Mentre American Hustle inaugura con successo una nuova stagione, c’è ancora tempo per volgere lo sguardo alle pellicole che hanno segnato l’anno appena passato. Del 2013 si ricorderanno alcune sorprese fulminanti e altrettante cocenti delusioni, oltre a una manciata di capolavori (più o meno) acclamati che sembrano destinati a superare la prova del tempo.
Innanzitutto, a giocare la parte del leone è stata la Francia, davvero in gran forma, grazie soprattutto a un Festival di Cannes particolarmente ricco e fortunato. Dalla Croisette provengono infatti Giovane e bella del sempre apprezzato François Ozon (che si è sdoppiato con Nella casa), lo scottante e chiacchierato Lo sconosciuto del lago, Il passato (di nazionalità iraniana solo sulla carta) dell’acclamato Farhadi e soprattutto La vita di Adele, film-evento (ma non l’unico) di una eccezionale stagione cinematografica, che con tutta probabilità consegnerà il suo autore Abdellatif Kechiche ai manuali di storia del cinema. Ancora dalla Francia e ancora da Cannes, ma 2012, proviene Holy Motors di Leos Carax: misterioso, affascinante, multiforme, bizzarro, complesso, inquietante. Uno dei titoli più interessanti dell’anno.
Negli USA, invece, il 2013 ha visto l’affermazione (o consacrazione, a seconda dei casi) di una folta schiera di autori trenta/quarantenni, a cominciare dal lanciatissimo David O. Russell per proseguire con Paul Thomas Anderson, Harmony Korine, l’attore/autore James Franco, Stephen Chbosky. Una nuova generazione di registi che ha saputo mettere in ombra nomi ben più paludati come Spielberg (il suo Lincoln è sontuoso ma privo di guizzi) e Malick (reduce dallo scivolone di To the Wonder), anche se alcune vecchie glorie hanno saputo reggere il colpo, come Woody Allen con il suo amarissimo e sfolgorante Blue Jasmine.
Sempre oltreoceano è da registrare il vero e proprio exploit del Cile, che ha visto distribuiti anche in Europa almeno tre titoli da incorniciare: l’impeccabile No – I giorni dell’arcobaleno, il trascinante Gloria e il sofferto Violeta Parra goes to Heaven. Opere squisite, complesse e variegate, sintomo di una stagione cinematografica (supponiamo) esplosiva.
Infine, tornando in territorio nazionale, c’è da supporre che chi parla di crisi del cinema italiano, si riferisca esclusivamente ai dati del box office (Checco Zalone escluso, ça va sans dire) o al numero dei film prodotti. Perché per quanto riguarda la qualità delle produzioni nostrane, il 2013 ha saputo sorprenderci.
Se da una parte l’anno è stato segnato dalle uscite, in pompa magna, di maestri conclamati come Tornatore e Sorrentino, dall’altra è importante segnalare debutti stupefacenti e incoraggianti, come quelli eccellenti di Pif, Emma Dante, Luigi Lo Cascio e Valeria Golino, o quello in coppia di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che con il loro toccante Salvo hanno vinto la Settimana della Critica a Cannes 2013.
Ma il vero fenomeno di quest’annata cinematografica è stata l’affermazione di pellicole come Sacro GRA di Gianfranco Rosi, Leone d’oro a Venezia, oppure Tir di Alberto Fasulo, vincitore a Roma, o ancora Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini, passato con successo al Festival di Torino. Opere a metà tra finzione e documentario, ibridi narrativi che mettono in scena il reale, oggetti non bene identificabili che travalicano le categorie usuali alla ricerca di nuovi modi di fare cinema. Una tendenza che potrebbe aprire nuove felici strade per il cinema.
