Circa il valore della rete come modello strategico politico.

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E’ evidente che i tempi sono maturi. In questi giorni, e in contesti differenti, sono stati pubblicati alcuni testi che impongono, per la loro pregnanza, una precisa riflessione. Mi riferisco principalmente alla nota di Franco Berardi,  intitolata Cosa insegno quest’anno a Brera , all’articolo di Valerio Evangelisti pubblicato su Carmilla,  Dal Wisconsin al NordAfrica e all’articolo di Sergio Bologna Il lavoro cambia. E allora che si fa?

Queste pubblicazioni emergono in un panorama dove le interpretazioni e le analisi sullo stato della conflittualità sociale e sulle sue modalità espressive sono almeno quotidiane. I social network e i blog, ma anche il mondo accademico e il giornalismo più sensibile, i sindacati e le parti sociali, ciò che resta dei partiti e il mondo intellettuale, ovunque ci si interroga, e si cerca di comprendere la densità degli eventi in corso. L’articolo di Evangelisti in particolare costituisce – in un certo senso – i prodromi della nota di Bifo. E’ come se Evangelisti si fosse occupato dell’analisi strategica, e – a seguire – Bifo avesse descritto le conseguenze tattiche. Questa consequenzialità non è così lineare come vorrei farla apparire – mi rendo conto – ma esiste una contiguità, dettata dal comune approccio movimentista. Sospendo momentaneamente la questione delle implicazioni di questo termine, e mi limito a indicare la comune opposizione  alla forma partito sostenuta da chi si riconosce in questa definizione. Evangelisti sostiene esplicitamente la correlazione tra i molteplici movimenti di rivolta in atto, dal Midwest fino al Maghreb e al Medio Oriente, passando per l’intera Europa, sia mediterranea che continentale, e che questo filo rosso unificante sia identificabile con l’appartenenza ad una stessa classe.

“Nessuno riesce a formulare un’analisi di classe. L’unica che potrebbe tenere insieme, in un medesimo quadro interpretativo, le rivolte [...] Siamo in presenza di un nuovo 1967-68. Una ribellione mondiale contro le imposizioni capitalistiche.”

