Prendendo in prestito il titolo di un film di J.C. Chandor che non sfigurerebbe in questa classifica, il 2016 al cinema è stato “A Most Violent Year”. Se nel 2015 la coppia, opportunamente sezionata, analizzata, celebrata, criticata in ogni suo possibile sviluppo e componente, era stata protagonista indiscussa al centro del grande schermo, la recente annata cinematografica ha preso le forme degli incubi perturbanti di Refn e Mitchell, delle vendette sanguinose di Ford e Tarantino, delle memorie inconfessabili di Ozon e Larraín, o ancora delle fantasie cannibali di Dumont e della iperviolenza formato fumetto di Mainetti.
Le (poche) parentesi di quiete e leggerezza hanno comunque nascosto il retrogusto amaro della poetica disillusione di Jarmush o del crudele cinismo di Giovannesi. Persino i giochi di bambini della coppia Barras e Sciamma hanno mantenuto intatta la candida ferocia dell’infanzia, mentre il ritrovato Téchiné (pure in coppia con Sciamma) ci ha insegnato che l’amore può essere tanto appassionato, quanto ferino e brutale.
Non resta dunque che scoprire i titoli migliori del turbolento anno appena concluso. Con un occhio sempre attento alle interessanti operazioni di recupero promosse recentemente dalla distribuzione italiana, tra cui vale la pena citare il commovente instant cult “Weekend” di Andrew Haigh e l’intera filmografia dell’estroso enfant prodige Xavier Dolan, campione di melodramma-pop.
1. The Neon Demon di Nicolas Winding Refn (USA/Danimarca/Francia, 2016). Novella Alice nel Paese degli orrori, la giovanissima Jesse, incarnato delicato e occhi pieni di meraviglia, sogna di entrare nel mondo della moda. Ne finisce cannibalizzata, nel senso meno metaforico possibile. Strutturato attraverso una obnubilante giostra di immagini fascinosamente sinistre, seducenti e disturbanti allo stesso tempo, “The Neon Demon” è un inno mortifero e (coscientemente) superficiale alla aleatorietà e alla vacuità della bellezza ideale, in cui Refn mette in scena un catalogo più che mai intimo e privato di feticci, ossessioni e perversioni di perturbante intensità. Rincorrendo una visione di cinema tanto rigorosa quanto personale, l’autore dà corpo a una superficialità consapevole e, anzi, rivendicata, che, grazie alla folgorante fotografia di Natasha Braier, trasforma lo schermo stesso in una superficie lucida e tagliente sulla quale immagini e rimandi si moltiplicano, si rincorrono, si contraddicono e, infine, si fagocitano tra loro. “The Neon Demon” è infatti anche un film di doppiezze, specularità e seconde occorrenze, in cui ogni elemento si ripropone prima in forma di monito onirico e soprannaturale (o forse demoniaco?), poi in tutta la concreta, sgraziata, feroce brutalità del reale. Un’opera ambigua e divisiva, costruita sul crinale instabile dell’eccesso e del cattivo gusto, eppure sorprendentemente solida, lineare e coerente. Un’opera controversa e a suo modo radicale, che non smette di crescere a ogni visione.
2. Animali notturni di Tom Ford (USA, 2016). Susan Morrow, gallerista di successo ma moglie infelice, riceve per posta una copia dell’ultimo romanzo scritto dall’ex marito. Mentre lo legge, immersa nella fredda solitudine del suo appartamento alla moda, ripercorre con la mente nascita, evoluzione e inesorabile naufragio del suo matrimonio. Revenge, vendetta, cita a caratteri cubitali il quadro d’arte contemporanea che campeggia nell’ufficio della protagonista. E la vendetta è il fil rouge che percorre con sottile perfidia “Animali notturni”, costruito con sorprendente efficacia sull’alternanza di tre distinti piani temporali – il presente, il passato, il romanzo – che con il procedere della narrazione entrano in relazione, dialogano, si interrogano e si integrano l’un l’altro, fino a illuminarsi reciprocamente di nuovi, spiazzanti, dolorosi significati. È proprio attraverso questo abilissimo gioco di incastri, rimandi, rinvii e influenze, condotto con precisione tagliente e spietata da Tom Ford, che il film cresce in spessore e interesse con lo sviluppo dell’intreccio. L’autore-stilista mette il suo formalismo rigoroso e talvolta estetizzante al servizio di un thriller tesissimo, brutale e inquietantemente seducente, contraddistinto da una regia di solido impianto e da una scrittura cangiante, che per ferocia distruttiva e carica disturbante trova nel Peckinpah di “Cane di paglia” il suo degno modello.
