Appunti sanfeliciani: perché voglio ricordare

Quando dalla redazione di Appunti sanfeliciani mi hanno chiesto di scrivere un pezzo sul terremoto, in occasione dell’anniversario dalla prima scossa, per un attimo mi sono sentita inadeguata. In questo anno abbiamo cercato tutti di guardare avanti e anche se mi capita spesso di svegliarmi alle 4 di mattina con il cuore in fiamme e un senso di terrore che mi stringe il petto, anche se  i lavori di ricostruzione nel mio paese sono solo agli inizi, ho cercato in qualche modo di trovare nuove abitudini e di dare alla mia vita una parvenza di normalità. Come tutti gli emiliani del resto, ognuno a modo suo.

Poi, ho accettato di farlo. Ho iniziato a scrivere quel pezzo con il timore reverenziale di chi sta per affrontare un mostro forte e pericoloso, che credevi dormisse da qualche parte e invece si è risvegliato e ti sta aspettando al varco. E ancora una volta scrivere mi ha aiutato. Aiutato a superare una data difficile e a fare un passo in avanti verso la guarigione da un ricordo tagliente che ci ha reso per sempre diversi. Ve lo propongo.

“Ci sono anniversari che non si vorrebbero dimenticare mai, giorni di felicità che vorremmo restassero per sempre impressi nella memoria, ma soprattutto nel nostro cuore. Il giorno della laurea, quel compleanno da bambino quando il nonno ti aveva regalato proprio il giocattolo che desideravi, il giorno del matrimonio, la nascita del primo figlio; la prima volta che l’hai guardato negli occhi e l’hai riconosciuto come parte di te. Una giornata al mare con il sole che sembra lambire la superficie dell’acqua, le onde si infrangono a riva con morbidi sussurri e senza motivo hai pensato che in fondo basta poco per accarezzare un istante di gioia, perché la vita è fatta di attimi, sì, proprio come dicono le canzoni.

Ci sono giorni invece che vorresti dimenticare. Ma dentro di te lo sai, che non potrai dimenticarli mai. Il 20 maggio 2012, per esempio.

Cosa è rimasto della mia identità? Me lo chiedevo spesso durante le settimane successive al sisma. Perché, chiuse tra le transenne della zona rossa, c’erano anche le macerie dei miei ricordi, immagini svuotate della dolcezza e della speranza che custodivano. San Felice, per me, era fatta di mattoni, di campi di frumento, di alberi a perdita d’occhio lungo le piste ciclabili e dei piumini dei pioppi che le riempivano in primavera, di autoscatti davanti alla Rocca dopo essere stata al cinema, di gelati dal Cicci con liquirizia e cioccolato, di neve fuori stagione e di corse per prendere il treno perché la campanella sta suonando e accidenti alle scarpe sbagliate, che i tacchi per correre non sono per niente adatti. Era fatta di ricordi. Di abitudini che mi ero scelta col passare del tempo e a chi mi conosceva raccontavano qualcosa di me.

Poi, domenica 20 maggio alle 4:04 del mattino, quella narrazione si è interrotta. Ricordo il brusco risveglio. Il mio appartamento sembrava indemoniato. Era difficile anche scendere dal letto, il pavimento mi respingeva, voleva vedermi in ginocchio. Non scorderò mai la sua voce. La voce distorta dell’urlo della terra, che dalle viscere della terra entra nelle tue, di viscere. Un boato dissonante, prolungato, in cui si incastrano muri che fremono, tetti che sobbalzano.

Poi è iniziata una sequenza di giorni tutti uguali, in cui il tempo era scandito dai continui assedi delle scosse. Un logorio che non lasciava sosta, un braccio di ferro tra la forza della natura e i nervi. Erano giorni in cui si alternava la pioggia al caldo, in cui i sedili di un’auto potevano diventare il riparo per la notte per un’intera famiglia, padre, madre e figli piccoli.

Oltre alle tendopoli della Protezione civile, ecco spuntare tanti piccoli accampamenti, uno per ogni rione, e i vicini che si ritrovavano a essere di nuovo dirimpettai, a ricostruire relazioni come un tempo intorno al focolare.

Mia nonna mi ha detto che in tempo di guerra bisognava spegnere presto le luci, così, la sera le sorelle si riunivano intorno al caminetto, e si raccontavano delle storie. Lei non aveva paura dei bombardamenti e, piuttosto che ripararsi, preferiva uscire per guardare gli aerei che sfrecciavano nel cielo. Aveva un sacchetto di rete dove custodiva i piccoli oggetti a lei cari, tra cui una scatola di latta con dentro due bottoni, un pezzo di nastro e una spagnoletta. La teneva sempre con sé, il suo unico bagaglio per quando tornavano le bombe e bisognava essere pronti a spatinàr, la parola in dialetto per intendere evacuare e cercare un nuovo rifugio. Questo aneddoto mi è venuto in mente mentre raccoglievo i cocci della mia collezione di ceramiche, scelte in anni di frequentazione dei mercatini. Non si è salvato praticamente nulla, ma ho trovato intatta la testolina di una statuetta anni Trenta, dall’espressione dolce e malinconica al tempo stesso. Finirà nel mio cassetto dei ricordi, insieme a nuovi simboli e nuove storie da raccontare.

Storie di eroi schivi come don Giorgio, il nostro parroco, che dopo la scossa dell’una e mezza ha fatto evacuare gli scout che ospitava in canonica, salvando loro la vita. La canonica che è collassata su se stessa, alle 4:04 di un mattino che doveva essere come tanti, insieme alla chiesa di fronte, della quale ora rimane solo una parte della facciata. A crollare, anche la piccola chiesa del Mulino. La settimana prima del terremoto, ho visitato la mostra del fotografo Giuseppe Goldoni, allestita alla torre Borgo. Giuseppe ha raccontato la vita del paese attraverso scatti rubati alla quotidianità e ai suoi riti, lo ha fatto da quando aveva vent’anni, subito dopo la fine della guerra. C’è una foto, in particolare, che ha attirato la mia attenzione. L’anno è il 1950. Proprio davanti alla chiesa del Mulino, in sfilata in processione sembra esserci l’intero paese, dal tanto che la strada è gremita. La torre Borgo è crollata, e nella foto che ho scattato all’alba della prima scossa davanti alla chiesa del Mulino, c’erano soltanto detriti, a ricoprire la strada.

Ma ora i detriti iniziano a diventare cantieri. Il nuovo centro storico sta prendendo vita e con esso nuove abitudini. È questo che voglio ricordare. Voglio ricordare come ci siamo risollevati, voglio ricordare che abbiamo saputo trasformare la paura in coraggio, voglio ricordare anche per chi non c’è più.
Perché i nostri ricordi nessun terremoto potrà mai abbatterli.

Siamo qui, nella nostra terra. Ancora.”

 

 

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One Response to Appunti sanfeliciani: perché voglio ricordare

  1. Glauco says:

    Oh mamma… fa venire i brividi ancora oggi.

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