Cronaca di un amore: La vita di Adele

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Nell’anno in cui la Francia ha riconosciuto legalmente le unioni omoaffettive, il Festival di Cannes ha incoronato un film (francese) a esplicita tematica gay: “La vita di Adele – Capitoli 1 & 2” del maestro franco-tunisino Abdellatif Kechiche, si è aggiudicato la Palma d’oro, che la giuria presieduta da Steven Spielberg ha voluto tripartire, per la prima volta nella storia, tra il regista e le due interpreti principali.

All’origine della pellicola c’è la graphic novel di Julie Maroh “Le Bleu est une couleur chaude”, di cui però il film non è il semplice adattamento cinematografico. La sceneggiatura, firmata dal regista e da Ghalia Lacroix, attinge a piene mani anche da Sartre e da “La vie de Marianne” di Marivaux (come nel precedente “La schivata”) e da molti testi colti, altissimi, più volte citati da Adele e dagli altri personaggi, pur sempre con naturalezza e senza spirito declamatorio.

Occhi sgranati e passo svelto, Adele (Adèle Exarchopoulos) è una spigliata liceale in procinto di affacciarsi alla vita adulta. Come molte sue coetanee, passa le giornate tra le lezioni a scuola, i pranzi in famiglia e le uscite con le amiche, ma le sembra di “fare finta, fare finta su tutto”. Un giorno, mentre sta andando ad incontrare il fidanzatino in centro, Adele incrocia casualmente Emma (Léa Seydoux), studentessa di Belle Arti dallo sguardo felino e dai capelli blu: è l’inizio di una storia d’amore intensa, viscerale e dolorosa che travolgerà le due ragazze e lascerà in loro un segno indelebile.

Kechiche, autore sempre profondo e sensibile, affonda il suo sguardo acuto direttamente nella realtà, nella materia viva della sua narrazione. Quella di Adele ed Emma è una vicenda che potrebbe sorprendere per la sua semplicità: la storia di un’adolescente alla ricerca di sé, dell’incontro col suo primo grande amore, delle sfide e delle delusioni della maturità. Ma quello che sorprende veramente è la rivoluzione dello sguardo che Kechiche impone allo spettatore con la sua estrema e sincera, mai voyeuristica, adesione al reale.

Per tre ore la macchina da presa non lascia quasi mai il viso di Adele, còlto, senza imbarazzi né forzature, mentre dorme, piange, ansima, pensa, gode, mangia, ride. E quando Emma è presente, lo sguardo si apre anche su di lei, ma senza disperdersi sullo sfondo, sull’ambiente, sul contesto. Il regista non si distrae mai, assedia ostinatamente le sue protagoniste alla ricerca della verità di ogni gesto e reazione, valorizzando anche l’imprevisto: nessuna barriera o scappatoia è offerta alle sue interpreti, che non hanno altra scelta se non quella di “essere”, autenticamente, davanti alla pressante macchina da presa. Quella proposta da Kechiche è dunque un’analisi del reale senza filtro alcuno: lo spettatore è spronato verso una “visione nuova” capace di annullare la distanza tra oggetto e soggetto della narrazione e di ridefinire di conseguenza anche il ruolo (attivo) dello spettatore stesso.

Il regista imbastisce così la sua personalissima cronaca di un amore: dilata i tempi del racconto, concede spazio ai silenzi e ai respiri, si sofferma sugli sguardi e le pause, indugia su particolari apparentemente insignificanti per cogliere ogni sfumatura emozionale, ogni ombra emotiva che percorre i volti (e i corpi) delle due protagoniste, restituendo così una concretezza materica alla loro passione profonda e totalizzante. Alfred Hitchcock sosteneva che “il cinema è la vita, con le parti noiose tagliate”. Se questo è vero, allora si potrebbe affermare che in questo film c’è più vita che cinema.

Kechiche non rinuncia ad alcuni dei temi più cari della sua poetica (le dinamiche di gruppo, le tensioni sociali, le contraddizioni della borghesia), ma li lascia suggeriti sottotraccia, preferendo concentrarsi sul percorso amoroso delle due protagoniste, raccontato senza reticenze tra tenerezze e meschinità, slanci erotici e piccolezze quotidiane. La narrazione procede così fluida tra fitte sequenze ed ellissi temporali, scandita da un’immagine ricorrente (la panchina nel parco) che sintetizza con puntualità le fasi della relazione.

Spiccano i ritratti, cesellati con affetto ma senza indulgenza, di Emma e Adele, cui le giovani interpreti prestano letteralmente anima e corpo, con una forza e un’autenticità prorompenti. Se Léa Seydoux, dal fascino magnetico, si rivela capace di eccezionale duttilità e profondità, la semi-debuttante Adèle Exarchopoulos colpisce per la purezza e la vivacità con cui ha saputo fare del suo personaggio la spinta vitale e il cuore pulsante della pellicola: la chioma disordinata e la bocca sempre socchiusa, famelica di vita, la sua Adele non si lascia certo dimenticare quando svolta l’ultima via. Il film è lei.

