L’anno passato si sono visti sempre più contrapposti critici che esaltano il realismo nel romanzo e critici che aprono alla narrativa fantastica o alla fantasia tout court nella narrazione. È una diatriba che va avanti da decenni ormai, e che deve il suo perché a una serie di fattori che non sto qui a enumerare. Tuttavia, posso mettere in luce la tendenza che ormai tutti conosciamo sul modo che la critica colta adotta nel considerare la letteratura fantastica. La guarda dall’alto in basso, adducendo a motivo improbabile la sua incapacità di raccontare adeguatamente la realtà. Sappiamo bene – soprattutto chi la narrativa fantastica la scrive – come questo sia un preconcetto degno di un’ideologia massacrante di una buona parte del reale esistente, come può esserlo in campo politico e filosofico qualunque altra ideologia.
Gli scrittori italiani hanno reagito, ultimamente, e lo hanno fatto in una direzione che potrebbe essere promettente, dal momento che anche scrittori molto affermati non solo in
Italia ma all’estero hanno messo mano a narrazioni fantastiche.
Però mi sto chiedendo se quanto affermano quei critici – élitari, snob senza dubbio, ma spesso con la testa sulle spalle – non abbia un fondamento di verità. Provo a spiegarmi. L’accusa che viene più spesso mossa alla narrativa fantastica è proprio quella di non saper raccontare la fatica del reale, la tragedia del reale. Dicevo che sappiamo bene come questo non sia vero, però mi sono domandato se gli stessi scrittori fantastici non siano responsabili di questo travisamento, di una simile incomprensione. A ben guardare l’evoluzione della letteratura italiana, una caratteristica che è sempre mancata alla nostra scrittura (tranne, forse, in questi ultimi venti anni) è quella di essere l’immagine rielaborata della vera fatica di vivere, della vera tragedia esistente nella popolazione. Chi ha scritto romanzi anche grandi e alti, lo ha sempre fatto rimanendo nella sua posizione di derivazione classicista, capace di leggere sì la realtà ma sempre attraverso un filtro ideologico (questa volta uso il termine in senso positivo). Qualche scrittore si è sporcato le mani (come dice il bel trafiletto di Ida Bozzi su La Lettura del Corriere della Sera, Perché in Italia non è mai nato, riferendosi a Charles Dickens di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita) prima di mettere mano alla sua penna? Un Saviano lo ha fatto, e abbiamo visto l’effetto dirompente che ha avuto sul nostro modo di pensare “sociale”. Di certo altri scrittori lo hanno fatto negli ultimi anni, ma sono ancora troppo pochi. Opere bellissime come i Malavoglia di Verga risentono troppo dell’élite letteraria (in quel caso il naturalismo francese tradottosi in Italia nel verismo).
Provo ad allargare lo spettro della riflessione. Gli scrittori fantastici cos’hanno fatto? I nostri autori fantastici hanno indubbiamente creato opere meravigliose, anche se spesso misconosciute. Non mi riferisco ai famosissimi Salgari, Calvino e Buzzati (ma faccio presente che comunque rientrano anch’essi nel concetto di élite che se ne sta seduta alla propria scrivania e scrive di fantasia senza essersi sporcati le mani), ma a un esempio su tutti, il bravissimo Bontempelli, che ha anticipato buona parte della narrativa fantasy con le sue creazioni fantasiose. Anche lì, il problema è sempre quello: troppa testa – una grande, fantasiosa, geniale testa, ma sempre testa! – e poco sporco sotto le unghie. I nostri autori fantastici più recenti cos’hanno fatto? Hanno elaborato bellissimi romanzi (sono tra quelli convinti che la nostra fantasy è spesso più originale di quella straniera) ma che nascono sempre da un approccio idealista o filosofico alla realtà.
Forse la realtà va prima vissuta in prima persona, scendendo nei mercati, incontrando gente per strada, sporcandosi le mani tra i poveri, respirando le puzze degli straccioni, conoscendo la difficoltà dell’emarginazione e dell’inserimento sociale degli immigrati, o anche solo entrando in rapporto con i figli di immigrati, che ormai sono Italiani dal bagaglio diversamente ricco, e solo dopo trasformata in narrazione. In questo modo è probabile che possa cambiare l’approccio ancora troppo diffuso tra gli scrittori. E che siano realisti o fantastici non cambia, il problema è comune: c’è ancora uno snobismo letterario che impedisce agli uni e agli altri di parlare davvero fino in fondo del cuore umano. È il caso che ci pensiamo bene, tutti noi che vogliamo donare ai lettori italiani (e perché no, stranieri) opere che siano motivo di riflessione vera sul mondo che ci circonda, e non solo splendidi quaderni ricolmi di elfi, fate, vampiri e distanti realtà sognate.
