commedia low budget che brilla per garbo e delicatezza, antidoto alla becera sguaiataggine di Checco Zalone e simili. La regista e i suoi sceneggiatori, Ivan Cotroneo e Francesca Marciano, sono riusciti a dimostrare che non esistono temi ovvi o usurati, se vengono affrontati con finezza e intelligenza, se lo sguardo è fresco e la scrittura arguta. Non è un caso, forse, che alcuni studios americani si siano interessati per un ramake hollywoodiano…

Le fa da contraltare Il grande Gatsby di Baz Luhrmann (USA, Australia), la più grande delusione del 2013. Il cineasta australiano si cimenta in un adattamento carnevalesco del celebre romanzo di Francis Scott Fitzgerald, tutto costruito a colpi di feste spumeggianti, frenetiche corse d’auto, anacronistiche canzonette pop, lusso sguaiato e un po’ cafone. La scelta potrebbe essere interessante, ma Luhrmann sembra non avere il coraggio delle proprie azioni e appesantisce il suo film con un’irritante e didascalica voce narrante che ha il compito di spiegare quello che le immagini non riescono a descrivere. Il risultato è un’opera inutile e mastodontica, che tradisce la profondità malinconica e la prosa ricercata di Fitzgerald senza proporre una reale interpretazione alternativa. E che, peggio ancora, annoia.

Stefano Guerini Rocco

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p&p al 31 Torino Film Festival – parte II

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E poi, sinteticamente, tralasciandone molti tralasciabili (tanto per qualità che per supposta irreperibilità):

Au nom du fils: Kill Bill belga in salsa pretepedofila. Mamma ultracattolica a cui muoiono prima il marito poi il figlio (molestato dal parroco) si vendica di tutti i preti pedofili su cui riesce a metter mano. Una strage semiseria che offre (pochi) spunti di riflessione e (parecchio) divertimento nerissimo.

A woman and war: erotismo malato nel Giappone della Seconda Guerra Mondiale, sulla scia di Wakamatsu (il regista, Junichi Inoue, è un suo allievo); intrecci fetish sessuali di violenza-merda-sangue con cui alcuni personaggi (uno scrittore fallito, una prostituta, un soldato congedato per aver perso un braccio in battaglia) tentano di superare il trauma della guerra; o forse solo di non annoiarsi mentre la gente attorno muore, sul fronte o sotto le bombe, senza che si possa far nulla. Orgoglio e tradizioni di un paese schiantato dal dubbio del conflitto, con della sorprendente ironia. Non basta a farne un buon film.

The husband: Bruce McDonald si conferma prolifico autore consapevolissimo della gittata del suo fuoco e perciò onesto e perciò lodevole. Tradotto: McDonald – un habitué del TFF – è cosciente di non essere un grande regista e di non poter anelare a sfornare un capolavoro dietro l’altro. Così dedica la sua sincerità alla produzione di modesti film gradevoli e disimpegnati (ma non per questo stupidi). The husband non fa eccezione, muovendosi sul triangolo lui-lei-l’altro: solo che l’altro ha quattordici anni e la moglie di Henry è finita in galera, lasciando Henry alle prese con la propria vita e quella del loro bimbo. Alla vigilia della scarcerazione di Alyssa, Henry è assalito dalla gelosia, dagli interrogativi, dalle recriminazioni, dalle accuse. Commedia agrodolce che si lascia guardare con risatine e lacrimuccie in agguato.

Big bad wolves: ancora pedofilia per un thriller israeliano sponsorizzato da Tarantino. E proprio al Quintino internazionale pare ispirarsi nel somministrare allo spettatore quantità eguali di pugni nello stomaco e farsa cinica, sulle quali un mite professore viene sospettato di aver rapito e ucciso alcune ragazzine e viene a sua volta rapito e torturato dal padre di una di queste e da un poliziotto manesco. Non male, non esaltante.

Canibal: killer antropofago spagnolo attraverso una lente mitteleuropea. Canibal è un miracolo: due ore di film, di silenzio, di sussurri, di recitazione trattenuta, zero sangue, zero compiacimento macabro, inazione, ecc. Eppure Canibal è tremendamente tensionifico, fa prudere mani e piedi, e serra la gola. Sfiorando la vita privata di Carlos, sarto cannibale che si innamora della sorella di una delle sue vittime, entriamo in una dimensione algida in cui la pragmatica dell’omicidio è assimilabile a ciascun’altra banale azione quotidiana. Spunta Haneke di tanto in tanto, ma senza invadenza, e Canibal è promosso, inaspettatamente, a pieni voti.

V/H/S 2: il fanatico dell’horror esulta dinnanzi al secondo capitolo di questa serie (il primo fu presentato al TFF l’anno scorso). Stile found footage; episodi di venti minuti l’uno – come nei migliori Creepshow – dei quali uno abbastanza insipido (rapimenti alieni), uno che sa di già visto ma che è davvero pauroso (un occhio bionico che percepisce spettri), uno splatter demenziale (zombie movie dal punto di vista degli zombie) e un minicapolavoro di terrore in cui un manipolo di documentaristi ha il privilegio di riprendere l’interno del quartier generale di una discussa setta religiosa solo per scoprire che il culto che vi si pratica è decisamente demonico.

Historia de la meva mort: Casanova incontra Dracula. Con una simile premessa ci si aspetterebbe una specie di parodia, mentre il film in questione è quanto di più ambizioso e ”alto” (qualunque cosa voglia dire, ammesso che voglia dire qualcosa) visto al festival. Lunghissime inquadrature fisse, dialoghi pseudointellettuali intervallati da altrettanti lunghissimi (e pseudointellettuali) silenzi, la pretesa di confrontare e far scontrare due epoche e due correnti, l’illuminismo e il romanticismo. Tuttavia non si può liquidare come il prodotto altezzoso di un narciso qualunque. C’è del metodo e c’è dell’autorialità in questo film; il che non per forza è un bene ma esclude comunque l’artisticità gratuita. Il giovane regista Albert Serra ha girato un film non facile, fondato sui tempi morti, senza alcuna attrattiva estetica o ritmica, probabilmente un film che per essere valutato con correttezza va visto e rivisto più volte, giacché si intuisce la presenza di un nonsoché dietro la coltre di noia disarmante della prima visione. Il problema principale è che Historia de la meva mort, che esso serbi o meno un reale concetto, risulta del tutto anacronistico senza volerlo essere.

Wrong cops: Mr. Oizo colpisce ancora. L’anno scorso ci aveva pensato con Wrong, quest’anno ci sbatte in faccia un’accozzaglia di poliziotti cretini, rudi, avidi, perversi, unti, ciccioni, che spacciano droga dentro topi morti, hanno un passato da fotomodelli porno-gay, sono ossessionati dalle tette, ascoltano esclusivamente (e compongono!) musica acid-tekno… Wrong Cops è un concentrato di stravaganze mai rimarcate, in modo da creare un effetto straniante; i personaggi che compongono il mondo filmico (che è lo stesso di Wrong, e oramai si può dire sia il mondo-sfondo che Oizo ha plasmato per il suo cinema lisergico) sono tutti estremamente coerenti con se stessi e con il mondo stesso; solo che abitando un mondo corrotto dall’assurdità, sono assurdi per natura. Di un gradino inferiore allo sfrenato coacervo di Wrong, Wrong cops è un gioiello di comicità illogica.