Stefano Guerini Rocco

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Vuoti a perdere: The Bling Ring

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Tratto da un fatto di cronaca già raccontato dalla giornalista di Vanity Fair Nancy Jo Sales nel suo articolo “The Suspect Wore Louboutins”, “Bling Ring” è la quinta prova registica di Sofia Coppola, di nuovo in sala (passando per Cannes) a tre anni di distanza dal suo controverso Leone d’oro per “Somewhere”.

In inglese “bling ring” significa, approssimativamente, “la banda dei gioielli” ed è il soprannome che il Los Angeles Time affibbiò a un gruppetto di adolescenti che, tra il 2008 e il 2009, riuscì a penetrare nelle ville hollywoodiane di numerose starlette televisive ricavandone sostanziosi bottini in borse, scarpe e, appunto, ninnoli e preziosi. Di questo parla il film.

Da poco arrivato in un liceo agiato di Los Angeles, l’impacciato Mark fa amicizia con la spregiudicata Rebecca e una manciata di altre ragazzine ricche, annoiate e un po’ fatue, come lui. Per sfuggire all’opulente monotonia della loro quotidianità di privilegio, una sera Mark e Rebecca decidono di intrufolarsi nella casa di Paris Hilton per sottrarre qualche cimelio da mostrare agli amici. La bravata di una notte si trasforma presto in un passatempo criminale che condurrà i protagonisti di fronte a un giudice.

Mike Nichols ha descritto il suo capolavoro “Il laureato” come un manifesto contro la “losangelizzazione” del mondo, alludendo a quel sistema consumistico ed edonista tipicamente americano in cui il valore degli oggetti, si sostituisce al valore delle persone. Cosa può offrire il mondo degli adulti al giovane Dustin Hoffmann in crisi esistenziale? “La plastica”, raccomanda il signor Robinson, ovvero l’epitome di tutto ciò che è falso, artificiale, innaturale, superficiale.

Si potrebbe dire che con “Bling Ring” Sofia Coppola abbia firmato il suo personale manifesto contro la vacuità dello showbiz hollywoodiano, contro la volgarità del lusso a stelle e strisce, contro la dittatura della popolarità. Solo che, nel terzo millennio, la plastica ha lasciato il passo a pixel, cellulari, telecamere e social network: le schermate di Google, i blog, i notiziari scandalistici, i display dei telefonini si moltiplicano e si rincorrono senza soluzione di continuità durante il film, in un continuo rimando di facce, sorrisi, flash, tappeti rossi che porta ad un inevitabile corto circuito tra realtà e finzione. Il mondo in cui vivono e si muovono le protagoniste, tra auto sportive e locali alla moda, appare frivolo, brillante e irreale quanto i reality di cui sono interpreti i divi e le attricette che popolano i loro sogni di (vana) gloria. Ma alla fine la realtà non può che irrompere, brutale, per porre fine alla festa. Sin dalle prime scene, i video verdastri e sgranati delle telecamere di sicurezza si insinuano minacciosi tra le immagini sgargianti di questo sogno patinato e un po’ cafone di soldi e facile successo, svelandolo così in tutto il suo patetico squallore. Sofia Coppola registra tutto con distacco da entomologo, come in una delle sequenze più riuscite del film, quando Mark e Rebecca svaligiano la casa di una prezzemolina della tivù: il lungo e silente pianosequenza sulle vetrate della grande villa isolata, straniante e fittizia visione tra le morbide e scure hills californiane, restituisce tutta l’abbagliante piattezza di Los Angeles e, pare dirci la Coppola, dell’orizzonte morale dei suoi abitanti.

Purtroppo, in questo quadro desolante in cui dominano morbosità e voyeurismo, cinismo e superficialità, non pare esserci spazio per i personaggi. Autrice coerente e assai consapevole, Sofia Coppola torna ad affrontare quello che sembra essere il suo tema d’elezione: il difficile coming of age di adolescenti vittime delle proverbiali gabbie dorate in cui sono costrette a vivere. A una prima vista, Rebecca e le sue compagne, compreso Mark, sono volubili e annoiate come Maria Antonietta, alienate e tormentate come le “Vergini suicide”, profondamente sole e smarrite come la Charlotte di “Lost in Traslation”. Ma, per la prima volta, la Coppola nega qualsiasi complicità ai suoi personaggi: non c’è traccia di empatia nel ritratto di queste ninfette sboccate e capricciose, perennemente ammiccanti, ladre, bugiarde e mitomani, che spendono le loro giornate tra privè, cocaina e furtarelli. Ci si trova dunque di fronte a delle macchiette caricaturali che, in quanto tali, non possono far altro che ripetere se stesse all’infinito, dirottando così anche la narrazione verso uno schema di reiterazione continua (si pensi al meccanismo con cui vengono individuate le case da ripulire) che finisce per sprofondare lo spettatore nella noia del già visto.

Come se, ricercando un tono di beffardo sarcasmo e distacco critico, Sofia Coppola avesse perso la grazia dello sguardo e la sottigliezza del tocco che, fino ad oggi, avevano sancito a ragione la sua statura di autrice profonda e autentica.