Classifica 2013
1. La grande bellezza di Paolo Sorrentino (Italia, Francia)
L’opera più discussa e controversa dell’anno. Dopo il tiepido debutto al Festival di Cannes, si è presa una rivincita mietendo importanti premi internazionali e sorprendenti consensi di pubblico. E adesso si prepara per gli Oscar. Sorrentino apre il film con una citazione di Céline: “Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte”. La grande bellezza è infatti un viaggio sognante e allucinatorio nella Roma contemporanea, tra festini decadenti e ideali di purezza, tra umane miserie e sprazzi di verità, tra musica disco e il “Dies Irae” di Preisner. A traghettarci attraverso questo flusso di coscienza ininterrotto, che sa far convivere il grottesco e il sublime, c’è Jep Gambardella (un impagabile Toni Servillo), scrittore mondano e disilluso alla ricerca (vana) della “sua” grande bellezza, ma perso dietro a troppi trenini che “non portano da nessuna parte”. Sorrentino fellineggia con grande disinvoltura (nel film c’è tanto La dolce vita quanto 8 ½) e firma la sua opera più ambiziosa, potente, impegnativa, complessa. Un’opera non priva di difetti, certo, ma capace di incantare grazie alla sua dirompente ricchezza visiva. Dolly vertiginosi, composizioni spiazzanti, carrelli tortuosi, zoom interminabili: il regista partenopeo e il fido Luca Bigazzi, alla fotografia, sfruttano ogni virtuosismo tecnico per creare immagini potenti e barocche, di magniloquente bellezza. Donano dunque un respiro epico e una profondità amara ai frenetici caroselli di coatti e parvenu, nobili a noleggio e soubrette derelitte, un’umanità squallida e putrescente che acquista così una statura mitologica.
È cinema che non ha paura di pensarsi in grande. Nel bene e nel male, il film più importante dell’anno.
2. Spring Breakers – Una vacanza da sballo di Harmony Korine (USA)
Ex enfant terrible del cinema indipendente americano, Harmony Korine torna in sala con la sua opera più commerciale e riuscita. Venduto, a torto, come un teen movie provocatorio e pecoreccio (si pensi al sottotitolo italiano), il film nasconde in realtà una complessa e mai banale riflessione su una generazione bruciata e senza morale, figlia di una società a sua volta degradata, avida e superficiale. La vacanza scacciapensieri delle quattro giovani protagoniste, infatti, si trasforma presto in un angosciante vortice di eccessi, corruzione, nichilismo, violenza e morte, al grido imperterrito e disturbante di “Spring Break Forever” (più o meno, “Vacanza per sempre”). Si pensi, ad esempio, alle numerose sequenze sulle masse orgiastiche di ragazzini in balia dei festeggiamenti: i loro corpi guizzanti, le tette, i culi, gli addominali, la birra, le effusioni sessuali, diventano gradualmente sempre più fastidiosi e nauseanti, mentre la narrazione si incupisce verso un tragico finale. Si potrebbe dunque pensare a SpringBreakers come a un originale racconto di formazione, immune da ogni deriva moralistica. Procedendo per dilatazioni, ellissi temporali, salti di montaggio e, soprattutto, ripetizioni, Korine traduce tutto visivamente con uno stile acido e graffiante, sempre ai limiti del kitsch, in bilico tra Godard e i videoclip. E tra colori fluo, musiche techno e immaginario gangster, ci regala almeno una sequenza cult: le protagoniste, mitra e passamontagna rosa shocking, intonano la melensa “Everytime” di Britney Spears di fronte a un tramonto patinato, prima di tuffarsi a capofitto in una girandola di sangue. Il manifesto perfetto di un film estremo e intelligente.
3. Gravity di Alfonso Cuarón (USA)
Una astronauta alla prima missione gravita alla deriva nello spazio, (quasi) completamente sola, cercando di salvarsi. Da uno spunto drammaturgico radicale, che colpisce per la sua apparente essenzialità, Alfonso Cuarón ha costruito il film più genuinamente spettacolare dell’anno. Come nel suo precedente I figli degli uomini, il regista messicano si serve della fantascienza per porre quesiti e affrontare temi cari alla sua poetica: l’angoscia dell’isolamento, la paura dell’abbandono, l’instabilità dell’uomo, tanto fisica (visto il contesto) quanto emotiva, ma anche la sua capacità di cambiare pelle e rinascere. Qui forse la sceneggiatura, scritta in tandem con il figlio Jonás Cuarón, si appesantisce con qualche sentimentalismo e qualche forzatura metaforica di troppo, come il finale che rimanda enfaticamente all’evoluzione della specie umana e alla fertilità femminile (e dell’acqua) quale simbolo di vita. Ma per oltre 90 minuti, Gravity gode di tempi perfetti, di un ammirevole senso della tensione e soprattutto di una profonda propensione all’empatia, che promuove una sincera adesione alla protagonista nella sua lotta per la sopravvivenza, minuto per minuto, millimetro per millimetro: il battito del suo cuore, il ritmo del suo respiro, la sua nausea, le sue paure, i suoi affanni, i suoi dolorosi ricordi, diventano quelli dello spettatore. Fondamentale, per la riuscita finale, l’uso finalmente maturo e consapevole di un raffinatissimo 3D, mai così funzionale e coinvolgente, che Cuarón sa sfruttare con coscienza per portare a compimento una precisa idea di regia, fondata su vedute ardite, movimenti fluidi e sensazionalismi tecnici. Spettacolo puro, da mozzare il fiato.
