The Lonely Heart Show: Hope in shadows

Sarà disponibile dal 1 ottobre attraverso “CD Baby”, “Hope in shadows”, album d’esordio della formazione canadese The lonely heart show (http://thelonelyheartshow.com/).

Guidati dal cantante Chris Fehr, già fondatore della band alternative pop “Dual”, bassista di “F&M” e responsabile del progetto ambient “LeisureCo”, i Lonely Heart Show sono, per auto-definizione, un “collettivo” di musicisti, più che una formazione vera e propria. Se nell’elenco dei membri “stabili”, figurano solo il già citato Fehr (voce solista, chitarra, basso, tastiere e basi), e la corista Ellie Chang, cinque sono, infatti,  i “guest musicians” – Timothy McGuinness (chitarra lap steel e telecaster), Bryan ‘miot’ Reichert (chitarre elettriche e acustiche), Chad Williams (percussioni), Rebecca Anderson (fisarmonica) e Brian Epp (Mandolino)- che hanno dato il loro contributo alla costruzione del suono di “Hope in shadows”. Eredi di una tradizione di crooning “decadente” inaugurata, probabilmente, da Scott Walker con i suoi primi dischi solisti, svecchiata con una rilettura “larga” e minimalista degli arrangiamenti (secondo una fortunata formula che unisce al disinteresse per il virtuosismo, la massima cura per la melodia e il ricorso a un buon numero di strumenti, tutti “tenuti a freno” da un solido studio delle parti), liberatasi, nel tempo, dagli eccessi teatrali delle origini, ma ancora carica di quella patina di romanticismo maledetto, quell’atmosfera di abissale sentimentalismo, che, data la dispersione di stili, strumentazioni, approcci, epoche e arrangiamenti, si impone come unica, riconoscibile, differenza specifica del genere, i Lonely Heart Show coniugano un cantato volutamente piatto e baritonale (quel cantato che -i Tindersticks insegnano- rispecchia e riassume, in un singolo effetto di pronuncia, in un abbassamento di volume o in una lieve incrinazione -emozione o vibrato?- malinconica, un’intera visione del mondo) con lievi (ma evocative) coloriture elettroniche di sottofondo (si pensi ai National di Boxer). Si aggiunga, agli ingredienti già citati, la matura vena cantautoriale di Fehr, e si otterrà un’idea approssimativa delle 14 toccanti ed elegantissime tracce di Hope in shadows: 14 brani polverosi e solitari (l’opening track “Dusty roads and Broken Hearts” sembra, in questo senso, contenere una vera e propria dichiarazione di “poetica del suono”), che si rincorrono tra echi western à la Mark Lanegan e palpabili suggestioni cinematografiche, sonorità folk e ninnananne elettroacustiche, lontananze incolmabili e potenza evocativa della voce, tinte fosche, pennellate grigie e improvvisi, inattesi squarci luminosi. D’altra parte, titolo e dedica parlano chiaro e, ad uno sguardo complessivo, la “morale” dell’album sembra essere proprio questa: tutto sommato, c’è speranza, anche per chi crede di aver toccato il fondo…

In occasione dell’uscita dell’album, Chris Fehr ha gentilmente accettato di rispondere alle mie domande


Ciao Chris, e grazie per aver accettato di rispondere alle mie domande. Cominciamo dall’inizio: cosa puoi dirmi del nome della band?

Per questo collettivo, volevo un nome in grado di rappresentare lo stato d’animo generale e, in un certo senso, il “contenuto” della musica che stavo scrivendo. Buona parte dell’album è costituita da ballate lente e riflessive, e mi sembrava importante trovare un nome che riflettesse le emozioni alle quali stavo attingendo. Il mio altro progetto, LeisureCo, è quasi il contrario di Lonely heart show: è leggero, ci sono poche parole ed è più facile da digerire… Lonely Heart Show, invece, è il genere di cosa che la gente può amare o odiare: non c’è spazio per le vie di mezzo. E questo mi sta bene: volevo che quest’album fosse il più onesto possibile, indipendentemente dal successo commerciale.

Una nota all’interno della copertina dichiara che l’album è stato scritto per coloro che, almeno una volta si sono “sentiti soli, in questo bel casino che è la vita”; immagino che questo riguardi più o meno tutti, no? Vuoi commentare questa affermazione? I brani dell’album nascono tutti da esperienze dirette?
La cosa bella del cantautorato è che hai la possibilità di scrivere storie di fantasia, o basarti su esperienze reali. Per “Hope in shadows” ho scelto la seconda via, e mi sono concentrato su cose successe a me personalmente, difficoltà e tutto il resto. Forse questo avvicina l’album a una “mappa”, una serie di indicazioni rivolte a me stesso, ma penso che l’essere onesti, trasparenti, fosse proprio il nodo cruciale della scrittura di questo lavoro. Detto questo, alla base di ciò che sto scrivendo ora, non ci sono solo esperienze personali, ma anche osservazioni sul mondo in cui viviamo.