Stefano Guerini Rocco

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Breaking Bad: All bad things must come to an end.

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E alla fine è finita. Per chi come me ha cominciato a seguire questa magnifica serie fin dall’inizio di sei anni fa, il series finale di Breaking Bad significava molto. Dopo cinque stagione con lo stomaco sempre preso a pugni ad ogni episodio, dopo cinque anni di battiti cardiaci accelerati e respiri trattenuti ci siamo ritrovati alla fine di tutto, a domandarci “cosa può ancora succedere?”. Succede che Walt vince contro tutti, e saluta tutti in un episodio perfetto sotto tanti punti di vista.

In realtà Walt ha salutato tutti alla fine del penultimo episodio quando lascia lo schermo vuoto, riempito solo da un bicchiere di whiskey, e in Felina infatti ritroviamo non Walter White, ma Mr. Heisenberg, come lui stesso confessa alla moglie in poche semplici frasi: “I did it for me. I liked it. I was good at it. I feel alive”. Walt lo faceva per la famiglia, Heisenberg lo fa per sé stesso. Ed è lui che chiude tutte le questioni in sospeso assicurandosi che i soldi arrivino alla famiglia senza che loro lo sappiano dato che non sono rimasti proprio in buoni rapporti. Prendendosi la rivincita sul gruppo di nazi che lo hanno derubato e privato di parte della famiglia. Chiarendosi, in un certo senso, anche con Jesse che finalmente è libero perchè riesce a scegliere per sé e non si fa più manipolare da Walt. E infine decidendo lui quando e come morire: Heisenberg non si fa sconfiggere né dalla polizia, che non lo ha mai davvero arrestato, né dal cancro, che non lo ha mai davvero debilitato. E dopo di lui, senza Todd e con Jesse finalmente libero, la metanfetamina blu non esisterà più, rimanendo nella storia come il prodotto di Heisenberg, e di nessun altro.

In questa vittoria di Walt noi alla fine siamo con lui e siamo soddisfatti. Lo abbiamo seguito sempre, anche quando scavalcava consapevolmente e a più riprese il confine tra il bene e il male, tra il giusto e lo sbagliato e questo finale ci lascia amaramente soddisfatti. Tutto è andato come doveva andare. E forse proprio perchè tutto è finito “bene” ci troviamo di fronte ad un episodio al di sotto della media della serie. In questo episodio non ci sono pugni nello stomaco e la colpa credo che sia nostra, di noi spettatori. Non siamo ancora pronti a dei finali perfetti, che ci fanno stare male. Abbiamo bisogno di essere prima di tutto soddisfatti, e non prima arrabbiati, sconvolti e poi soddisfatti per aver visto un capolavoro perfetto. Vince Gilligan, che con la penna ci sa davvero fare, fa il massimo che poteva fare.

Felina non è il miglior episodio della serie, ma è decisamente un ottimo ultimo episodio, tutto incentrato sullo sforzo di Walt di dimostrare al mondo di essere il numero uno e di non essere più l’imbranato professore di chimica. Il tocco magistrale di Gilligan è il flashback dove vediamo Hank proporre a Walt di fare da spettatore ad un blitz in un laboratorio di metanfetamina per movimentare la propria vita. Poche immagini che sono emblematiche di questo cambiamento, e vediamo proprio come Walt non esista più e abbia definitivamente lasciato il posto ad Heisenberg.

Gilligan poi scrive e dirige alcune scene meravigliose e ci regala un episodio non da pugni nello stomaco, ma estremamente emozionante come per il saluto a distanza e silenziosissimo di Walt al figlio. Come la tensione che si crea in casa di Elliot per costringerlo a consegnare i suoi soldi alla famiglia. Come nel lunghissimo e tesissimo incontro coi nazi e Jesse fatto di alti e bassi di tensione e dal ritmo dell’azione che si allunga e contrae non appena parte il primo proiettile.

Un episodio bellissimo che tira le fila, che ci lascia con un senso di compiutezza e soddisfazione e lo fa come meglio non poteva, dimostrando ancora una volta la grandissima qualità di una delle migliori serie che si siano mai viste in tv.

All bad things must come to an end.

Michele Comba

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Questi sono i 40: scenette da un matrimonio

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Dimenticate le sgallettate alla “Sex and the city”, che si concedono al vero amore solo alle soglie della cinquantina. Dimenticate anche la recessione economica e la disoccupazione (non solo) giovanile. I quarantenni di Judd Apatow sono sposati con prole, vivono in grandi case con giardino, gestiscono attività di successo, guidano auto costose e sono quindi pronti per la crisi di mezza età.

È il caso di Pete e Debbie, che di fronte alla quarantesima candelina da spegnere realizzano di non farcela proprio più a reggere problemi e responsabilità: il calo della libido, le turbe adolescenziali dei figli, il fisico in disfacimento (?), i conti che non sempre tornano, il colesterolo che sale. Così, mentre lui fantastica di come sarebbe la sua vita da vedovo e cerca di raddrizzare il bilancio della sua etichetta discografica, lei esagera con gli allenamenti per evitare che il marito ricorra al viagra e cerca di convertire i familiari a uno stile di vita esasperatamente sano. Un paio di brutte settimane, poi la crisi rientra e i due riescono persino a risolvere gli annosi conflitti con i rispettivi genitori.