Il concetto è diretto e lascia pochi spazi alle interpretazioni. La teoria esposta da Evangelisti vede nel moderno capitalismo globalizzato e nelle corporation l’espressione politico – militare di una dottrina economica, il monetarismo. Questo sarebbe una forma degenerata, una specie di mutazione genetica del principio keynesiano della centralità del debito pubblico rispetto alla produzione industriale. Conseguenza diretta della omogeneizzazione del capitale su scala mondiale sarebbe un’operazione speculare nella configurazione delle classi sociali, e questo lo porta a sostenere che i lavoratori del pubblico impiego del MidWest, i precari italiani, i ribelli libici o egiziani, rispondono tutti alla stessa logica di opposizione a un nemico unico, e proprio per questo apparterrebbero tutti alla medesima classe sociale, la classe subalterna. Il concetto di Classe nella dottrina marxista ha una sua precisa determinazione storica, e alle classi corrispondono delle modalità della produzione, e un rapporto preciso con la proprietà dei mezzi di produzione stessi. Evangelisti a questo proposito utilizza un concetto – quello di classe subalterna – che non è organico alla composizione sociale, ma è chiaro che il suo obiettivo è di porre un problema di ordine politico, una considerazione di ordine mitologico e narratologico, piuttosto che economica. Ma anche esulando da una lettura tecnica, come può avvenire questo? Ricondurre ogni processo sotto un unico modello interpretativo significa decontestualizzarlo, estrarre i personaggi dalla scena e renderli  astorici. Non vi è più alcun legame con le condizioni specifiche e contingenti della produzione, ma solo un emanazione di stampo teologico. Il capitale e la classe diventano i due poli di un manicheismo, mentre la complessità delle relazioni oggi inerenti alle forme di produzione rimanda ad una rete di connessioni, e a un legame ben più articolato dell’opposizione semplice. Il capitale si realizza nella sua dialettica. Il capitale è oggi indefinito, illimitato e essenzialmente s-terminato, assolutamente trascendente nella sua immanenza assoluta, ovvero sempre ‘altro’ da ciò in cui viene identificato. Il capitale, nel suo essere ossimoro, “[...] rimodella di continuo le classi subalterne, a seconda delle necessità”.  E qui Evangelisti si ferma, riconoscendo che questo processo continuo di reciproca influenza e trasformazione sia dei bisogni che della produzione, pur producendo “plusvalore, diretto o indiretto”, comporta che le classi subalterne “non si riconoscano in un’unica compagine portatrice di rivendicazioni”. Ovvero: la coscienza di classe, il riconoscimento, la ricomposizione del proletariato in un soggetto politico, è impossibile, proprio perché l’azione costantemente smarcante e metamorfica del capitale crea un debordiano spaesamento, uno slittamento del senso e del valore che impedisce l’unificazione dei progetti rivoluzionari. Fine del sogno, l’analisi politica a questo punto è conclusa. Che fare? Berardi riprende il cammino esattamente da questo punto, dove Evangelisti si interrompe. Come si risolve la questione del riconoscimento di classe?  La risposta è molto precisa: non si risolve in se, ma esiste un soggetto che è deputato a svelare ciò che è ancora da portare alla coscienza, ovvero l’intellettuale. Bifo va a Brera a insegnare ai suoi studenti come si organizza un’insurrezione, perché è l’unica cosa di cui – in quanto intellettuale – può parlare. Di cui si deve parlare. Esistono quindi i maestri, ammettendo così implicitamente il senso e la necessità della forma partito, da un lato, e riproponendo il senso di un ruolo, quello dell’intellettuale organico che è depositario di un compito storico, con una importantissima tradizione in Italia, per cui costui deve anche rischiare la vita, e questo compito è “organizzare l’insurrezione”. La storia della sinistra in Italia è la storia di questi quesiti. Il rapporto tra masse e avanguardia, e il rapporto tra intellettuali e organizzazione politica. Oggi il dibattito, rispetto a Gramsci, ad esempio, ha preso ovviamente un taglio differente. Gli intellettuali sono noti come Knowledge workers, e il loro rapporto con la forma lavoro è decisamente variato. Soprattutto perché è nata e si è sviluppata quella che ormai è nota come produzione intellettuale. Oggi esistono le condizioni perché questo organo del corpo sociale assuma coscienza di se e si esprima, anche militarmente, per provocare la caduta della dittatura finanziaria che governa il mondo occidentale. Gli intellettuali hanno il compito storico di riconoscervisi o di prenderne le distanze. Il tempo dell’ignavia è decisamente finito.  Questo in sostanza è ciò che si dice Bifo. Il confronto che il futuro ci propone è quindi essenzialmente militare: siamo completamente usciti dal piano narrativo simbolico in cui ci tratteneva la strategia di Evangelisti. Non si parla di eroi o di mitologia. Ora si parla di scontro, di rischio, di vita e di futuro. Bifo parla di rivolta, e sa di cosa parla, contrariamente alla maggior parte dei suoi uditori, che lo adulano senza comprenderlo. Le sue parole sono le pietre della prossima intifada, quella delle vie di Milano e Parigi. Eppure qualcosa non funziona, ed è evidente. In prima istanza perché non esiste nel mondo accademico nemmeno una parvenza di quella coesione che è indispensabile al pensiero di Bifo, e a seguire perché nonostante i collegamenti mostrati da Evangelisti, le classi lavoratrici non si pongono in alcun modo come antagoniste globali, bensì operano su di un piano estremamente localizzato e specifico. Il territorio non è il mondo, ma la provincia, se non il comune. Quel processo che Sergio Bologna racconta in atto sin dagli anni sessanta, di deframmentazione della classe operaia sul territorio, allo scopo di indebolirla, è da tempo realizzato, e il decentramento produttivo, l’esternalizzazione, e l’accelerazione subita con l’introduzione delle nuove tecnologie, sono realtà quotidiana, ciò che pomposamente è nota come globalizzazione. Insomma, per dirla sempre con Bologna, “il lavoro non crea più identità”. Ma questo accade anche per il lavoro intellettuale? Si, conferma Sergio Bologna, e difatti è proprio tra i colletti bianchi e i Knowledge workers che nascono le prime forme di precariato. E’ la classe culturalmente più avanzata, ovvero quella più pericolosa, ad essere colpita nel modo più duro dalla trasformazione del mondo del lavoro, dal pacchetto Treu e dalla legge 30. Di conseguenza dovrebbe essere, pare dire Bifo, quella che reagisce nel modo più radicale. Non credo che la trasformazione nel cosiddetto lavoro cognitivo autonomo, proposta da Bologna e Fumagalli, possa rappresentare una soluzione globale delle questioni poste dalla situazione politico economica, ma non credo che nemmeno loro lo pensino. E’ certamente un canale per ridare dignità e potere ad un ambito sociale ridotto ai minimi termini da trent’anni di sconfitte (parto dalla FIAT 1980), ma certo non è un percorso condivisibile con l’intero mondo del lavoro, così profondamente ferito. Aggregazione, autotutela, consapevolezza, creare sinergie, condividere, sono quindi parole d’ordine che percorrono sotterranee questi differenti orizzonti strategici. Eppure la rete, con le decine e decine di siti, blog, pagine, account che solo in questi ultimi anni (diciamo a partire da Genova, ma in particolare nei tempi recentissimi), realizza concretamente e rapidamente (con tutti i suoi limiti, lo sappiamo) proprio queste esigenze. Forse dietro non si trova una strategia politica, e nemmeno una spiegazione filosofica e/o economica. Però funziona. L’aggregazione in rete funziona, e noi di Precarie Menti, ne siamo solo un esempio. Non credo che serva rischiare la vita. La rivoluzione oggi la si fa in ben altri modi. Penso che una costante e puntuale presenza sia una spina nel fianco molto più dolorosa. Lavorare per condividere e coinvolgere, giorno dopo giorno, persona dopo persona, in attivismi concreti e localizzati. Battaglie precise, da vincere. Combattere i simboli e le persone nella loro specificità, per nome e cognome, e proponendo sempre alternative. Controinformazione capillare, presenza sul territorio, rapporti uno a uno. Questo la rete lo consente, chi vuole può farlo, e a maggior ragione dovrebbero farlo i dinosauri della sinistra italiana. La prossima volta, sulle barricate, avremo tutti un mouse.

Articolo originariamente pubblicato su Precarie Menti

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