Delle serie televisive:

Southcliffe è l’affresco corale di una cittadina della provincia inglese nella quale il matto del paese, che nessuno ha mai capito se sia un reduce di guerra o no, un bel giorno imbraccia fucili e mitragliette e comincia a gironzolare sparando a tutto ciò che si muove. Tramite gli occhi di un famoso giornalista che a Southcliffe ci è nato e cresciuto (e da cui è scappato appena potuto) indaghiamo sui perché e sui percome della folle iniziativa assassina, scoprendo così (Twin Peaks docet) la sporcizia nascosta sotto le unghie degli abitanti del posto, i legami segreti, le verità scomode. Con stile gelido e incursioni nel dramma sociale. Notevole.

Non brilla invece Top of the lake, scritto e parzialmente diretto da Jane Campion (irriconoscibile la sua mano). Anche qui protagonista la popolazione di una cittadina della Nuova Zelanda, scossa dalla sparizione di una ragazzina incinta; anche qui le rivelazioni e la morchia inconfessabile che, dissotterrata, serpeggia fra gli abitanti. Con in più una comunità hippy di sole donne in fuga dalla civiltà (capeggiate da una bofonchiante Holly Hunter) che si intromette nelle indagini della bella detective di turno. Peter Mullan bruto vecchiaccio capellone è l’unico a salvarsi in una costruzione che fa acqua da ogni dove, ricca più di macchinosità e stereotipi che di guizzi narrativi e che malgrado vada avanti per sei episodi di un’ora l’uno, pare addirittura frettolosa. Pollice verso.

Menzione d’onore per un vecchio film (uno dei tanti di cui si componeva la sezione revival di quest’anno dedicata alla New Hollywood a cavallo tra i ’60 e i ’70): Little Murders, di Alan Arkin con Elliot Gould – al suo vertice – nei panni di un apatico fotografo che cede alle lusinghe di una esuberante ragazza e si concede al matrimonio pur ”non sapendo cos’è l’amore”; in un clima di paranoia totale dove per le strade di New York si viene colpiti da proiettili vaganti come mosche, o si viene aggrediti senza causa. Una satira dall’impianto teatrale – ma non perciò poco funzionale su grande schermo -, malinconica, a tratti grottesca, a suo modo perfetta.

31%. È questo l’incremento con il quale si chiude la trentunesima edizione del Torino Film Festival. Più del trenta percento di incassi rispetto all’anno passato, sale sold out, file interminabili. Se sia tutto merito del neodirettore Virzì non è dato sapere; e anzi, io non lo credo. Virzì si è trovato in grembo un congegno già collaudato, in fase incrementale da anni, e ha avuto la saggezza di non alterarne la struttura. Non sono state le pochissime modifiche alla programmazione (l’apertura al cinema mainstream europeo della sezione Europop; la presentazione di alcuni serial televisivi; la comparsa di un’orchestrina di strada a scortare gli ospiti illustri) il motivo del successo crescente del TFF. È stata l’impostazione da tempo consolidata, sobria, eterogenea, attentissima ai film e disdegnante qualsiasi riflettore da tappeto rosso da cui sembrano sempre più abbacinate Venezia e Roma. La riconferma di una formula che, visti i dati impressionanti perfino in piena crisi, meriterebbe più supporto, finanziario e mediatico.

I film, ebbene sì. La tirata quassù non significa certo che il TFF sia una spocchiosa manifestazione cinefila elitaria; e non significa altrettanto che ogni pellicola del festival sia decente. Ma ognuna di esse è scelta e presentata con cognizione di causa, dalla più commerciale alla più inaccessibile, dalla più blasonata alla più indie.

Applausi, in attesa della 32esima edizione.

Matteo Pennacchia

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p&p al 31 Torino Film Festival – parte I

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Terminata fra le ovazioni unanimi la trentunesima edizione del Torino Film Festival; tanti i film, pochi quelli che saranno distribuiti in Italia, pochi i bellissimi, molti i buoni, pochissime le schifezze.

Fra i volti noti, quelli a cui sarà data la possibilità di mostrarsi nelle sale nostrane:

Inside Llewyn Davis: l’ultima fatica dei Coen, segue le vicissitudini del classico sfigatissimo personaggio-Coen, un po’ meno inetto e stupido del solito ma sempre in balia di un destino che appare già scritto, scandito da piccoli avvenimenti (la fuga di un gatto, qualche commento poco carino durante un concerto, un preservativo bucato) che fioriscono in grandi conseguenze. Llewyn è un cantante folk che tenta di emergere negli anni ’60, lottando contro la povertà, la sfortuna, Bob Dylan, il suicidio del suo sodale, i produttori musicali mentecatti; evenienze che lo portano più volte all’idea di accantonare i sogni di gloria: ma in favore di cosa? Tra un’apertura e una chiusa tragicomiche piuttosto convenzionali spicca una parte centrale ipnotica, un’odissea di disincanto surreale, un interminabile viaggio automobilistico immerso in un’oscurità quasi onirica, empia di un eccezionale John Goodman, disgustoso musicista tossicomane.

Only lovers left alive: Jarmusch si presta all’horror vampiresco; o meglio, lo invade con la sua antipoetica rock’n’roll. Protagonisti Adam e Eve (sic!), vampiri millenari che chiamano ”zombie” gli esseri umani e che, schizzinosi e raffinati quali sono, hanno deciso di non bere mai più sangue direttamente dalla gola delle vittime. Adam è un depressone che compone gothic rock strumentale, Eve (Tilda Swinton, magnifica), sua moglie, prova a tirargli su il morale; da qui si dipana una catena di microvicende in cui ciò che emerge è la critica disillusa alla contemporaneità – in ogni sua accezione, dalla scientifica alla tecnologica alla musicale -, rea di non usufruire appieno delle proprie risorse. Il tutto condito dagli stilemi e dalle icone di Jarmusch (su una parete della casa di Adam troviamo i santini di, in ordine sparso: Poe, Lovecraft, Tesla ma anche Neil Young e Joe Strummer, e così via). Non il miglior Jarmusch, però sfizioso e divertente.

All is lost, di J.C. Chandor: cioè Robert Redford versus il Mare. Oppure versus il Cinema. Nel senso che Redford è l’unico (l’unico) attore del film e in centodieci minuti dice sì è no cinque frasi. Il resto del tempo lo passa cercando di salvarsi dalla furia dell’oceano che prima gli affonda la barca a vela e poi fa di tutto per trascinarselo negli abissi. Risultato? Il settantaseienne Redford vince, non dico se sul Mare per non fare spoiler, ma di sicuro sul Cinema: nonostante alcune ripetizioni e un briciolo di lungaggine (venti minuti in meno non avrebbero guastato), e forse un commento musicale fuori luogo, All is lost è teso e angosciante, e il ligneo Robert fa un figurone con un’interpretazione rischiosa che lui invece rende credibile e intensa, senza enfasi, con le giuste dosi emozionali.