A cinque anni di distanza, Judd Apatow, autore comico intelligente e produttore dinamico, rispolvera due personaggi secondari del suo successo “Molto incinta” e cuce loro addosso un copione brioso che, tra il serio e il faceto, si propone di scandagliare le luci e le ombre della vita coniugale: una sorta di spin-off cinematografico sulle tormentose peripezie dei fatidici “anta”.

Come di consueto, la scrittura è sciolta e la recitazione vivace, ma in “Questi sono i 40” il tono si fa più crepuscolare e meno caustico: Apatow, indiscusso king of comedy della Hollywood odierna e guru del rinato orgoglio geek, rinuncia a qualche gag demenziale e inserisce una nota sottile di vera amarezza e risentimento per dare corpo a personaggi più complessi e sfaccettati. Gli reggono bene il gioco i protagonisti Paul Rudd, commediante di culto in USA, e Leslie Mann, vera moglie del regista che, in bilico tra finzione e realtà, si segnala come attrice intensa e convincente più di quanto sia mai riuscita a dimostrare.

Resta tuttavia difficile prendere davvero sul serio questi quarantenni volubili e superficiali che non si accorgono delle proprie immaturità (ma solo di quelle altrui) e sui quali Apatow, troppo attento (forse) ai risultati di botteghino, si rifiuta di infierire con l’usuale spirito dissacrante. “Questi sono i 40” non possiede certo la cattiveria de “La guerra dei Roses”, né la crudele lucidità di “Scene da un matrimonio”, né la sofferta profondità di Cassavetes o la malinconica spensieratezza di Woody Allen. Soprattutto, salvo qualche battuta e un paio di apparizioni esilaranti (il personaggio di Melissa McCharty), difetta in asciuttezza sarcastica e follia eversiva, che paradossalmente sono sempre stati i maggiori meriti delle opere targate Apatow.

Quel che rimane è una commedia gradevole ma non irresistibile, godibile quanto futile, che parte bene e si smorza progressivamente verso un finale buonista fin troppo convenzionale. Se l’avessero girata in Italia, avrebbe portato probabilmente la firma di Brizzi o Veronesi e non avrebbe certo rastrellato gli oltre 67 milioni di dollari incassati nel solo mercato statunitense.

Stefano Guerini Rocco

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Stoker: Il fascino discreto del male

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Dal Far East al Far West il passo non è certo breve, ma sono sempre più numerosi i registi orientali che, con alterne fortune, sbarcano a Hollywood in cerca di affermazione. L’ultimo in ordine di tempo è Chan-wook Park, autore di opere culto come “Oldboy” e “Lady Vendetta”. Dopo aver vinto il Premio della Giuria a Cannes 2009 grazie all’horror “Thirst”, singolare storia di sesso e vampirismo, il regista sudcoreano torna sul grande schermo con “Stoker”, cupo dramma gotico prodotto dai fratelli Scott.

In una villa isolata (anche dal tempo, si direbbe), il giorno del compleanno della giovane India, adolescente introversa e solitaria, è sconvolto dalla morte tragica dell’amato padre. Rimasta sola con la madre viziata e distante, vessata dai compagni di scuola, India si chiude in una sempre più scostante ritrosia, fino a quando l’equilibrio domestico viene turbato dall’arrivo dell’affascinante zio Charlie. Enigmatico e piacente, l’ospite inatteso finirà presto per diventare il perno di un ménage à trois ambiguo e pericoloso, che costringerà i protagonisti a svelare (o scoprire) progressivamente, ma anche violentemente, la propria natura più intima.

Nonostante quello che il titolo può far credere, “Stoker” ha ben poco da spartire con il celeberrimo “Dracula” dell’omonimo scrittore. Eppure rimane palpabile l’eco vampiresco che il nome Stoker riesce a evocare: la fascinazione ossessiva dello zio Charlie nei confronti della nipote, seduzione morbosa che esplode in una perversa e cruenta solidarietà criminale, è il vero motore che scandisce l’evoluzione della narrazione.

La sceneggiatura di Erin Cressida Wilson e Wentworth Miller, l’attore del televisivo “Prison Break” qui alla sua prima prova da scrittore, rinuncia infatti all’azione per privilegiare caratteri ed ambientazione, tessendo così un racconto tagliente e lineare, un thriller teso che dosa bene suspense, seduzione e mistero, senza rinunciare a notazioni psicologiche di rilievo. Retto da una scrittura esile ma precisissima, Chan-wook Park imbastisce una messinscena visivamente ricca e sofisticatissima: i costumi ricercati, gli ambienti di estenuante eleganza, la fotografia rigorosa e glaciale (dell’assiduo collaboratore Chung-hoon Chung) fanno di “Stoker” un’eccentrica fiaba gotica di rara raffinatezza sul potere della fascinazione e del desiderio, come riassume bene il prologo (che è anche epilogo).