3. It Follows di David Robert Mitchell (USA, 2014). Una ragazzina bionda dall’aria docile si crogiola sul sedile posteriore di un’automobile: ha appena consumato il suo primo rapporto d’amore col fidanzato e sembra ancora immersa in un personalissimo idillio romantico. All’improvviso però lui la prende con violenza, la lega a una sedia, ancora in mutandine e reggiseno, e la offre in sacrificio a una misteriosa entità che lo perseguita da tempo. Distribuito nelle sale italiane con due anni di ritardo, “It Follows” è la sorpresa dell’anno. Il giovane autore David Robert Mitchell realizza un teen horror indipendente che gioca sagacemente con le convenzioni del genere per mettere in scena, con angosciosa partecipazione, l’orrore del perturbante. In un mondo in cui gli adulti sono assenti o inaffidabili, inabili all’azione o addirittura pericolosi, un gruppo di ragazzini è costretto a salvarsi da sé contro l’oscura minaccia di una maledizione (più che mai metaforica) che si contrae attraverso i rapporti carnali. E se è vero che “chi fa sesso muore”, come ci ha insegnato Wes Craven, qui fare sesso è anche l’unico modo per scampare a un destino altrimenti ineluttabile. Ambientato in un non tempo (i protagonisti sono vestiti con abiti contemporanei, ma non usano cellulari e posseggono vecchi televisori) e in un non luogo (la periferia abbandonata di Detroit, una ghost town di spettrale squallore) che ne enfatizzano la valenza di racconto archetipico, “It Follows” è un incubo a occhi aperti, in cui realtà e paranoia si alternano e sovrappongono senza soluzione di continuità. Diabolicamente avvincente e inquietantemente disturbante, “It Follows” è l’intelligente mise en abyme del panico morale di coheniana memoria.
4. Neruda di Pablo Larraín (Cile/Argentina/Francia/Spaga/USA, 2016). Il nome del poeta cileno troneggia al centro della locandina, ma “Neruda” è qualcosa di molto diverso dal classico biopic. È un noir, un western, un saggio storico, una denuncia politica, un intricato gioco del gatto col topo, una profonda elucubrazione metalinguistica, una fantasticheria romantica e, allo stesso tempo, niente di tutto ciò. Oggetto filmico formidabilmente ricco, complesso e sfuggente, sorretto da una sceneggiatura tanto pirotecnica quanto spiazzante, “Neruda” segna un nuovo tassello nel grande mosaico sulla Storia del Cile che il prodigioso Pablo Larraín sta tracciando, pellicola dopo pellicola, con ammirevole coerenza. Naturalmente Pablo Neruda c’è, uno e trino: marito esuberante, militante indomito e uomo di lettere. Ma Larraín ne demistifica fin da subito la figura, servendosene per investigare, ancora una volta, le perversioni e le storture del potere nel proprio Paese. E per introdurre, attraverso il personaggio del patetico poliziotto Peluchonneau, una riflessione mai banale sul potere poietico dell’arte e sull’utopia della creazione, sia artistica e che politica. Magniloquente, visionaria, debordante, talvolta ostica, (sovrac)carica di idee e di invenzioni, “Neruda” è un’opera sorprendentemente vibrante e coraggiosamente anomala, che conferma il talento cangiante del suo autore.