Fra i film cui potrebbe essere data un’occasione distributiva italiana:

Frances Ha, di Noah Baumbach (collaboratore di Wes Anderson e regista de Il calamaro e la balena e di Greenberg): un’intrusione in b/n, retrò quanto basta, nella vita della ventisettenne Frances, aspirante goffa ballerina di New York che ha una migliore amica che si fidanza e l’abbandona, che cambia appartamento di anno in anno, che va a Parigi due giorni alla ricerca di se stessa o in fuga da se stessa, che diventa cameriera, che non riesce a essere ”frequentabile” dai ragazzi, che non vuole crescere perché ”a ventisette anni si è già vecchi”. Un mucchio di scenette sardoniche, amare, retoriche, simpatiche (che aggettivo orribile), intime, sempre sull’orlo dell’Allen che fu (o perlomeno, di una sua versione giovanilistica e hipster) ma senza Diane Keaton; il che fa combaciare quest’orlo con quello dell’irritante. Obiettivamente è un film che riesce nelle sue intenzioni; dunque sospendo ogni giudizio. Se si gradisce una certa levità un tantino snob, del genere esistenzialismo che non si prende sul serio, Frances Ha è buono.

La danza della realtà, di Alejandro Jodorowsky: inclassificabile, ingiudicabile. L’infanzia di Jodo, le disavventure politiche del padre di Jodo, la procace madre di Jodo, storpi canterini, dittatori amanti di cavalli, guru buffoni; nonsenso, simbolismo, poesia, religione, trash. Non esistono parametri per questa pellicola. L’unico parametro è Jodorowsky stesso, che gira con un tale menefreghismo della tecnica cinematografica da essere sublime, commovente. Inquadrature sbagliate, angolazioni impossibili, controcampi a casaccio; come nei suoi non-film precedenti, il cinema è solo uno strumento in più dei tanti (fumetti, libri, tarocchi, teatro…) di cui Jodo si serve per esprimersi, sottomettendo il mezzo ai messaggi più radicali, al suo miscuglio psicomagico di razionalità ed esoterismo, di superstizione e materialità. In sostanza, La danza della realtà è una porcheria, per chi non conosce e non apprezza le ambivalenze, il carisma, la profondità comica di Jodorowsky; ed è una meravigliosa porcheria per i fan.

Matteo Pennacchia

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Polanski sul lettino: Venere in pelliccia

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Esterno sera. Un viale alberato, fronde spoglie e grigie, spettrali, lampi, tuoni, quella che si appresta a essere la tradizionale notte buia e tempestosa. Un teatro fatiscente, le porte d’ingresso si aprono da sole, qualcuno, qualcosa irrompe all’interno e lo spettacolo inizia.

A tutti gli effetti la prima percezione è la spettacolare: Venus in fur è una macchina intrattenitiva esemplare. Calda, incalzante, comincia a tendere l’elastico tensivo da subito e per tutta la durata continua a tenderlo, poco a poco, a tenderlo, a tenderlo sempre più, così che il rilascio finale è una frustata ma – data la superficie sadomasochista – è una frustata così deliziosa da desiderarne immediatamente un’altra, e un’altra, e un’altra.

Due attori, un unico spazio scenico, novanta minuti che durano poco. Emmanulle Seigner è Wanda, attrice volgarotta tutta parolacce e chewingum che arriva in ritardo all’audizione per la parte di Wanda nell’adattamento teatrale di Venere in pelliccia scritto e diretto da Thomas, Mathieu Amalric, alter ego psicofisico di Polanski, il quale spossato e riluttante concede una chance a Wanda. O, per meglio dire, è Wanda a impossessarsi della chance, dando il la a una sfilza di capovolgimenti di poteri (regista-attrice) e ruoli (interprete-personaggio) e dimensioni (rappresentazione-realtà). Il tema della finzione nella finzione, della recita nella recita, non è di sicuro nuovo, al cinema, in teatro, in letteratura, ma Polanski se ne serve con perizia rara, moltiplicando le ottiche e i piani e i rispecchiamenti. Venus in fur (film) è l’adattamento cinematografico di Venus in fur (pièce teatrale) in cui Venus in furs (romanzo) è adattato in Venus in fur (pièce teatrale). Una scala già di per sé ubriacante; ubriacatura intensificata dal continuo saltellare di copione (cinematografico) in copione (teatrale) senza specificazione: il provino di Wanda diventa un intersecarsi infinito di frasi sincere e battute posticce, e di frasi posticce e battute sincere, dove si confonde sempre chi sia a parlare, quale delle due Wande, Thomas il regista o Severin il personaggio, chi si rivolge a chi e su quale argomento, il testo teatrale, il romanzo, la vita privata.

Una struttura narrativa non innovativa, d’accordo, che altrove sarebbe un espediente stucchevole (della serie: scoperta dell’acqua calda) mentre qui è il fulcro che permette a una mise-en-scène potenzialmente noiosissima di essere, al contrario, vertiginosa; un gioco di inganni per nulla presuntuoso o farraginoso, come uno scherzo piuttosto elaborato fattoci da un amico. I botta e risposta fra Wanda e Thomas/Severin – all’inizio concernenti critiche e considerazioni sul senso della pièce, sulla qualità della sceneggiatura, sulla locazione degli attori sul palco, sull’illuminazione di scena – si fanno sulla via più aggressivi, tracimano dal verbale nel corporale man mano che i due si perdono nell’ambiguità, che l’esterno si tramuta in interno, che Wanda assume una posizione di comando, poi una misteriosa aura metafisica, poi una deità, e invece Thomas si rimpicciolisce, rientra in sé, subisce una crisi.

Fin qui l’intrattenimento. Una regia parsimoniosa e incredibilmente consapevole del posto in cui muoversi (peculiarità della filmografia di Polanski, specie quando si tratta di posti chiusi, appartamenti, palazzi, stanze, di cui sa esaltare l’effetto claustrofobico senza patirlo); una sceneggiatura improntata su una trazione progressiva dove la fondamentale, apparente staticità dell’azione (in realtà composta da una miriade di piccole azioni colte nella coda dell’occhio) è ritmata da dialoghi precisi, ironici, puntuti, inquietanti, tappe di un’escalation che legittima un – pessimo – luogo comune: l’incollatura alla poltrona; due attori visibilmente a loro agio, stimolati dalla sfida, dalle sfumature, dalla molteplicità schizofrenica loro richiesta. Un’ossatura che vale da sola il biglietto, ricoperta da una succosa ciccia simbolica e concettuale, neanche troppo celatamente psicanalitica.

Il romanzo di Sacher-Masoch e l’annesso sadomasochismo, la seduzione, gli urti uomo-donna, una revanche femminista, la disparità e la lotta fra classi e sessi evocata più volte da Wanda nel provocare Thomas su quale sia l’anima del suo adattamento – il suo significato recondito: tematiche riscontrabili ma che non costituiscono il profondo di Venus in fur, cosa che lo stesso Thomas sbandiera ripetutamente. Perché se il conflitto è, come nella maggioranza dei film di Polanski, non soltanto uno snodo narrativo ma il sistema nervoso centrale del racconto, in questo caso non è il conflitto uomo-donna – veicolato dalle derive sadomaso di dominio e sottomissione alle quali lo spunto di partenza darebbe adito -: è il conflitto con se stessi.