In questo universo di artificiosa compostezza, spiccano per rilievo e complessità le presenze importanti dei tre statuari protagonisti, interpretati con convinzione da un cast impeccabile. Se Matthew Goode, cui manca solo il guizzo mefistofelico di un John Malkovich, può contare sul suo charme british per infondere una nota di minaccioso contegno al suo Charlie, Mia Wasikowka si conferma attrice sensibile e di grande gusto nel cesellare il ritratto tormentato di un’adolescente inquieta e apparentemente imperturbabile, di cui si percepiscono i grandi smottamenti emotivi sottopelle. Sebbene sacrificata dalla sceneggiatura, Nicole Kidman, il volto irrigidito dal botox, incanta e spaventa nella parte di una donna frivola e annoiata, capace di trasformarsi in un mostro di crudeltà e risentimento: il suo monologo sulla maternità non si dimentica facilmente.

Al suo debutto hollywoodiano, Chan-wook Park rinuncia ai facili sensazionalismi per firmare un horror d’atmosfera di grande impatto, costruito abilmente sul confine sottile tra attrazione e ossessione, che non ha bisogno di ricorrere a fiumi di sangue o ad effetti grandguignoleschi per affascinare lo spettatore.

Stefano Guerini Rocco

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Torna Luther, ed è sempre lui

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E’ passato davvero tanto tempo dall’ultima volta che ho visto un episodio di Luther e non sapevo che ne fossero previsti altri. Non mi sono informato molto bene, ma qualche giorno fa, quando l’app del mio telefono Tv Show Time mi ha detto che avevo una puntata di Luther da guardare, la sorpresa è stata molta e mi sono subito tornate alle mente immagini di un Idris Elba stratosferico, di una Londra lontana dalle immagini patinate di moda e di un crime duro e cattivo.

E da subito ho ritrovato tutto.

In questo primo episodio della terza stagione c’è infatti tutto quello che ha fatto di Luther una serie crime al di sopra dello standard: la violenza esplode fin dall’inizio, la cattiveria e l’ambiguità morale non si nascondono mai, e Londra è una Londra irriconoscibile, che sembra quasi non esistere da tanto è sporca, grigia e claustrofobica. E in quest’ambiente si muove uno straordinario Idris Elba che con il solito cappotto grigio e la solita cravatta rossa mette in scena un personaggio tormentato e stanco. La vita lo soffoca e sembra pesargli sulle spalle al punto da obbligarlo ad abbassare la testa tanto da non riuscire più a guardare in alto.

In questo primo episodio un altro pazzo criminale sarà al centro delle indagini, e vediamo un altro poliziotto degli affari interni dare la caccia a Luther. Sempre la solita trama dove i modi moralmente ambigui e sbrigativi di Luther fanno storcere il naso a molti suoi colleghi, ma noi abbiamo sempre l’impressione di seguire un buono, anche se con qualche problemino, e siamo gli unici rimasti con lui ora che anche il fidato Justin comincia ad avere qualche dubbio sull’integrità di John Luther. In tutto questo compare anche una nuova donna, prenderà il posto di Alice? Difficile. Comincerà una dura lotta in cui a vincere sarà la rossa? Chi lo sa. Per ora di Alice non c’è traccia e al nostro Luther non sembra mancare.

Dopo tanto tempo ritroviamo quindi un crime cattivo, sporco, che si sposa perfettamente con l’ambientazione londinese della disperazione. Una scrittura densa e che non perde mai ritmo aprendo l’episodio con il botto e non scendendo mai in quanto a qualità e tensione. Una fotografia cupissima che ci racconta da sola i pensieri torbidi di Luther. E un Idris Elba perfetto nei panni del duro tormentato, con quello sguardo carico di sofferenza di chi ha visto troppo ed è stufo della vita.

Peccato solo che gli episodi saranno solo quattro, e se anche ci è voluto tanto tempo per farli, non importa: tutti i capolavori hanno bisogno di tempo per essere preparati.

Bentornato Luther.

Michele Comba

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Io ballo da sola

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Nei weekend dei fatui “Scary Movie”, dei roboanti “Olympus Has Fallen” e dei colossali “Iron Man” che invadono di prepotenza centinaia di schermi in tutta Italia (e non solo), sembra impossibile per un film indipendente, distribuito quasi clandestinamente in poche copie, trovare uno spazio nella selva dei multiplex e delle sale cinematografiche. Ma può capitare che, complice il passa parola di spettatori soddisfatti, una piccola produzione low budget faccia breccia nel cuore del suo pubblico e conquisti una posizione di tutto prestigio anche nei risultati del botteghino: è il caso felice di “Viaggio sola”, terzo lungometraggio della regista Maria Sole Tognazzi.

