Canne al vento (e crop circle in testa)

Certe serate sarebbero da evitare a priori. Non tanto per la logistica astrusa che fa di u‘idealista dei mezzi una disadattata sociale. Neppure per aver attraverso in cuissard il ponte di Porta Genova rischiando di cimentarmi in un doppio axel con bacino incrinato causa città sotto assedio della galaverna. Il problema non è stato nemmeno rischiare l’assideramento quando, come una peripatetica (di scuola aristotelica, ca va sans dire) ho cominciato a percorrere in lunghezza un marciapiede di Via Tortona intrattenendomi con la canonica amica in crisi dall’altra parte della cornetta. Esagero: non è stato rilevante per una pigra del mio calibro con la  motricità di un’anziana dall’osteoporosi cronica, attraversare una Milano fredda da tagliare.


Il peggio è venuto dopo. Se è un dato di fatto che l’abito non faccia il monaco, è altrettanto vero che per Milano questa regola aurea non si può applicare. E’ la moda, con i suoi parametri sfalsati di apparenza, che ha mescolato i piani di apparenza e realtà. Un locale ,  ”pettinato”di primo acchito, rischia  di trasformarsi in bisca. Tapparelle abbassate, avventori liquidati. Resta, il baffuto proprietario che si aggira nell’unico tavolo ancora occupato. Volute di fumo incidono l’aria, mentre mosche di caffè volevano nelle sambuche sul tavolo.

Certe serate andrebbero aborrite come il fumo negli occhi. Ecco, appunto. Vogliamo parlare della cortina fumogena? Nel retrobottega uno dovrebbe evitare di andare. Il classico refugium peccatorum dove si accumulano le cose che si è tentati di buttare ma non si ha il coraggio. Una stanza di decompressione. O dei brasati, come dicono gli autoctoni. Eppure di cappello di prete stufato nel barolo neanche l’ombra. Il ristorante rivendica una matrice lombarda. Risotto con l’ossobuco, orecchia d’elefante, e la casoela. Costine di maiale annegate nella verza saltata. Un’esperienza papillo gustativa di stampo porno-gastrico. Almeno per noi che ci addormentiamo sotto la madunina. Le volute cominciano a impregnare i vestiti e il baffo ha la palpebra calante.

“Compro due, lascio uno”, l’ultima frase di (non) senso compiuto che ricordo di aver sentito. Seguita da  una copia dedicata da terzi del mio romanzo da conservare in libreria. A futura memoria. Di che cosa, non si sa.

La galaverna, intanto, è diventata una patina di ghiaccio. L’axel di cui sopra torna a rivendicare il suo ruolo. Holiday on ice, in versione bulgara. Mentre la macchina del fumo continua a sbuffare alle nostre spalle.

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