Pensi che ci sia davvero modo di uscire dall’ombra, e, se sì, come?
Penso che alcune persone siano decisamente più portate alla depressione e alla malinconia rispetto ad altre; queste persone devono lottare di più per raggiungere un livello che permetta loro di intuire che agiscono in vista di uno scopo, e sentirsi realizzate. Forse è per questo che nel mercato musicale c’è una nicchia per ascoltatori interessati solo alle canzoni tristi… ecco, io sono uno di quelli: credo che una canzone “triste” possa dire cose di una profondità preclusa ai brani più “leggeri”. Per quanto riguarda il metodo per “uscire dall’ombra”, be’, quello è soggettivo. Per me è un fatto di comunità, sostegno e volontà di fare scelte difficili. Durante la composizione di quest’album, c’è stato un momento in cui ho veramente toccato il fondo. Avevo solo due scelte: potevo darmi da fare e curarmi da solo, o cercare un medico; ho finito per farmi aiutare, ho trovato un buon gruppo di sostegno, e sono fortunatamente riuscito a evitare cose della quale in seguito mi sarei potuto pentire. Poi, benché io non possa dire di essere religioso in senso stretto, devo ammettere che la spiritualità è parte della mia vita, e contribuisce al modo in cui vedo me stesso e gli altri.

Penso che i tuoi testi dimostrino una qualità letteraria molto spiccata: sono tutti tuoi? Qual è il tuo approccio alla scrittura?
Grazie per il complimento. Sì, scrivo i testi oltre che le musiche; come qualunque cantautore potrà dirti, scrivendo, sono più le volte che arrivi a un punto morto o butti giù un sacco di porcherie prima di tirare fuori che valga veramente la pena di essere registrato: per quest’album, avevo almeno una ventina di canzoni, ma forse di più, tra le quali scegliere, e anche tra quelle che poi sono effettivamente uscite, ce ne sono alcune che preferisco alle altre. Per quanto riguarda l’approccio alla scrittura, non ci sono regole che siano valide i ogni occasione: a volte una canzone viene fuori da una chitarra acustica, altre volte da qualcosa alle tastiere, o da un loop… qualunque cosa può servire da ispirazione. A volte ti metti a tavolino, ti chiudi in una stanza per isolarti dal resto del mondo e non vedi l’ora di scrivere; poi, magari, dopo un paio d’ore hai in mano solo porcherie. In quel caso, comunque, hai combattuto contro una serie di ostacoli e resistenze, e vinto… altre volte, invece, una canzone può essere a posto in un paio d’ore. È un processo imprevedibile e molto interessante, e penso che vari a seconda del periodo di vita che si sta attraversando, e dalle varie esperienze personali.

Sono tue anche le musiche? Come componi?
Be’, io ho alle spalle delle esperienze da tecnico del suono, e quindi ho quasi sempre il Mac acceso, con qualche software in grado di registrare quello che scrivo: Logic o Nuendo. Ora potrei lanciarmi in una lunga disquisizione su attrezzature e programmi specifici: mi piace molto discutere di nuove tecnologie e, ovviamente, non sono contrario al loro uso nella composizione. Ricordo che quando ho completato il mio primo album, nel 1996, pensavo che una canzone non potesse essere considerata davvero tale se non poteva essere suonata con una chitarra in mezzo a un deserto o in cima a una montagna. Be’, il mio punto di vista è cambiato radicalmente quando mi sono trasferito in Corea e ho scoperto il sampling Midi e le potenzialità creative degli strumenti moderni. Penso che a voler fare i puristi si finisca per diventare degli snob: io, invece, amo mescolare strumenti acustici e virtuali. Così la gamma sonora si ampia, permettendomi di tirar fuori la musica così come la immagino, esprimendola in maniera più precisa. E poi, in questo modo, non devo dipendere completamente dagli altri musicisti, anche se mi servo del loro aiuto per dare all’album maggior consistenza, e renderlo più vero.