Cuore e motore della pellicola è Irene, quarantenne risoluta e indipendente, “sola” appunto, in viaggio perpetuo tra i più lussuosi alberghi del mondo, dove, in qualità di ispettrice sotto copertura, valuta con scrupolosa e severa accortezza se i servizi proposti rispecchiano le aspettative “a cinque stelle”. A casa la attendono Andrea, ex amante e amico sodale che cerca di metabolizzare una paternità inaspettata, e la sorella Silvia, alle prese con le piccole grandi difficoltà della vita familiare. L’incontro accidentale ma denso di significato con una vulcanica sessuologa metterà in discussione le certezze di Irene che, senza marito, senza figli e senza una vera casa, si troverà a fare i conti con una quotidiana solitudine di cui forse non era pienamente consapevole.

Nel panorama del cinema italiano contemporaneo, “Viaggio sola” risulta insolito almeno quanto la professione della sua protagonista. Soprattutto perché riesce a mostrare che non esistono temi ovvi o usurati, se vengono affrontati con finezza e intelligenza, se lo sguardo è fresco e la scrittura arguta.

Irene (ma anche Andrea e Silvia, in modi diversi) potrebbe essere l’ennesima quarantenne in crisi di mezza età, in bilico tra frustrazione e depressione, di quelle che hanno animato tanto cinema (più o meno) d’autore da Antonioni ad oggi. Tognazzi e i suoi sceneggiatori, Ivan Cotroneo e Francesca Marciano, riescono invece a rivitalizzarne il ritratto, donando concretezza a una donna davvero immersa nella sua contemporaneità, con dubbi e diffidenze ma anche sicurezze ed egoismi, senza inciampare nei soliti manicheismi e nelle facili approssimazioni. Le dà corpo e anima una Margherita Buy sciolta, complessa e mai così affascinante, libera finalmente dallo stereotipo della donna fragile e nevrotica di cui, per sua colpa, è spesso vittima.

Questa Irene, tanto viva e sfaccettata, dona sincerità e leggerezza al film, abilmente condotto lontano da ogni possibile cliché (sull’età, sulla famiglia, sui non-luoghi) grazie a una regia elegantemente sicura e soprattutto a una sceneggiatura sempre abile e attenta, mai scontata.

“Viaggio sola” rifiuta il dramma pur trattando argomenti non banali, evita la farsa pur tendendo alla risata: il risultato finale è un piccolo gioiello di garbo e delicatezza, una commedia vitale e disinvolta scritta con sensibilità, acume e spensieratezza e recitata con mirabile vivacità da un cast in stato di grazia. Se Stefano Accorsi e Gian Marco Tognazzi ben figurano sul versante maschile, l’irresistibile Fabrizia Sacchi e la Buy brillano nei panni di donne profondamente “moderne”, con qualche ombra e molte luci.

Coraggioso nell’evitare buonismo e retorica paternalistica, “Viaggio sola” è il bel ritratto di una donna e di una generazione, cesellato con gusto e precisione, che preferisce porre domande piuttosto che sciorinare certezze. Con in più il pregio di non prendersi mai troppo sul serio.

Stefano Guerini Rocco

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Il potere delle parole: Nella casa

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A lezione di scrittura da François Ozon. Mentre il suo “Jeune et jolie” sta per passare in concorso al Festival di Cannes, nelle sale resiste bene “Nella casa”, opera sofisticata e ambiziosa del prolifico regista francese.

Germain, aspirazioni frustrate e sarcasmo da vendere, è il professore di lettere di un ordinato liceo di provincia. Annoiato dal lavoro, si accanisce con particolare compiacimento sui compiti imprecisi dei suoi demotivati studenti, fino al giorno in cui a scuola arriva Claude, sedicenne timido e discreto, ma dallo sguardo acuto. Incuriosito dai temi del nuovo alunno, che si chiudono ogni volta con la dicitura “continua” come in un telefilm o in un romanzo a puntate, Germain invita Claude a incontrarlo abitualmente dopo le lezioni, per spronarlo a coltivare e affinare il suo talento: sperimentare, imparare i meccanismi della narrazione, esplorare diversi generi letterari, dalla parodia al Bildungsroman, solleticare la partecipazione del lettore.

Forte dell’interesse del professore, il giovane intraprende così un’indagine sempre più approfondita sul “materiale narrativo” prescelto: la famiglia piccolo borghese del compagno di classe Rapha. Di tema in tema, Claude penetra subdolamente nella casa e nel tessuto familiare dell’incosciente amico, tratteggiando il suo mondo con spirito caustico e intenzioni ambigue, fino a comprometterne irrimediabilmente l’ordine. L’allievo si sostituisce dunque al maestro e ne diventa la guida in un gioco sempre più oscuro e morboso, costruito sul potere della manipolazione e dell’immaginazione, cui il professore non sa sottrarsi, fino alle estreme conseguenze.

Tratto dalla pièce “El chico de la última fila” del drammaturgo spagnolo Juan Mayorga, “Nella casa” propone una variazione su alcuni temi cari al cinema di Ozon, dalla tensione erotica al voyeurismo, dal potere dell’immaginazione al gusto per la citazione cinematografica. E come d’abitudine per ogni film del regista francese, non si scende mai sotto un certo livello.