Ciò non toglie che le suddette meccaniche conflittuali sessuali e la perversione derivata siano presenti, con tanto di latex nero, stivali a tacco altissimo, travestitismo, assoggettamenti, torture, eccetera, tutto il campionario; sono però viatici, artifici allegorici (quanto lo è Wanda nelle sue graduali onniscenza e imposizione) tramite cui Thomas viene dissezionato, dubitato, perturbato: bastano pochi tocchi a Polanski e ad Amalric per disegnare un personaggio che rifiuta ogni confronto con l’alterità (”Perché quando si parla di qualcosa bisogna sempre fare riferimento a qualcos’altro?”, sbotta a un certo punto, e il ”qualcosa” rimanda a un ”qualcuno” e il ”qualcuno” rimanda a lui), che ha eretto una personalità egoriferita nella quale non concede a influenze esogene di confluire, nella quale le relazioni con gli altri (e con l’altro sé) non hanno valore né costruttivo né connotativo. Arrogante (”Ho scritto un capolavoro e nessuno lo metterà in discussione!”), narcisista, è incapace di decentrare il proprio punto di vista; almeno finché non arriva Wanda con le sue maniere spicce, la sua franchezza maliziosa, Wanda, su cui Thomas proietta se stesso, proietta le sue debolezze, le sue incrinature, restio ad ammetterle su di sé, in sé, ma prontissimo a cucirle su qualcun altro sul quale ha dominio (l’attrice dominata dal regista, la donna dominata dall’uomo) e che di conseguenza lo rende – illusoriamente – pieno padrone di sé e delle sue debolezze e delle sue incrinature. Ma Wanda ribalta la situazione e pone Thomas difronte a Thomas, dapprima rendendolo schiavo, oggetto passivo, con gran sollievo di Thomas (passivo dunque finalmente libero dalla responsabilità di sé) che cede, abbandona l’ingessatura intellettiva, diviene se stesso senza atteggiamenti pre-auto-imposti, in ciascuna sua componente intima, in una gamma che va dalla depravazione alla fragilità alla gioia; e dopo un crescendo in cui tutte le falle dell’identità di Thomas riaffiorano, Wanda lo spinge al vertice della ”terapia” trasformandolo nell’altro da sé per antonomasia: la metà di sesso opposto. Lo traveste e lo trucca da donna, il sovvertimento supremo, la spersonalizzazione. Ma Thomas è troppo legato al suo essere maschio (letteralmente: Wanda lo immobilizza alla sagoma di cartone di un enorme cactus evidentemente fallico), al suo essere se stesso ciecamente, reciso da se stesso in quanto reciso dagli altri e dall’altro. Non gli resta che osservare impotente il balletto squinternato di Venere, condannato per sempre – o fintanto che non tollererà che solo dal di fuori ci si può guardare in interezza.

Ovvio, questa è un’interpretazione speculativa e semplificante (e pure un tantino prosaica); origliando all’uscita della sala ho sentito le opinioni più disparate. L’ennesima riprova della forza della cinema polanskiano in toto – o quasi: la pluralità dei livelli di godimento. Senza scomodare idiozie come ”capolavoro” o ”genialità”, Venus in fur è Polanski (Amalric, peraltro, in molti lo hanno notificato, è il sosia di Roman) che si alterna con noi sul lettino e sulla sedia, nella condivisione di disagio (sul lettino) e potenza (sulla sedia).

Matteo Pennacchia

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The Kings of Summer: un coming-of-age un po’ diverso

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Da ragazzi, tutti hanno ricercato sé stessi e il proprio ruolo nel mondo, spesso combattuti tra una ricerca di adultità e la nostalgia di quella libertà dalle responsabilità della vita che caratterizza gli anni dell’adolescenza. Ed è proprio su questo che su basa il leggero e piacevolissimo The Kings of Summer, film esordio di Jordan Vogt-Roberts, un classico coming-of-age senza sentimentalismi facili, ma che attraverso l’ironia ci mostra tre ragazzi alla ricerca del proprio essere adulti.

Joe (Nick Robinson), è sempre più frustrato dai tentativi di suo padre vedovo, Frank (Nick Offerman), di gestire la sua vita. Il mantra “my house, my rules” viene preso alla lettera e Joe decide di fuggire nel bosco con il suo migliore amico, Patrick (Gagriel Basso), e uno strano ragazzo di nome Biaggio, che è con loro perchè “Non sono riuscito a liberarmi di lui, e ho paura di come potrebbe reagire”. I tre hanno intenzione di costruire una casa lì in mezzo al nulla e vivere senza responsabilità e genitori. La convivenza, iniziata con grande convinzione, resisterà alle sfide del tempo e delle prime cotte? I tre ragazzi infatti, convinti di poter divenire padroni del proprio destino, si scontreranno con una realtà ben diversa da quella dei loro propositi e tutto ruota attorno alle partite a Monopoli, momenti di svolta e di rottura nelle famiglie. Se prima Joe si trova dalla parte offesa, nella seconda partita invece è lui la parte che offende, comportandosi esattamente come aveva fatto il padre nei suoi confronti. Ma se dopo la prima partita aveva deciso di scappare e liberarsi della famiglia, qui invece si trova solo e sono gli altri a scappare. Appare evidente che pur essendo liberi dalle regole dei genitori, l’estate idilliaca come era stata pensata sulla carta diventa rapidamente una prova di amicizia, e ogni ragazzo si scontra con il fatto che la famiglia, che si tratti di quella in cui si nasce o quella che si vuol creare, è qualcosa da cui non si può prescindere. Non c’è niente da fare: Joe può scappare lontano e nascondersi nei boschi, ma è ovvio che la geografia non è una risposta alla sua ricerca perchè il disagio, la rabbia li ha dentro e se li porta dietro. Ecco perchè pur essendo nei boschi Joe si comporta poveramente, ripetendo i gesti del tanto odiato padre senza realizzare che deve prendersi le responsabilità del proprio comportamento. Essere un uomo, essere un adulto semplicemente non vuol dire fare quello che voglio, ma fare quello che devo ed essere consapevole di quello che faccio, senza cercare quelle terribili giustificazioni che cominciano con “sì, ma…”. L’esempio da seguire per Joe forse potrebbe essere proprio il suo amico Patrick che sembra completamente a proprio agio con sè stesso e non si comporta in maniera costruita, ma è naturalmente quello che è. Bellissima è a questo proposito la sequenza slegata dal resto dove vediamo Patrick suonare il violino, da solo, in perfetta armonia con la natura. E’ un’immagine bellissima e Joe ne è geloso, tanto che la gelosia porta al punto di rottura. Si dice che un albero che cade nel bosco non faccia rumore, ma qui invece di rumore ne fa parecchio e le cose precipitano fino a che Joe, libero dalla rabbia che ha finalmente esteriorizzato, non è pronto per ricostruire sé stesso.

Fin’ora non c’è nulla che potrebbe rendere diverso questo Kings of Summer da tanti altri coming-of-age, ma la bellezza del film è data dalla regia di Vogt-Robert che spesso è evocativa, al limite del surreale e che inserisce la vicenda in un tempo sospeso. Il montaggio e l’uso del ralenti sono gli strumenti per giocare con il tempo della narrazione e King of Summer ci regala alcune scene davvero emozionanti con il regista che ha l’occhio per immagini inusuali, valorizzando il panorama boschivo dove i ragazzi passano le giornate. Il tono del film è leggero e ilare, sprigionando un senso di gioventù e la camera danza tra immagini in ralenti di pugni (prove per testare i limiti fisici dei ragazzi) e salti nel vuoto, nell’acqua, sui tubi. Un perdersi in slow-motion tra la natura selvaggia.