So che hai degli altri progetti musicali in corso: qual è la differenza tra The lonely heart show, Dual e LeisureCo?
Come ti ho accennato, il suono dei Lonely Heart Show è decisamente di nicchia; Dual era un progetto alternative pop più elettronico e incentrato su voci femminili. Inizialmente il gruppo, che si è formato in Corea nel 1998 era composto esclusivamente da Ellie Chang e me. Abbiamo realizzato due album, il secondo dei quali con una band di cinque elementi, ma dal vivo ci servivamo comunque di pc portatili, per produrre dei loop, e una traccia di metronomo per il nostro batterista Chad Williams. C’erano anche un chitarrista solista (Bryan Reichert) e una tastierista (Janis Chow). I LeisureCo non si sono mai esibiti dal vivo, nonostante abbiano prodotto due album (entrambi disponibili su iTunes, come quelli dei Dual). La musica di LeisureCo è lenta, più scarna dal punto di vista dei testi, e orientata al groove; è più commerciale, lounge, musica di sottofondo per bar, caffè ecc. Al contrario, il fulcro di Lonely Heart Show è nei testi, e tutti i pezzi possono essere resi con un’unica chitarra. Ora, comunque, stiamo lavorando al terzo album LeisureCO, un album più organico dei precedenti, ma sempre dominato da una coloritura chillout e predominanza di voci femminili. Registrerò anche i cori, ma, a parte curare testi e melodie, questo è quanto.

I Lonely Heart Show hanno un sound molto personale; ciononostante, ad un primo ascolto, vi avrei probabilmente collocati da qualche parte tra i Tindersticks e i National, con un accenno di Richard Hawley… Posso chiederti quali sono gli artisti che ti hanno influenzato di più?
Sono molto onorato da questi paragoni: gruppi e artisti citati hanno tutti un posto nel mio cuore. Non posso negare di essere un grande fan di Stuart Staples (Tindersticks), e visto che sono un baritono, in genere ascolto artisti con il mio genere di estensione vocale. L’ultimo lavoro dei National è ottimo, e poi devo dire che li seguo fin dall’uscita di “Alligator”. Per quanto riguarda Richard Hawley, è stato un compagno della scuola di cinematografia a farmelo ascoltare; adoro il modo in cui riesce a produrre brani senza tempo. Amo molto anche Waits, Cash, e Cohen, e, per finire, non posso non citare il grande Daniel Lanois. Noto ai più come produttore -dai Neville Brothers agli U2, e la sua produzione è ancora senza pari-, Lanois è anche un incredibile cantautore. Oh, e l’ultimo album di Iggy Pop, “Preliminaries” è veramente grandioso. Poi, mi interessano tutti i dischi prodotti dalle etichette Beggar’s Banquet, 4AD, e Sub Pop. Per finire, in alto nella lista delle “influenze” c’è anche Mark Lanegan. Adoro i suoi duetti con Isobel Campbell: anche loro producono brani senza tempo.

Stai già pensando ad un secondo album?
Ho iniziato a buttare giù qualche nuovo pezzo, e sto cercando di spingermi al di fuori dell’ambito melanconico/country-noir per esplorare nuovi territori. Uno dei nuovi brani contiene un piccolo omaggio a Bowie e, per il resto, vorrei spingermi di più verso il Rhytm ‘n Blues, sfiorare il jazz… ma vedremo come andrà a finire. Ho sempre stimato le band caratterizzate da una voce riconoscibile, ma in grado di spingersi in diverse direzioni, senza adattarsi a una formula collaudata, a un certo suono caratteristico. Il nuovo album dei Blonde Redhead, “Penny Sparkle” è un esempio perfetto: una band il cui sound è incentrato sulla chitarra prende e produce un album elettronico. Geniale. Li ho visti dal vivo, e mi hanno davvero fatto impazzire. Un altro esempio potrebbero essere i Radiohead con Kid-A: provate a inquadrarli in un genere. Nel corso di quest’anno, ho anche scritto del materiale ambient, e forse tra un po’ di mesi ne avrò abbastanza per far uscire un album sotto un terzo nome, che non sia né Lonely Heart Show né LeisureCo. Mi piace molto utilizzare diversi generi come sbocchi alternativi per la musica che scrivo. Vorrei avere più tempo per la musica!

I Lonely Heart Show hanno già in previsione un tour europeo, o qualcosa del genere?
Mi piacerebbe molto portare in tour Lonely Heart Show, ma non credo che questo avverrà, a meno che il disco non decolli. Mi hanno detto che i Lonely Heart Show sono “decisamente europei” e anche “i cugini europei di Tom Waits”, il che, ovviamente, è interessante… siamo stati in vacanza a Roma nell’ottobre del 2009, ed è lì che è stata scattata la foto di copertina dell’album – una porzione di vita, con me in un angolo. Curioso come succedono queste cose, no? Comunque, al momento abbiamo riscosso più interesse in Italia e in Grecia che nel resto del mondo. È bello trovarsi improvvisamente in contatto con gente che non hai mai incontrato dal vero; penso che la musica sia uno dei dispositivi sociali più potenti…

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