4. La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (Francia, Belgio, Spagna)
Kechiche, autore sempre profondo e sensibile, affonda il suo sguardo acuto direttamente nella realtà, nella materia viva della sua narrazione. Il regista non si distrae mai, assedia ostinatamente le sue protagoniste alla ricerca della verità di ogni gesto e reazione, valorizzando anche l’imprevisto: nessuna barriera o scappatoia è offerta alle sue interpreti, che non hanno altra scelta se non quella di “essere”, autenticamente, davanti alla pressante macchina da presa. Spiccano i ritratti, cesellati con affetto ma senza indulgenza, di Emma e Adele, cui le giovani interpreti prestano letteralmente anima e corpo, con una forza e un’autenticità prorompenti. Se Léa Seydoux, dal fascino magnetico, si rivela capace di eccezionale duttilità e profondità, la semi-debuttante Adèle Exarchopoulos colpisce per la purezza e la vivacità con cui ha saputo fare del suo personaggio la spinta vitale e il cuore pulsante della pellicola: la chioma disordinata e la bocca sempre socchiusa, famelica di vita, la sua Adele non si lascia certo dimenticare quando svolta l’ultima via. Il film è lei.
5. Django Unchained di Quentin Tarantino (USA)
Tarantino vs. la Storia, di nuovo. Dopo la favola di Bastardi senza gloria, il celeberrimo cineasta statunitense si confronta con la schiavitù del profondo Sud americano per raccontare la mirabolante epopea di Django, schiavo liberato alla ricerca dell’amata perduta. Ne nasce un universo assolutamente inverosimile ma del tutto coerente, popolato da personaggi irresistibili (nel bene e nel male) e sopra le righe, impegnati in dialoghi frizzanti e surreali. Tarantino, autore colto e mai pedante, omaggia con esuberante vigore il cinema western (spaghetti e non), in un gioco che va ben oltre lo sterile citazionismo. Anche se meno corrosivo rispetto al film precedente (si pensi al finale fulminante dei “Bastardi”), lo spettacolo è decisamente pirotecnico e spassoso, costruito su immagini di potenza prorompente e accompagnato da una colonna gustosa e trascinante. Da godere, letteralmente.
6. No – I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larraín (Cile, USA, Francia, Messico)
Ovvero, come una campagna pubblicitaria riuscì a sconfiggere la dittatura. La vicenda, straordinariamente reale, è quella di René Saavedra, ideatore degli spot sul “ritorno all’allegria” che nel 1988 convinsero la popolazione cilena a votare “no” al referendum sul prolungamento del regime di Pinochet. Attraverso una messa in scena accuratissima, che mescola con scioltezza materiale d’archivio e riprese con telecamere d’epoca, a ricreare un’estetica tipicamente anni ’80, il film rende affettuosamente omaggio a questi uomini “che fecero l’impresa”. Ma Larraín e il suo sceneggiatore Pablo Peirano insinuano un secondo livello di lettura, ponendo interrogativi impegnativi sul rapporto tra politica e media, artisti e committenti, creatività e compromesso. Ecco dunque che “No”, opera densa dalla scrittura puntualissima, si trasforma in una riflessione disincantata sui meccanismi del potere, sui rischi del colonialismo culturale di stampo consumista e, soprattutto, sulla manipolazione del consenso di massa. Un film importante e maturo, per difendersi dal populismo imperante.
7. Holy Motors di Leos Carax (Francia, Germania)
Il signor Oscar passa le sue giornate su una lussuosa limousine bianca, guidata dalla fidata Cèline, che lo porta da un appuntamento di lavoro a un altro. Ogni volta che ne scende, interpreta un personaggio diverso: un imprenditore, una vecchia mendicante, un assassino, un mostro subumano, un padre di famiglia… È quasi impossibile spiegare (capire?) la vera natura di Holy Motors. Tributo al trasformismo recitativo del suo protagonista, Denis Lavant? Critica sulla perdita dell’identità e sui ruoli sociali, che ci costringono a indossare delle maschere? Riflessione sull’evoluzione del mestiere del cinema? Vita che imita l’arte o arte che imita la vita? Elegia sull’ineluttabile morte della settima arte? Bizzarra fantasia sul nostro futuribile destino? Tutto e niente di ciò. Leos Carax non concede risposte allo spettatore, ma lo ammalia con questo sogno spiazzante e trascinante. Un vortice convulso di paradossi e nostalgie, una sfilata funerea di personaggi e situazioni impossibili, una stravaganza eccentrica e di straordinario fascino che ha il coraggio di spingere all’estremo le possibilità del mezzo cinematografico.