Al pari del giovane Claude, anche Ozon intraprende diversi percorsi narrativi, alternando commedia brillante, dramma, thriller senza soluzione di continuità, in un gioco sofisticatissimo e sottilmente perverso. Partito come una farsa alla Allen (citatissimo, fino all’omaggio esplicito di “Match Point”), il film cambia spesso tono e ritmo, passando da Hitchcok a Chabrol, creando suspense e seminando incertezze.

Eppure, col progredire dell’azione, l’adattamento scopre i suoi limiti di esercizio intellettualistico artificiosamente concepito per spiazzare lo spettatore e “farlo perdere” nelle pieghe e negli sviluppi di un processo creativo che alterna pericolosamente finzione e realtà. Lo spettatore, privato di ogni possibile bussola, approda infine alla confusione e alla noia, soprattutto in un finale che purtroppo non riesce a riconciliare i tre piani (Claude e Germin, Claude nella casa, Germain e la moglie) attraverso cui Ozon ha costruito il racconto.

Restano all’attivo la solida eleganza della confezione e le prove stuzzicanti di un cast divertito e convincente: se il quasi esordiente Ernst Umhauer ha il giusto physique du rôle, la parte del mattatore spetta all’ottimo Fabrice Luchini, misurato e pungente, capace di brillare nei frizzanti duetti con la moglie (Kristin Scott Thomas, al solito ineccepibile).

Racconto di formazione, pamphlet sul voyeurismo, trattato sul potere della manipolazione e, allo stesso tempo, saggio sulla creazione artistica (letteraria, ma anche cinematografico), “Nella casa” è un film dalle molte anime, sagace e divertente, condotto con mano sicura da un regista esperto, che pure, paradossalmente, rischia di perdere in efficacia quanto più rincorre la sua ambizione più alta: coinvolgere in maniera attiva, come Claude con Germain, lo spettatore all’interno del processo creativo.

Stefano Guerini Rocco

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Killing Them Softly: un noir in tempo di crisi

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Io vivo in America, e in America sei solo. Così dice un cattivo Brad Pitt dopo aver ucciso un bel po’ di persone e aver guadagnato un gruzzoletto non indifferente visti i tempi di crisi. La trama è molto semplice e lineare: Franky e il suo socio, due piccoli delinquenti, accettano il colpo che gli viene proposto e svaligiano una bisca clandestina. La colpa dovrebbe ricadere sul gestore, per via di un suo vecchio errore. Ma le cose si complicano e la mafia fa allora appello a Jackie Cogan, perché regoli i conti con i due ladri e con il mandante del colpo. Tutto qua, ma a me i film semplici, che si concentrano su una storia semplice e la spiegano per bene, mi piacciono e non dovendo per forza di cose raccontare la verità della vita, allora il regista si può concentrare di più sul come raccontare la storia e il risultato non può che giovarne. Qui infatti il regista neozelandese Andrew Dominik ha scoperto e divorato l’opera di George V. Higgins, ex procuratore aggiunto di Boston, e sceglie di adattare Cogan’s Trade del 1974. Non ho letto niente di Higgins, ma so che sono libri costruiti sui dialoghi e del film quello che colpisce sono proprio i dialoghi. Forti, coloriti, veri e duri. Non sono mai banali e mettono in luce personaggi tutt’altro che superficiali, rimandando alla perfezione raggiunta da Tarantino. Il film poi unisce a questi dialoghi fantastici l’impronta da action comedy tipica dei fratelli Coen: il ritmo accelera e rallenta in continuazione e visivamente il film si presenta come molto raffinato, pieno di colori lividi e pallidi, quasi pastellati. La fotografia poi rimanda alle tinte noir e si pone in netto contrasto con le immagine e i colori della tv. L’originalità del film rispetto al libro sta proprio in questo parallelo con la TV. Attravero le immagini e i discorsi di campagna elettorale scopriamo che la vicenda è stata trasposta nei giorni in cui Bush sta per lasciare il posto ad Obama e l’ambientazione è quella New Orleans che ancora non si è ripresa dall’urgano.

Il lavoro del regista è quindi quello di attualizzare la storia e ne scaturisce una grande metafora, che si esplica punteggiando la crime story con i discorsi politici sullo stato dell’economia americana. L’accusa è forte ed è diretta ai governanti, rei di essere, al pari dei banchieri, dei criminali e dei truffatori, imprese private a scopo di lucro. L’accusa è quella di celare la verità sotto una maschera di ipocrisia. In TV, coi colori blu e rossi delle campagne elettorali, viene mostrato il mondo politico che sembra lontano dal mondo vero e della realtà. Un mondo cinico, disincantato, che confonde manager e killer, che risulta completamente privo di quegli ideali che raccontano in tv.

Con questa attualizzazione e con la voglia di denuncia il film si perde un po’ e non aggiunge nulla di nuovo al già visto e sentito. Ma chiudendo un occhio su questo tentativo di puntare il dito contro la classe dirigente, con l’altro occhio possiamo godere di un film accattivante e brillante per il tono comico-cinico dei dialoghi e le facce messe in campo (Brad Pitt, James Gandolfini e Ray Liotta su tutti). Un film esplicitamente violento, che si concede massacri e pestaggi al rallentatore, e che, se non avesse voluto strafare, sarebbe uno dei nuovi noir meglio riusciti. Ribadisco che a voler strafare, a volte, si perde di vista la pura e semplice, e per questo bellissima, narrazione, con la quale si posso fare dei capolavori. Killing Them Softly non è un capolavoro, ma è comunque un bellissimo film.