5. Quando hai 17 anni di André Téchiné (Francia, 2016). Nel liceo di un piccolo villaggio sprofondato tra le montagne francesi si scontrano e si confrontano, ogni giorno, Tom e Damien: istinti animaleschi e sguardo ottenebrante il primo, fisico gracile e modi gentili il secondo, i due ragazzi sembrano legati da un vincolo invincibile e brutale, una forza magnetica irresistibile in cui si fondono attrazione e livore, gentilezza e disprezzo, affetto e rancore. Diretto dal veterano André Téchiné e sceneggiato dalla lanciatissima Céline Sciamma, “Quando hai 17 anni” vive di tutte le incertezze e le contraddizioni tipiche dell’adolescenza: i silenzi rancorosi, gli slanci passionali, le inquietudini, i timori, le aspettative dei protagonisti dettano i ritmi di un racconto di formazione sorprendentemente autentico, che cresce, si arresta, si trasforma, rinasce e prende il volo con l’evolversi dei loro sentimenti più intimi. Téchiné e Sciamma costruiscono infatti una narrazione efficacemente discontinua, che alterna tempi dilatati e slanci impetuosi, valorizzando al meglio il ritratto delicato e vibrante tanto dei protagonisti quanto dei luoghi che abitano. “Quando hai 17 anni” diventa così un bildungsroman di rara sincerità e potenza emotiva e, allo stesso tempo, uno dei più toccanti e gentili racconti sull’amore omosessuale, tutto giocato sul filo sottile di una tensione sottesa e obnubilante.
6. Paterson di Jim Jarmush (USA/Francia/Germania, 2016). L’amaro epilogo de “L’ultimo spettacolo” mostra le mani dell’affranto Sonny stringersi a quelle della sua disincantata amante Ruth in un patto di tacito sostegno, contro il penoso carosello di fallimenti, delusioni e inanità che la vita di provincia offre loro. Paterson e i suoi tanti concittadini che incontra per strada o al lavoro, giovani o anziani, ricchi o indigenti, allegri o malinconici, sembrano essere i degni eredi di Ruth e Sonny. Dimenticati nel mezzo della più profonda e anonima provincia americana, ogni giorno animano il bus e il pub locale con racconti vanagloriosi di frustrazioni sentimentali e aspirazioni artistiche tradite. Si muovono come ombre, comparse di una vita di ambizioni frustrate, nel ricordo consolatorio di sogni di gloria ormai ingialliti in vecchi ritagli di giornale. Paterson è uno di loro, imbrigliato in una routine quieta ma incolore che gli impedisce di dirsi poeta a voce alta. Eppure c’è una sorta di pacatezza gentile nella sua rassegnazione (o forse consapevolezza), che regala un significato nuovo, pieno, genuino alla ripetizione di quei piccoli gesti, apparentemente insignificanti, che scandiscono la sua quotidianità. Cantore delle piccole cose, con “Paterson” Jarmush realizza un piccolo capolavoro di malinconica delicatezza e commovente autenticità sulla solitudine e sul sapore di una vita, forse, mal spesa. Un film che, come recita il turista giapponese in cui s’imbatte il protagonista nella più sconfortante delle mattine, respira poesia.
7. Fiore di Claudio Giovannesi (Italia, 2016). Senza facile pietismo né retorica ridonante, Claudio Giovannesi racconta la vita di un istituto di correzione per minori: si immerge nelle sue stanze spoglie e nei suoi corridoi freddi, fotografa con sguardo lucidamente empatico le tensioni, le tenerezze, le invidie che lo animano, insidia con una macchina da presa di rara sincerità e pudicizia i suoi ospiti inquieti. In questo mondo ai margini, in cui gli ultimi saranno ultimi, la felicità prende le forme di una festa da ballo in una malinconica palestra, di un rossetto nascosto alle guardie o del sogno di un pomeriggio di mare a Rimini: si lotta con le unghie e con i denti per qualche scampolo di serenità, per un attimo di gioiosa spensieratezza che dura quanto una canzonetta tastierata da un ambulante nel bel mezzo di in una stazione affollata. A caricarsi sulle spalle il peso di una narrazione tanto esile e rarefatta quanto crudelmente asciutta è la giovane Daphne Scoccia, corpo esile e occhi profondissimi, capace di dosare con sorprendente maturità d’attrice grazia e aggressività, innocenza e sgradevolezza, modestia e brutalità. La sua è la più grande interpretazione dell’anno.