Lo humor brillantissimo che accompagna tutto il film aumenta ancora di più questo senso di leggerezza e aumenta la profondità del film stesso. Il vero protagonista comico è Biaggio con alcune battute memorabili che lasciano però sempre intravedere un discorso più profondo. Perchè interrogarsi tanto su chi sono o cosa faccio? Perchè dare valore a tutto e vivere male? La risposta di Biaggio è: sono quello che sono, e tutte le definizioni vengono svuotate, in primis quella dell’essere gay.

The Kings of Summer si presenta quindi come un film riuscito dove lungo il viaggio alla ricerca di se stessi non ci sono battute d’arresto e ogni emozione appare cruda e giustificata, mai stucchevole. E Biaggio porta il tutto su una linea di imprevedibilità, mantenendo lo spettatore sempre attento.

Michele Comba

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Corpus et anima Lindsay: The Canyons

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29132The Canyons è un film indegno ma non abbastanza da essere godibile. Non raggiunge il confine di ignobiltà superato il quale le cose si fanno, loro malgrado, interessanti. Scritto da Bret Easton Ellis, diretto da Paul Schrader (che quando dirige è sempre meno ispirato di quando sceneggia – chi ha detto Taxi Driver? Toro scatenato?), co-prodotto e interpretato da Lindsay Lohan, è un fallimento d’intenti e di risultati, dove in qualche caso l’inconsapevolezza dei secondi è curativa delle ambizioni dei primi.

La trama è prototipica della ragnatela di tradimenti, ipocrisie, immoralità, superficialità cui Easton Ellis ha abituato (e nel quale si è aggrovigliato lui stesso e continua a girare in tondo, da American Psycho in poi): giovani, belli e ricchi ma anche/perciò vanesi, arrivisti e annoiati. Tara sta con Christian ma ha una storia con Ryan che sta con Gina che è la segretaria di Christian che scopre l’infedeltà di Tara e si vendica di Ryan. (Per la cronaca: Christian è il pornoattore James Deen. Un pornoattore, e la sua performance è la più valida, e obiettivamente non è affatto valida. Da cui la misura dei talenti in ballo.)

Intenti, ambizioni, risultati: qui di ambizioni non c’è ombra e gli intenti, seppure modesti, falliscono uno ad uno. The Canyons fallisce nell’essere un thriller: neanche un accenno delle tensioni di genere, sopperite da svariati accenni di psicoapprofondimento dozzinale. Fallisce nell’essere una soap opera o una pornografia: ha pochi elementi dell’una e pochi elementi dell’altra, emozioni amplificate ma non così radicalmente da stilizzarsi in melodramma, una manciata di organi genitali, un po’ di sesso, una tetta qua, un pisello là, un’orgetta, paccottiglia da seconda serata Mediaset e alzate di spalle. Fallisce nell’essere un’analisi generazionale o una diagnosi culturale. Fallisce nell’essere un film sul cinema, o meglio sulla sua morte decretata dall’avvento di nuovi media più agili (nella loro fruibilità) e più accessibili (nella loro fattibilità): non bastano fotogrammi random di vecchie sale cinematografiche in disuso, o che i personaggi abbiano aspirazioni ora attoriali ora produttive, o che l’ambiente sia quello dell’industria-cinema moderna, eletta a emblema di frivolezza, di falsità, di avarizia, di logica del profitto. Fallisce nell’essere Ellisiano: i personaggi sono apatici, okay, tuttavia non a sufficienza per essere vampiri; la loro deplezione morale non giustifica la violenza dell’epilogo, del tutto gratuita, gratuità che non genera inquietudine (legata all’arbitrio), come spesso accade (ad es. Funny Games), ma solo incoerenza. Fallisce eccetera. Chiara l’antifona.

Gli ultimi due fallimenti (film sul cinema e anonimato non voluto) sono imputabili all’impressione che Easton Ellis e Schrader non siano arrivati a un compromesso su ”cosa” e su ”di chi” dovesse essere il prodotto finale. I cliché dello scrittore provano a surclassare in continuazione l’esercizio metaforico (o forse essenzialmente biasimante) del regista e viceversa, privando dunque il film non solo di autoreferenzialità – degli autori o del film stesso; privazione non negativa di per sé – ma anche di qualsiasi referente. E inoltre, dunque: di motivi d’attenzione.

Arriva in automatico il grande problema: The Canyons vive di presenze quando invece dovrebbe vivere di onnipresenze. Dovrebbe fondarsi sull’onnipresenza degli iPhone e dei computer, dispositivi che sconnettono esponenzialmente gli individui dal(la nozione di) messaggio, e di riflesso dalle relazioni e di riflesso dall’identità e di riflesso dall’umanità (e via dicendo); invece essi sono solo presenti. Dovrebbe vivere dell’onnipresenza dei temi cari a Easton Ellis, per quanto abusati e un po’ anacronistici, la rimozione della felicità e di ciascun sentimento che denoti l’esistenza della sua controparte – la tristezza -, il fermarsi all’involucro carnale per paura di scoprirlo vuoto all’interno, bla bla bla; invece essi sono solo presenti. Dovrebbe vivere dell’onnipresenza della personale, egotica concezione del cinema di penitenza-e-salvezza di Schrader, che ha sempre investito il medium del duplice ruolo di confessore e redentore (in modo similare ad Abel Ferrara); invece essa è solo presente. Dovrebbe vivere dell’onnipresenza dell’amatorialità, dell’incapacità dell’intero cast di accreditarsi il plausibile o – assodata l’incapacità – il ridicolo; invece essa è solo presente. Tutte queste presenze, che si smorzano l’un l’altra, si inginocchiano alla presenza (e alla latente onnipresenza) più eclatante: quella di Lindsay Lohan. L’errore marchiano della pellicola.

Se Easton Ellis e Schrader sembrano battibeccare sull’imprinting del film, la sola ”cosa” (e il termine non è usato a vanvera) su cui paiono d’accordo è Lindsay e il suo impiego a beneficio dell’economia sia narrativa sia effettiva. Bella mossa. Attuata pessimamente.

