In attesa dei nuovi episodi attualmente in produzione, rispolveriamo la prima serie di How To Make It in America. La serie è una via di mezzo tra comedy e drama, ed è un’altra delle meravigliose produzioni targate HBO. Un marchio, una sicurezza. Raramente (o forse addirittura mai) sono rimasto deluso da una delle sue produzioni. Andata in onda nella primavera 2010, How to Make It in America già dal titolo chiarisce quello di cui parla. Racconta infatti di Ben e Cam, due vent’enni newyorkesi alle prese con il sogno americano e tutte le difficoltà per realizzarlo. Ben (Bryan Greenberg) é un aspirante designer di moda, tranquillo e silenzioso, sbarca il lunario facendo gavetta qua e là e cercando l’occasione giusta per sfondare. Tra un’occasione sfumata e l’altra, si mantiene vendendo jeans in un grande magazzino e ha una ex-fidanzata che proprio non gli esce dalla testa. Cam (Victor Rasuk) è completamente diverso: irrequieto e spigliato, rapido ad attar bottone e circondarti di parole e sorrisi, è sempre pronto a farsi coinvolgere in qualcosa che, come si convince ogni volta, lo porterà al successo. I due sono inseparabili, e per riuscire a sfondare nel mondo della moda, sono pronti a tutto, sfruttano le conoscenze e gli agganci della strada, decisi a non mollare alle prime difficoltà.
La storia, che ricorda alla lontanissima il Ralph Lauren nato e creciuto nel Bronx, non è nulla di nuovo. Anzi: due ragazzi, a New York, in cerca dell’american dream. Nessuna novità sotto il sole. La grande novità e il punto forte della serie sta nel come viene trattato il tema. In primo luogo, riguarda il successo, perchè la serie non vuole raccontarlo, ma raccontare come ci si arriva. D’altrone nel titolo il verbo to make non può non far pensare al “fare”. È il percorso ad ostacoli, le difficoltà e la capacità di arrangiarsi, il gioire e farsi forza con le più piccole vittorie che muovono How To Make It in America. Quello che conta è il viaggio, non la meta. (E qui mi sembra di sentire la celeberrima frase di On the road: “Dobbiamo andare. Ma dove? Non lo so, ma dobbiamo andare”). In secondo luogo riguarda la narrazione, perchè qui tutto sembra più vero, più sincero. Guardando questi pochi episodi si ha l’impressione di essere di fronte a due ragazzi qualsiasi, mai ci scontriamo con soluzioni esagerate e costruite ad hoc per lo spettatore. E in questo, oltre alla leggerezza di una sceneggiatura curata in ogni dettaglio, la mossa vincente è nella scelta del cast. I due vestono alla pefezione i proprio personaggi. Greenberg (Ben nella serie) sente molto questa parte, perchè lui stesso ha vissuto anni di gavetta a New York inseguendo il sogno di diventare attore, e tutta questa esperienza la porta sullo schermo con grande verità e intensità. In più si aggiunge l’improvvisazione a cui i due attori sono sottoposti durante la fase di ripresa. Improvvisazione che fa esplodere il talento di Greenberg e Rasuk, e che fa esplodere la senzione di vero che la serie trasmette.
E poi c’è New York. Chi mi segue, sa che tempo fa ho scritto di come New York sia presente nel mio immaginario in ogni sua angolazione, e saprà anche che alla prima occasione sono andato a ricercare tutti quei luoghi visti sullo schermo e che mi attraevano come una calamita. Stranamente non ho trovato nulla che mi riportasse alla NY di How To Make It in America, ma a rifletterci sopra non è poi così tanto strano, perchè la NY di How To Make It in America è una NY diversa. Non ritroviamo quei simboli che la caraterizzano in tutto il mondo, e la rendono la città che tutti conoscono pur non essendoci mai andati. Qui vediamo una NY giovane, vintage e in costante fibrillazione, possiamo quasi respirarla, sentire sulla pelle la sua aria da le mille e una notte. Popolata di giovani sognatori. Simbolo di tutti è il ragazzino che vende merendine in metropolitana, e che si comprerà la mercedes…
Questa New York è raccontata attraverso una serie di fotogrammi che popolano quasi tutti i cambi scena. A volte sono foto di persone in bianco e nero, a volte sono ralenti di “momenti” newyorkesi. È difficile raccontarlo a parole, bisogna guardarlo e lasciarsi sedurre, soprattutto dalla stupefacente sigla iniziale, dove sulle note di “I need a dollar” di Aloe Blacc gli stessi frame che troviamo nel corso degli episodi, qui, giustapposti uno all’altro, vanno a comporre una sinfonia della città, che in un solo minuto ci racconta di tutto e di più. Una sigla così è da cineteca.
Cliccando qua potete vedere la bellissima sigla. Poi guardate anche tutta la serie..
Michele Comba