Ovvero l’eccesso del fantasy perde il legame col reale, e non diventa una sua traduzione in termini fantastici; il fantasy che parte dalle basi fantasy senza dirette trasposizioni. I personaggi addirittura sembrano troppo surreali, un po’ come la distinzione fra Ettore e Achille, e la condizione umana.
Spunti di riflessione molto interessanti.
Sì, più o meno. Non si tratta proprio di traduzione in termini fantastici, che potrebbe far pensare a un’allegoria, quanto del legame che ha intrinsecamente con il reale. Come dici tu, se si parte da basi unicamente fantasy, il rischio è quello di fare un viaggio tutto separato dalla veridicità della condizione umana, incapace di parlare del reale.
Non è che lo si debba fare per forza di cose, ma oggi il fantastico italiano soffre forse di questa particolare incapacità, e mi sono domandato quale potesse essere la causa.
Lo snobismo di cui soffre tutta la nostra narrativa (ma lo ripeto: quella di questi ultimi dieci o quindici anni un po’ di meno) verso la realtà potrebbe esserne il motivo.
Anche quando si è scritto narrativa realistica, lo si è fatto sempre partendo da un presupposto che teneva fuori dai metodi narrativi le sfumature più problematiche e simboliche dell’uomo. Non a caso la narrativa italiana (così come la cinematografia italiana) quasi non sa cosa sia, il simbolo.
Pingback: Con che atteggiamento si scrive? | L'albero del pensiero
Il reale? Dipende, è materia da trattare con attenzione se non si vuole strappare via il meraviglioso che ammanta il fantastico. Sinceramente per quanto riguarda il fantasy italiano ho letto diversi libri dove si parla con crudezza delle vite di povera gente (Zeferina, Acchiapparatti, Burattinaio…) e, per quanto riguarda questo aspetto, spero anzi che ci si dia una calmata altrimenti andiamo a seguire il solco del neorealismo italiano nel cinema, con una cinquantina di anni di ritardo.
Quanto reale, e quanto realistico? Tolkien mise del SdA le trincee della prima guerra mondiale (scena del passaggio nelle paludi), ma non si capisce immediatamente, e preferisco così. Metafore troppo immediate, riferimenti diretti non mi piacciono, strappano via dal mondo secondario dell’ambientazione… ma a ognuno i suoi gusti.
Personalmente, ho scritto del problema dell’immigrazione, ma facendo metafora ben diversa e mascherata rispetto al reale, in modo che “chi vuol intendere intenda” e “chi non vuole” si goda l’avventura. Ma, nonostante qualche piazzamento ai concorsi e un paio di pacche sulle spalle, non c’è pericolo che il mio libro esca.
Ciao Bruno. In effetti anche io propenderei più per il “chi vuol intendere intenda”, detto così, a livello generale. Per quanto riguarda i libri che hai indicato, però, non rappresentano esattamente ciò che intendo dire.
Non è tanto il parlare della povera gente – che allora sì il nostro fantasy (o fantastico) diventerebbe una pista parallela e alternativa all’ormai vecchio neorealismo italiano – quanto il parlare della realtà odierna, guardata attraverso occhi fantastici. In effetti più che di fantasy, ho preferito parlare di narrativa fantastica, perché può essere che il fantasy in senso stretto non possa prescindere da quel meraviglioso di cui parli tu. Lì ci sono stilemi da rispettare (ma sempre con la grande libertà di chi sa il fatto suo, e da qui l’indubbia originalità di opere come Wunderkind e Acchiapparatti), ma nell’ambito più ampio del fantastico ci si può permettere quella libertà che – forse – è decisiva per un confronto che aiuti a crescere ulteriormente la nostra narrativa.
Il problema su cui intendo portare l’attenzione è quello già toccato, per esempio, da Lara Manni in questo post sul suo blog.
Inoltre, è molto interessante per approfondire ulteriormente e diversamente l’argomento l’articolo di Wu Ming su Giap!, La salvezza di Euridice/2.
Pingback: Con che atteggiamento si scrive? « L'albero del pensiero