Il parallelo immediato è con il Wrestler di Mickey Rourke. In The Wrestler non vediamo Randy The Ram lottare sul ring: quello è Rourke. Aronofsky fu molto abile a canalizzare la sofferenza della Persona Rourke nel Personaggio The Ram, relegando quest’ultimo a base d’appoggio. Anche in The Canyons non vediamo il Personaggio Tara: vediamo la Persona Lindsay Lohan (tentare di) recitare il Personaggio (esplicitamente modellato sulla Persona). Il malinteso di sceneggiatore e regista è stato considerare la Lohan già un personaggio, la mediazione scandalistica di una persona, colei che tutti bene o male conosciamo grazie ai paparazzi, alle gaffes, ai ricoveri nei centri di riabilitazione. Non l’attrice, non la persona: la sua incarnazione mediatica. E hanno provato a sfruttare soltanto questo aspetto, un feromone afrodisiaco e volgare; non hanno capito che integrando l’epitesto al registro testuale la vicenda scialba di The Canyons avrebbe avuto riscatto, magari addirittura senso. Perché come The Wrestler è satollo di Rourke (del suo corpo, del suo sudore, del suo sangue, delle sue lacrime, dei suoi rimorsi) e lo tiene sempre in scena e sempre inquadrato e – lì sì – volutamente sul rasoio tra pathos ridicolo e dolore plausibile, così The Canyons avrebbe dovuto riempirsi di Lindsay Lohan, senza spartire il punto di vista fra tutti i personaggi, dei quali, è chiaro sin dall’incipit, non ce ne frega un cacchio. Nei troppo pochi momenti in cui c’è, è la Persona Lindsay Lohan a regnare sul film, sulle immagini, a infrangere il contesto, imponendosi sulle pretese dei demiurghi Easton Ellis e Schrader, schiavizzando pure il loro conteso protagonismo. Per questo Lindsay Lohan, come il Wrestler di Rourke, dovrebbe essere sempre in scena, dovrebbe essere nocciolo e polpa filmici, lei e la sua indole naturalmente Ellisiana, lei e il suo essere la declinazione rovesciata (non inedita, per carità) del mito spettacolare soldi-bellezza-fama, lei e la sua recitazione atroce. Il corpo di Lindsay doveva ingozzarci fino a scoppiare, doveva essere espanso oltre i perimetri dello schermo, mettere in questione le frontiere tra fiction e realtà, e ancora tra realtà e realtà, e tra fiction e fiction (che è ciò che invano cercano di fare alcuni dei romanzi di Easton Ellis); quel corpo vero, bellissimo e orribile, laido, erotico, imperfetto, su cui tutto il vissuto, l’anoressia, la bulimia, l’alcolismo, le droghe, la chirurgia estetica, il deterioramento della celebrità, non sono solamente riconoscibili ma sembrano perpetuamente in corso quando lo guardiamo; il volto sfatto e strafatto di Lindsay che finge di piangere, che finge stupore, che finge noia, che finge preoccupazione, che finge godimento, che finge se stesso essendo se stesso, e che per tre o quattro secondi guarda la platea frattanto che costringe il fidanzato – del personaggio che tenta di impersonare – a un rapporto omosessuale, elementare traslato della sua illusione di stringere in pugno il pubblico; e guarda nella macchina da presa, la platea, guarda me che la guardo e ne sono incantato e disgustato, intenerito, e la irrido e la venero per la spudoratezza della sua pochezza. Ecco cosa The Canyons avrebbe dovuto fare, il degrado che avrebbe dovuto mostrare e significare, accantonando le guerre intestine fra caratteri autoriali inconciliabili, il conformismo della trasgressione, le toccate-e-fuga psicologiche, emotive, sociologiche: no, tutto questo doveva essere sacrificato a Lindsay, alla peluria in controluce di cui è ricoperta, alle lentiggini sulle spalle, le labbra gonfie, gli zigomi marziani, il ventre convesso; la convinzione delle sue doti inesistenti, a testa bassa contro l’oggettività, che ce la restituisce nuda e ideale – e ignorante – nipotina degli antieroi di Herzog, che si lanciavano addosso all’impossibile, alienati agli sberleffi altrui, alle critiche, all’impossibilità stessa (ma senza il romanticismo tragico e grottesco degli Aguirre, dei Cobra Verde, di Kinski: è un’epoca inadeguata a quel tipo di non-poesia, e la Lohan non possiede e non possiederà mai quello status).

In conclusione, vale la pena vedere The Canyons? La risposta è no. Mediocrità tecnica a parte (impensabile che sia ricercata: il sospetto viene ma si dissipa subito), è un film troppo dosato, troppo ammaestrato. Troppo perbene, bigotto, moralista, che è paradossale considerato che è stato finanziato tramite Kickstarter ed è quindi indipendente dalle major (comunque non così paradossale se si valuta che nelle loro sostanze Easton Ellis e Schrader sono in effetti due moralisti). Non va oltre ciò che doveva essere per essere commercializzato. Non oltrepassa i limiti del rappresentato e resta nel mezzo del nulla che vorrebbe dipingere e che invece si ritrova a essere: un nonnulla. L’unica strada da percorrere per ottenere efficacia da un campo battuto e ribattuto – il turbine irrequieto e/o l’indolenza della giovinezza – sarebbe stata quella dell’eccesso, non tanto del contenuto (quale contenuto oggigiorno può essere percepito eccessivo?) quanto della forma. In una direzione o nell’altra. Atrofizzare la messa in scena, frenare il tempo, il ritmo, destrutturare, spogliare la sintassi filmica giungendo quasi all’immobilità, stile Gus Van Sant (che – ironia? masochismo?- appare in The Canyons in un cammeo nel ruolo dello psicanalista di Christian), cantore discutibile eppure innegabilmente pregnante di certa gioventù ghiacciata; oppure sublimare la morbosità a un grado illegale, patologico, come Larry Clark; oppure sconfinare nell’iper, spingere la verosimiglianza verso bordi pericolosi, percolanti, riecheggiando a un milione di watt il linguaggio pop del mondo che si è scelto di raffigurare, come fa Gregg Araki e come di recente ha fatto Harmony Korine con Spring Breakers.

Insomma, esagerare, enfatizzare le modalità della comunicazione. Assumersi dei rischi e costringere (lo spettatore) ad assumersene. The Canyons, al contrario, li scansa ed è talmente gentile da farceli scansare. Ed è probabile che non varrebbe la pena vederlo neppure se Lindsay Lohan ne fosse il perno osceno. Cioè, forse, forse, forse… forse in tal caso non sarebbe possibile vederlo se non calibrando la visione sulla nostra disponibilità a considerarci dei voyeur, e riducendo l’immagine (al di là dello specifico cinematografico) a un feticcio; e allora il film non si chiamerebbe The Canyons ma The body and soul of Lindsay o robaccia simile o più kitsch ancora, e sullo schermo ci sarebbero un sacco di nuche, le nostre, al buio, che guardiamo uno schermo sul quale è onnipresente Lindsay Lohan che prova a simulare di essere un personaggio di nome Tara che sa di essere Lindsay Lohan e che a un tratto ricambia il nostro sguardo; e potremmo perfino trovarli – lei e il film – interessanti, a sprezzo di ogni pudore. Ne varrebbe la pena? Saremmo pronti ad assumerci il rischio?

Matteo Pennacchia

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Anni difficili: lessico familiare

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Daniele Luchetti, regista abile sempre apprezzatissimo da pubblico e critica, torna in sala con un film singolare, in bilico tra affresco di costume e diario intimista, tra film d’arte e melodramma, il cui titolo provvisorio era, significativamente, “Storia mitologica della mia famiglia”.

Per poco meno di due ore si alternano, filtrate attraverso lo sguardo disincantato del giovane Dario, le vicende dei componenti della famiglia Marchetti, colti tutti alla vigilia di una grande rivoluzione personale: ci sono i nonni materni, commercianti calorosi e un po’ cafoni, c’è la nonna paterna, intellettuale rigida e scontrosa, ci sono i piccoli Dario e Paolo, alle prese con i turbamenti dell’età, e ci sono soprattutto i coniugi Guido, artista frustrato e marito scostante, e Serena, moglie insicura e madre infantile, alle prese con un matrimonio scricchiolante. Intorno a loro, un brulichio giocoso e confuso di galleristi, modelle, studenti, critici d’arte, femministe…

Una veloce vacanza in Francia segnerà una svolta importante nelle vite di ciascuno, aprendo percorsi di evoluzione e maturazione che modificheranno per sempre i rapporti dei Marchetti.

“Anni felici” si apre con una vera e propria dichiarazione d’intenti. Mentre sullo schermo scorrono le immagini sgranate di un filmato amatoriale in super8, la voce over di Dario ormai adulto (Luchetti stesso) spiega: “Questo sono io, Serena e Guido i miei genitori, mio fratello Paolo. Storia della nostra famiglia nell’estate del ’74”. Il film, quasi autobiografico, è tutto contenuto in questa frase.