8. Frantz di François Ozon (Francia/Germania, 2016). La giovane e modesta Anna vive in un villaggio tedesco con i genitori del suo promesso sposo, morto in trincea durante la Grande Guerra. Un giorno si imbatte in un ragazzo dall’aria distinta che piange sulla tomba del suo amato Frantz: è un francese, nasconde un segreto, anzi più d’uno, eppure la ragazza non può fare a meno di rimanerne affascinata. Lo pedina, decide di conoscerlo, lo introduce alla famiglia, lo difende dai pregiudizi odiosi dei suoi concittadini. E per Anna, per un attimo almeno, sembra esserci ancora spazio per il colore in una vita consacrata a un penoso bianco e nero. Dopo il passo falso di “Una nuova amica”, il prolifico François Ozon realizza uno dei suoi film più toccanti e potenti. Con uno stile asciutto e rigorosissimo, quasi morigerato, firma un melodramma teso e dolente, sinceramente commovente e privo di sbavature, che si apre al sentimento autentico ma non cede mai al sentimentalismo bieco. E che, in un’epoca di rigurgiti xenofobi e di populismi putrescenti e meschini, risuona come un accorato inno pacifista contro ogni barriera e integralismo. Una boccata di umanità di lancinante necessità.
9. Room di Lenny Abrahamson (USA/Irlanda/Canada/Regno Unito, 2015). Per cinque anni Joy, poco più di una ragazzina, ha vissuto reclusa in una stanza nel capanno di un maniaco. Per cinque anni Joy ha condiviso una claustrofobica e crudele quotidianità insieme al figlioletto Jack, nato dalle violenze del suo aguzzino. Per cinque anni Joy ha cercato di proteggere Jack trasformando quella prigione in una casa agli occhi ingenui e fiduciosi di quel bambino che non ha mai conosciuto altro. Un giorno, finalmente, i due riescono a scappare fortuitamente: per Joy si tratta di un ritorno alla vita, per Jack di una vera e propria seconda nascita, non meno traumatica della prima. Insieme, saranno chiamati a crescere ed evolversi, sopravvivere a sfide nuove e inimmaginate, confrontarsi col trauma della propria esperienza, testare i limiti non più fisici, bensì psicologici e sociali, del mondo. Diretto con sensibilità e mano sicura da Lenny Abrahamson e scritto con tormentosa partecipazione da Emma Donoghue, “Room” è un duetto di straziante profondità, che colpisce soprattutto per la tenerezza pudica attraverso cui riesce a restituire il racconto di una quotidianità atroce, brutale, insopportabile. Una piccola, gentile, perfetta sinfonia a due voci di genuina commozione che trova in Brie Larson, premio Oscar 2016, e nel piccolo Jacob Tremblay due interpreti di consapevole maturità e toccante autenticità.
