Umberto Lenzi: Morte al Cinevillaggio

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Febbraio 1944, XXII dell’era fascista; è passato poco più di un anno da quando Bruno Astolfi, ex poliziotto espulso dai ranghi per motivi politici, si è trovato a indagare sul set del film “Harlem”, del regista Carmine Gallone, ed eccolo di nuovo coinvolto in un caso connesso all’ambiente cinematografico: assunto dal commendatore Baglioni Garlaschi per restituire un prezioso orologio alla sventata figlia Paola, che, dopo le avventure con il sosia di Rossano Brazzi e con il gigolò svizzero Jean Luc Bodard, ha abbandonato Roma al seguito del neo-marito Lino Plisman (attoruccio per “professione” e giocatore incallito per passatempo), il detective lascia la casa di Zagarolo (nella quale attende, da sfollato, la fine della guerra) alla volta di Venezia.
Al suo arrivo sulla laguna, troverà la figlia del suo cliente accusata di omicidio, e, per scagionarla, sarà costretto a indagare sugli avanzi di Cinecittà trasferitisi al “Cinevillaggio” (ultimo, misero baluardo della cinematografia fascista), mescolandosi ai pochi (ma potenti) irriducibili che, per distogliere lo sguardo dal regime agonizzante, passano la vita tra orge e banchetti, droghe, pornografia e gioco d’azzardo…


Terzo romanzo del ciclo dedicato al detective Bruno Astolfi, “Morte al Cinevillaggio”(1) non si limita a portare a compimento la parabola personale del protagonista(2) e porre la parola fine alla microstoria del cinema italiano sotto il regime iniziata con “Delitti a Cinecittà, ma segna il punto d’arrivo della ricerca linguistica dell’autore: non è solo nella cura del quadro storico generale e dell’ambientazione, che Umberto Lenzi svolge il suo meticoloso, persino puntiglioso, lavoro di ricostruzione(3), ma anche e soprattutto nella ricomposizione di una lingua “d’epoca”, che s’impone al lettore, invadendo narrazione e dialoghi. A rafforzare il perfetto realismo del romanzo, costruito, ancora una volta con una sapiente miscela di verità e finzione(4), contribuiscono i soliti “volti noti”, presenti in veste di semplici “comparse”(5) o di veri e propri “adiuvanti”(6).
L’intreccio è ben costruito, i personaggi funzionano, le ambientazioni sono perfette, il ritmo non manca, e il bello stile dei due episodi precedenti raggiunge, qui, la sua massima precisione;  e anche se Lenzi ha più volte dichiarato di non essere uno scrittore, ma “un regista prestato alla scrittura”(7), giunti al termine del suo terzo romanzo, è senz’altro il caso di dire che le sue pagine sono destinate a smentirlo…


Il romanzo “Morte al Cinevillaggio“, di Umberto Lenzi, è edito da Congilio Editore.


(1)”Morte al Cinevillaggio” è il seguito (indipendente) dei romanzi “Delitti a Cinecittà” e “Terrore ad Harlem”, entrambi editi da Coniglio Editore.
(2)Sarebbe bello poter dire di no, ma, a giudicare dall’excipit, e a meno che l’autore non decida (e non sarebbe certo una cattiva idea) di riprendere quanto anticipato nell’epilogo e trarne materia per un quarto romanzo, questo “Morte al Cinevillaggio” sembra destinato a tirare il sipario sul personaggio di Astolfi.
(3)Questo “lavoro” che, a dispetto di determinati modi di raccontare classicamente americani (si prenda, per esempio, il tono della narrazione autodiegetica, tipico dell’hardboiled, e dell’americana “scuola dei duri”), rende il romanzo molto credibile nella sua “italianità”, è ben sostenuto dalla bibliografia delle fonti storiche, sociologiche e storico-cinematografiche consultate, inserita in appendice.
(4)La grande differenza tra “Morte al Cinevillaggio” e i precedenti romanzi del ciclo non è da ricercare nella tecnica narrativa, ma nel rapporto tra il protagonista e il cinema: se in “Delitti a Cinecittà” e “Terrore ad Harlem”, cinema e citazione cinematografica, sembravano in grado di attenuare (se non proprio bandire), per Astolfi, la miseria della vita quotidiana sotto il regime, qui, con l’apertura del Cinevillaggio, il detective soffre la momentanea morte del cinema italiano (resa sulla pagina, attraverso l’ultimo incontro con la “sfiorita” Luisa Ferida, ma anche con l’esplosione della bomba al padiglione 2 dell’Istituto Luce) e il temporaneo trionfo del regime e della decadenza.
(5) Su tutti, Ugo Tognazzi e Walter Chiari, entrambi “in divisa” all’epoca dei fatti…
(6)Dino Buzzati, il cui intervento si dimostra provvidenziale come lo era stato, in precedenza, quello di Indro Montanelli in “Terrore ad Harlem”; e chissà che la scelta di questi personaggi, entrambi giornalisti e cruciali per lo svolgimento dell’intreccio, non celi una valenza simbolica, o una velata nostalgia per una stampa d’altri tempi, ancora votata alla ricerca della “verità”…
(7)Si veda, per esempio, il resoconto filmato della presentazione Milanese di “Terrore ad Harlem”, (http://dailymotion.virgilio.it/video/xd33ym_terrore-ad-harlem-l-ultimo-libro-d_news)

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