8. Giovane e bella di François Ozon (Francia)
Nei giorni dello squallore italico delle baby squillo parioline (madri incluse), irrompe un film elegantissimo e glaciale su una diciassettenne di buona famiglia che, senza apparente motivo, decide di prostituirsi. Non lo fa per noia o per ribellione adolescenziale, né certo per necessità. Autore prolifico e vivace (in questo 2013 ci ha regalato anche “Nella casa”, da non sottovalutare), François Ozon non giudica mai la sua protagonista, evitando così banalizzazioni sociologiche e spiccio moralismo. Il regista, anche autore della sceneggiatura, firma una riflessione aspra e sofferente sulle relazioni, un inno al potere e alla seduzione costruito abilmente sul filo dell’ambiguità. Al centro di questo canovaccio, Marine Vacth, bellezza altera e selvatica: una visione. La pellicola è come lei, imperturbabile e spietata.
9. Miele di Valeria Golino (Italia, Francia)
Una ragazza introversa e spigolosa, un ingegnere cinico e disilluso, lo spettro dell’eutanasia. Al suo debutto alla regia, Valeria Golino sceglie di maneggiare ingredienti potenzialmente esplosivi. Ma grazie ad uno sguardo pudico e di ammirevole misura, riesce a non cadere nelle trappole di un soggetto tanto ricco di potenziale quanto rischioso. La sceneggiatura, a firma della regista stessa con Francesca Marciano e Valia Santella, rifiuta l’impostazione del film a tesi, evitando con accortezza qualsiasi enfasi retorica e mettendosi al servizio di due personaggi sfaccettati, eccentrici e profondi. I succosi duetti tra Jasmine Trinca e Carlo Cecchi sono il cuore palpitante del film. Al suo esordio dietro la macchina da presa, la Golino si rivela regista sensibile, capace di parlare per simboli e particolarmente attenta alla composizione di bellissime vedute urbane.
10. Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow (USA)
Ha fatto molto discutere per le scene di tortura e per la ricostruzione degli “interrogatori” all’interno della prigione di Guantanamo, ma quello per cui merita di essere ricordato sono la brutalità e l’asciuttezza con cui la Bigelow è riuscita ad affondare lo sguardo nelle più grandi paure degli USA del terzo millennio, raccontando dieci anni di frenetica e paranoica guerra al terrore. Quasi come in un reportage documentaristico, la sceneggiatura di Mark Boal si concentra tutta sull’azione, senza perdere mai ritmo né tensione emotiva, e bracca incessantemente Maya, l’agente CIA cui si deve la cattura di Bin Laden, seguendone aspettative e frustrazioni. Jessica Chastain, attrice di razza, dà corpo a questa novella Giovanna d’Arco che ha fatto della propria missione un’ossessione: uno dei personaggi femminili più interessanti e inusuali del cinema americano contemporaneo.
Una menzione speciale, in chiusura, per la vera sorpresa dell’anno, Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi (Italia). Non un capolavoro, ma una piccola commedia low budget che brilla per garbo e delicatezza, antidoto alla becera sguaiataggine di Checco Zalone e simili. La regista e i suoi sceneggiatori, Ivan Cotroneo e Francesca Marciano, sono riusciti a dimostrare che non esistono temi ovvi o usurati, se vengono affrontati con finezza e intelligenza, se lo sguardo è fresco e la scrittura arguta. Non è un caso, forse, che alcuni studios americani si siano interessati per un ramake hollywoodiano…
Le fa da contraltare Il grande Gatsby di Baz Luhrmann (USA, Australia), la più grande delusione del 2013. Il cineasta australiano si cimenta in un adattamento carnevalesco del celebre romanzo di Francis Scott Fitzgerald, tutto costruito a colpi di feste spumeggianti, frenetiche corse d’auto, anacronistiche canzonette pop, lusso sguaiato e un po’ cafone. La scelta potrebbe essere interessante, ma Luhrmann sembra non avere il coraggio delle proprie azioni e appesantisce il suo film con un’irritante e didascalica voce narrante che ha il compito di spiegare quello che le immagini non riescono a descrivere. Il risultato è un’opera inutile e mastodontica, che tradisce la profondità malinconica e la prosa ricercata di Fitzgerald senza proporre una reale interpretazione alternativa. E che, peggio ancora, annoia.
Stefano Guerini Rocco