Come nei suoi ultimi lavori, il regista torna a raccontare un’altra famiglia unita e disfunzionale. Ma questa volta non c’è più spazio per la denuncia sociale (“La nostra vita”) né per la politica e le ideologie (“Mio fratello è figlio unico”). La chiave di lettura del film è da cercare esclusivamente tra l’intimità delle mura domestiche, affidata alle rievocazioni lontane, certamente parziali ed edulcorate, di un bambino che osserva un mondo di adulti nel momento in cui si appresta a diventare egli stesso adulto.

Luchetti imbastisce un ritratto essenziale e (in parte) inveritiero degli anni ’70 e affronta un discorso sul mondo dell’arte, teso tra creazione, provocazione e mercato, ma sono argomenti che rimangono appena accennati sullo sfondo, come abbozzati. Al centro di “Anni felici” ci sono infatti i protagonisti della famiglia Marchetti (o Luchetti), sempre intriganti e affascinanti, anche nei loro limiti e nelle loro debolezze, interpretati con convinzione da un cast vivace e affiatato. Semplicemente irresistibili i giovani Niccolò Calvagna e Samuel Garofalo, cui spetta il compito non banale di dare corpo alle pulsioni e alle speranze del Luchetti bambino. Convincenti nei panni dei coniugi Marchetti, Micaela Ramazzotti, che ripete in parte il suo fortunato personaggio de “La prima cosa bella”, e Kim Rossi Stuart, dal fascinoso trasformismo: contraddittori, fragili, immaturi, egoisti, Guido e Serena sono due personaggi ricchi e sfaccettati, esplosivi e dolenti, incredibilmente vitali e per questo impossibili da non amare. La sceneggiatura, firmata dal regista con Caterina Venturini e il celebre duo Rulli&Petraglia, riesce nella non facile impresa di tratteggiare i ritratti complessi di due adulti visti con l’amore e le ingenuità di un bambino, sebbene alcuni dialoghi eccessivamente programmatici e declamatori rivelino la natura dell’artificio e attenuino la forza delle interpretazioni.

Personalissimo cinema della memoria, “Anni felici” procede col ritmo fluido e altalenante di un diario, costruito interamente sui sapori e sui colori del ricordo e concentrato unicamente sulla (ri)scoperta del cuore e delle passioni dei suoi personaggi. In questo senso, acquistano particolare valore i ripetuti, lunghi inserti di filmati in super8, cui è affidato il triplice compito di sintetizzare, attraverso le immagini, il coming of age del giovane protagonista, di ricordare allo spettatore l’io narrante e di restituire gli umori e i colori di un’epoca.

Stefano Guerini Rocco

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Giovani ribelli: ribelli senza causa

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Presentato in anteprima al Sundance Film Festival, “Giovani ribelli – Kill Your Darlings” segna il debutto nel lungometraggio del regista John Krokidas, già promettente studente di Yale e della NYU, nonché autore di due premiatissimi corti. Debutto decisamente autorevole se si considera che a produrre è la Killer Film di Christine Vachon, che dagli anni ’90 ha tenuto a battesimo molti degli autori indipendenti più interessanti del cinema americano tra cui Todd Haynes, Mary Harron, Todd Solondz, John Cameron Mitchell e altri ancora.

La pellicola prende spunto da un delitto, realmente accaduto, che ha coinvolto i futuri poeti della Beat Generation negli anni della loro giovinezza. Al centro della vicenda c’è l’educazione sentimentale ed artistica di Allen Ginsberg, fresca matricola alla Columbia University nel 1944. Lasciati a casa il padre poeta e la madre pazza, il ragazzo “non ancora sbocciato” stringe amicizia con l’intrigante ed eccentrico studente Lucien Carr e con lui inizia un viaggio di perdizione tra droghe, jazz, scorribande, libri proibiti e avventure sessuali. Si uniscono presto al gruppo anche Jack Kerouac e William S. Burroughs: tra una notte brava e l’altra, insieme iniziano a formulare il manifesto di una vera e propria rivoluzione letteraria, capace di scuotere persino le rigide e tetre tradizioni dei corsi universitari. Ma i sogni e le ambizioni dei giovani letterati dovranno presto scontrarsi con la brutalità della realtà quando i turbamenti dell’irrequieto Carr, vessato dalle morbose attenzioni dell’amante maturo David Kammerer, sfoceranno in tragedia: una vera perdita dell’innocenza che porterà i protagonisti ad intraprendere strade e destini differenti.

Ci sono casi in cui i titoli italiani imposti dai distributori a certi film stranieri fanno storcere il naso. Questa volta, invece, vale in contrario: il titolo italiano, descrittivo e assai banale, rende un servigio al pubblico nostrano perché si avvicina di più di quello originale alla vera natura della pellicola.

Venduto a torto come un film sulle origini della Beat Generation, “Giovani ribelli – Kill Your Darlings” è in realtà un romanzetto di formazione, con forti virate verso il melodramma, i cui protagonisti portano incidentalmente i nomi di alcuni dei più grandi poeti del Novecento.

Scritta in tandem dal regista con l’esordiente Austin Bunn, la sceneggiatura si rivela priva di finezze e sfumature, soprattutto nel trattare quei temi (la definizione dell’identità, la scoperta della sessualità, il valore di certi ideali, la fratellanza) che vorrebbero essere il punto di forza della pellicola. La narrazione procede dunque piatta e insapore, secondo uno stile piuttosto convenzionale e ordinario, seguendo uno schema circolare (mutuato da una teoria di Yates ampiamente citata e spiegata nel corso del film) che non raggiunge la portata catartica cui sembrerebbe ambire (si pensi alla sequenza dell’omicidio).

Nemmeno le interpretazioni, affidate ad un cast sorprendentemente fuori parte, riescono a vivacizzare il risultato finale. Dallo stralunato Burroughs dell’irriconoscibile Ben Foster al patetico Kammerer di Micheal C. Hall (al contrario, fin troppo identificabile con il suo Dexter televisivo), passando per le stereotipate madri di Ginsberg e Carr, tutti i personaggi principali appaiono caricaturali e senza spessore, compreso l’Allen Ginsberg di Daniel Radcliff, cui comunque si deve riconoscere l’apprezzabile sforzo di smarcarsi definitivamente dalla maschera del maghetto Harry Potter. Non fa eccezione, purtroppo, nemmeno il tormentato Lucien Carr, vero protagonista della pellicola, cui il giovane Dane DeHaan, novello Tadzio, presta occhiaie e fisico emaciato, senza però riuscire a trovare la necessaria ambiguità, la giusta dose di fascino, profondità e inquietudine: certamente questo personaggio, il più sfuggente e sfaccettato, ipocrita e seducente, fragile e manipolatore, avrebbe meritato un ritratto meno acerbo.

Agli appassionati della poesia Beat, già ampiamente delusi dal recente adattamento di “On the Road”, non resta che recuperare “Urlo”, l’ambizioso, complesso, multiforme, vitale omaggio che i registi Rob Epstein e Jeffrey Friedman hanno dedicato al celeberrimo poema omonimo di Allen Ginsberg.

Stefano Guerini Rocco

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Miss Violence: la ricerca di un volto violento.