10. La grande scommessa di Adam McKay (USA, 2015). Basato sull’omonimo bestseller del giornalista Michael Lewis, “La grande scommessa” segue le incredibili (e vere) vicissitudini di un gruppetto quanto mai eterogeneo di speculatori che, per primi, contro ogni previsione, hanno intuito l’imminente crisi del mercato immobiliare del 2008 e hanno deciso di trarre un profitto da quello che i giornali avrebbero presto definito il peggiore crack finanziario dal 1929. Se fosse stato girato negli anni ’70, lo si sarebbe potuto definire un film d’impegno civile. Ma all’alba del terzo millennio la denuncia prende le forme della più indiavolata delle commedie: grazie a una sceneggiatura ferrea e folgorante, “La grande scommessa” alterna con sorprendente freschezza ed efficacia grande spettacolarità hollywoodiana e inserti mockumentary, gag al limite del demenziale e j’accuse da inchiesta à la Michael Moore, senza mai perdere un colpo per gli oltre 130 minuti di visione. Uno spettacolo di (apparente) frizzante leggerezza, che non rinuncia tuttavia a ritrarre con chirurgica precisione le perversioni di un capitalismo spericolato e putrescente, un sistema corrotto e malato, eppure impossibile da sconfiggere. Grande intrattenimento sulle macerie di una grande tragedia: uno di quei film che solo a Hollywood sanno fare.
E ancora:
11.Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti (Italia, 2015)
12.Carol di Todd Haynes (Regno Unito/USA/Australia, 2015)
13.The Hateful Eight di Quentin Tarantino (USA, 2015)
14.Brooklyn di John Crowley (Regno Unito/Irlanda/Canada, 2015)
15.La mia vita da zucchina di Claude Barras (Svizzera/Francia, 2016)
16.Steve Jobs di Danny Boyle (USA/Regno Unito, 2015)
17.Ma Loute di Bruno Dumont (Francia/Germania, 2016)
18.Julieta di Pedro Almodóvar (Spagna, 2016)
19.Tutti vogliono qualcosa di Richard Linklater (USA, 2016)
20.Il club di Pablo Larraín (Cile, 2015)
In chiusura, una menzione al film più triviale, sguaiato, grossolano e inutilmente irritante dell’anno:
Le sorelle perfette (USA, 2015). Tina Fey e Amy Poehler sono il nobile anello di congiunzione tra Joan Rivers e Amy Schumer, tra Lucille Ball e Mindy Kaling. Cresciute nel solco della tradizione, squisitamente anglosassone, degli stand up comedian, nei tardi anni 90 sono riuscite a entrare nella prestigiosa famiglia del Saturday Night Live. In diretta settimanale dagli studi newyorkesi della NBC Fey e Poheler hanno dato vita a duetti esilaranti, sketch iconici e imitazioni memorabili. Sull’onda del crescente successo hanno investito il loro esuberante talento nel florido mondo della serialità televisiva, scrivendo, producendo, dirigendo e interpretando, a vario titolo, serie di culto come “30 Rock” e “Parks and Recreation”. La consacrazione definitiva è arrivata infine con la conduzione, sempre rigorosamente in tandem, di tre edizioni consecutive dei Golden Globes. Non stupisce dunque che abbiano deciso di capitalizzare questo straordinario appeal anche al cinema. La loro prima impresa congiunta risale al 2008 con “Baby Mama”, una commedia irriverente sulla maternità surrogata e l’eterno dilemma carriera/famiglia. Oggi l’inossidabile duo ci riprova con “Le sorelle perfette”, una sorta di “Old School” al femminile, in cui Fey e Poehler organizzano un teen party per quarantenni, ritrovandosi invischiate in una serie di tristi siparietti a base di droghe allucinogene, doppi sensi sessuali, gag scatologiche e imbarazzanti battute sui “cespugli” di cui dovrebbe occuparsi un aitante giardiniere. L’effetto è grottesco. Tanto che, alla lunga, si finisce per chiedersi se le protagoniste siano affette dalla Sindrome di Peter Pan o da demenza senile. Tra una pomiciata in soffitta e una lotta nel fango, Fey e Poehler, qui anche produttrici, si sottopongono a qualsiasi nefandezza senza colpo ferire. Sembrano quasi divertirsi, ma vedere sprecato così il loro talento cangiante e corrosivo è un supplizio che non si augurerebbe nemmeno allo spettatore più sprovveduto.
Stefano Guerini Rocco