Michele Comba

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Farscape: se la politica italiana fosse un telefilm

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Vi è mai capitato di guardare alla realtà comparandola al cinema o alla televisione? Ovviamente sì, se no non stareste qui a leggere questo articolo.

La cultura popolare ci dà continuamente esempi con cui confrontare la nostra realtà quotidiana, da i comportamenti degli amici ad eventi storici. Così, per divertimento, ho iniziato a pensare a quale prodotto televisivo potrebbe rappresentare meglio l’attuale momento, chiamiamolo “complesso”, della politica italiana. Esiste uno show che potrebbe rappresentare il caos e al contempo la necessità di organizzazione che stanno caratterizzando questi giorni?

Credo di sì e questa serie è Farscape.

Non a caso una serie di fantascienza (d’altraparte la realtà è orami abbondantemente superata) Farscape racconta la storia di un’astronauta che, dopo aver attraversato un tunnel spaziale, si ritrova a bordo di una nave vivente, con compagni di viaggio tre evasi e un pilota nemico, e una flotta aliena che vuole ricatturare la nave. Questa non è la fantascienza alla Star Trek dove l’equipaggio va d’amore e d’accordo, anzi, qui ognuno ha i propri scopi e propri metodi per raggiungerli (inclusa la nave). Tradimenti, alleanze e una buona dose di follia sono all’ordine del giorno.

Ma per far funzionare l’analogia dobiamo vedere più nello specifico i protagonisti e i loro possibili corrispettivi nazionali.

Moya (la nave vivente) → Italia: poche volte si è vista una nave come protagonista di una serie, Moya ha una personalità e al contempo offre ospitalità ai suoi nuovi passeggeri che l’hanno appena liberata dal giogo dei nemici, i nostri eroi non fanno altro che lottare per comandarla per i propri scopi.

Pilota → Napolitano: Pilota è l’interfaccia di Moya, colui al quale “l’equipaggio” si rivolge per far funzionare Moya alla quale lui è legato da un collegamento indissolubile. E’ l’elemento che dà le possibilità di scelta nelle situazioni difficili.

John Crichton → PD: l’astronauta che ritrova in un universo a lui totalmente sconosciuto e a lui incomprensibile. Diventa la voce della ragione e di mediazione anche se viene considerato continuamente come un’idiota. Col passare del tempo dà sempre più preoccupanti segni di pazzia.

Rygel → Berlusconi: ex dominar di svariati pianeti si ritrova a fuggire dopo aver subito un colpo di stato. Intrepretato da un pupazzo (la serie è prodotta dalla Henson, quella dei muppet), pensa solo a se stesso e a come poter tornare a dominare il suo regno. Tradimenti, alleanze di favore e doppio gioco sono il suo pane quotidiano.

Zhaan → Monti: la saggia del gruppo, pronta ad appoggiare chi ritrova al comando ma sempre pronta a fare scelte difficili per il bene di Moya. Tende a non far prevale il buon senso ed è caratterizzata da un senso di fallimento.

Ka D’argo → SEL: Un guerriero che dopo anni di prigionia è deciso a ripendere in mano la propria vita e perseguire i suoi scopi e tenta d’imporsi come comandante di Moya. Dato però la sua scarsa dote di leadership si deve accontentare di un ruolo di luogotenente. Diventa il migliore amico di Crichton/PD.

I Pacificatori → UE: il nemico. Una forza di “pace” interstellare che somiglia più ad un impero del male. I pacificatori sono alla caccia di Moya perchè è una nave speciale e dei suoi occupanti per farli tornare tra le loro briglia.

A questo punto manca solo Grillo, ma neanche la fantascienza più “fanta” poteva immaginare un personaggio del genere. Grillo potrebbe essere ricondotto a due personaggi che hanno delle caratteristiche che si potrebbero comparare.

Chiana: il jolly del gruppo, una giovene scappata da un mondo distopico. Fare previsioni sui comportamenti di China è impossibile, lei segue una logica tutta sua.

Aeyrin Sun: la ex-pacificatrice che viene costretta a seguire gli eroi. Inizialmente “odiata” da tutti in quanto nemica stringe subito un legame speciale con Moya/Italia. Fortemente indipendente, fa’ fatica a collaborare con il resto del gruppo perchè vorrebbe comandare lei. Senza dimenticare il rapporto amore/odio/amore che ha con Crichton/PD. Alla fine sarà amore a vincere.

A parte gli scherzi Farscape è una serie eccezionale per gli amanti della fantascienza che ribalta le aspettative create da Star Trek e simili. Ma la parola a voi. Ci sono altre serie (o film, libri…) che potrebbero rappresentare questo nostro, incredibile, presente?

Jacob Zucchi

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