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”Quello che mi sorprende è che qui sembra non sia successo nulla” dice verso metà film l’assistente sociale che ha appena ispezionato la casa dei protagonisti. E ha ragione. Perché Miss Violence non muove un solo passo in avanti, sembra anzi procedere a ritroso, mutando la sequenza iniziale – tre o quattro minuti in cui una undicenne si uccide buttandosi dal balcone durante la propria festa di compleanno in famiglia – nel culmine di tutto quanto avverrà in seguito. Il suicidio di Angeliki potrebbe dare il via al disgregamento delle dinamiche interpersonali, potrebbe snudare sofferenza, intimità, il collasso di un’insieme umano. Potrebbe. Non lo fa. Non produce alcuna conseguenza perché è una conseguenza. Dopo il lutto la vita famigliare continua a galleggiare nel mutismo della quotidianità; s-legata da una soppressione del dolore comunitario, o dolore tout court: quando uno dei componenti piange – e avviene pochissime volte – è sempre in solitaria, e pare comunque piangere per motivi altri rispetto alla morte di Angeliki – un evento tanto drammatico quanto praticamente inutile ai fini dello sviluppo narrativo (1). In questo senso si carica di significato la scelta di non mostrarci un tempo pre-suicidio, inducendoci a ritenere che la situazione non fosse diversa da quella a cui assistiamo. Niente cambia.

Una casa dominata da un patriarca innominato (il Padre) che s’impone sulla moglie, sulle figlie e sui nipotini (dei quali uno soltanto è maschio, mortificato nell’esserlo dal suo rivale anziano), celando dietro l’ipocrisia affettiva uno slancio prevaricatore, il bisogno di mantenere la disciplina che lui stesso ha edificato – su norme arbitrarie. Sono sue alcune delle sporadiche lacrime versate nelle pellicola, quando in frigo trova un avanzo di torta di compleanno di Angeliki. Lacrime che è subito palese non siano dedicate alla nipote (2) quanto al timore che il gesto della nipote possa mettere a repentaglio la gerarchia.

Superata una soglia di diffidenza dovuta al prosciugamento di stile (3) della messa in scena (4) – qualcuno ha invocato Haneke – che sulle prime è una forzatura e dopo diventa un’esigenza, il quadro di oppressione famigliare immerge la propria cornice sociale in un marciume personale. Scende nel particolare. Scelta azzardata ma riuscita, forse obbligata; proseguire a trascendere nel vago avrebbe condotto in un vicolo cieco. Così invece l’abulia generale acquista causa-effetto, fermentando in una retroguardia di abusi protratti e reiterati. Il Padre si trasforma in un monstrum, dapprima soltanto un po’ troppo autoritario – vecchio stampo, diciamo – e in seguito tremendo orco cannibale, pedofilo, incestuoso, che intrappola i suoi cari – pardon, le sue care – in un giogo ripetitivo e compulsivo di punizioni, dimostrazioni di potere, sfruttamenti, torture psicologiche e fisiche. Una storia semplice, e nient’affatto semplice. Lo sarebbe se Alexandros Avranas (1977) avesse ceduto a intenti didascalici, o se si fosse schierato, o se avesse forzato la mano, o se avesse ristretto il ventaglio d’interpretazione.

Per fortuna il giovane regista è stato tanto discreto quanto sfrontato (5) nel dipingere lo squallore concentrico di Miss Violence. E non si è dimenticato di noi. Se il gelo che permea la vicenda, il puzzo di sudore, la carne sfregiata, e il silenzio, e la claustrofobia, inevitabilmente (e molto abilmente, e poco furbescamente) ci invischiano, è anche vero che ”Il titolo è un gioco”, lo dice lo stesso Avranas (6). A ogni strato portato alla luce, per ogni centimetro di profondità conquistato, ci si interroga sull’identità di Miss Violenza e ogni volta il responso degenera.

Miss Violenza è la solitudine cui neppure la famiglia – storico, obsoleto nido in cui godere di calori collettivi – è più in grado di porre rimedio? Miss Violenza è la centrifuga di senso mancato della realtà quotidiana? Miss Violenza è la crisi economica, per cui un uomo over-cinquanta guadagna 530 euro al mese ed è costretto (pfui!) a mercificare il sesso delle proprie figlie per tirare a campare? Miss Violenza è l’apatia, la scomparsa delle emozioni in un contesto sociale abnorme per cui sono scomparse le condizioni per provarle? Miss Violenza è la pedofilia? Miss Violenza è il silenzio in cui si rinchiudono le vittime, è il silenzio al quale costringono gli aguzzini? È l’omertà? È l’inazione con cui si subisce qualsiasi orrore purché sia abitudinario – e dunque rassicurante? O Miss Violenza è semplicemente colei che genera se stessa? O è quella liberatoria che traccia l’unico sorriso del film, in apertura, sulle labbra di Angeliki che sta per ammazzarsi? O è quella che esplode nel finale dentro il riso-pianto della figlia maggiore Eleni? O, infine, è quella suggestione stonata che ci trainiamo dietro sui titoli di coda, di irreparabilità, di immutabilità della tragedia?

Dietro la porta che le vittime (7) ci serrano in faccia nell’ultima scena, precludendo a noi di conoscere il loro futuro e precludendo a loro di averne uno, si annida il dubbio che la genesi di certe devianze si trovi ai margini dei retaggi culturali, margini che non-sempre-ma-spesso corrispondono ai nuclei più biechi e congeniti dell’Essere.

”Quello che mi sorprende è che qui sembra non sia successo nulla”. ”Ho fatto di tutto per riuscirci”, risponde in un sussurro il Padre, il monstrum, l’uomo, risponde Miss Violence.

Matteo Pennacchia

1. In realtà non esiste sviluppo narrativo; il film procede non per esclusione né per accumulo, ma disvela materia inerte, immota, routine che di velo in velo diviene sempre più visibile.

2. O alla figlia. C’è una voluta ambiguità riguardo ai legami di sangue dei componenti della famiglia. Probabilmente per stilizzare al massimo grado la suddivisioni Uomo/Donna e poi Carnefice/Vittime.

3. Niente colonna sonora se non la musica proveniente da televisori e stereo; inquadrature per lo più fisse; dialoghi monosillabici; eccetera.

4. Ma non è esatto al cento percento e non rende giustizia all’uso di una simbologia precisa, mirata alla distruzione di alcuni stereotipi, primo fra tutti la famiglia – teoricamente – felice riunita attorno alla tavola – teoricamente – imbandita. Questa immagine viene usata in più occasioni, con differenti modalità.

5. Discreto perché raramente si addossa ai corpi dei suoi personaggi, tiene le distanze, salvo in qualche occasione annullarsi in un’agghiacciante soggettiva con la quale si/ci immedesima con il Padre. Sfrontato perché ci sfida apertamente a disprezzare il Padre (uno spettatore accanto a me, durante una scena in cui il personaggio siede a un tavolo in compagnia della moglie la quale sta maneggiando dei coltelli, ha urlato: ”E dagli una coltellata!”), portandoci così a torchiare i nostri valori etici su quando e quanto la violenza sia lecita, e su quale sia il nostro rapporto con essa.

6. ”(…) Fino alla fine si cerca di capire chi sia Miss Violence, mentre può essere anche inteso come Missing Violence”.

7. Che per sempre resteranno vittime.

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