Crocus oniricus

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Il sole era nascosto dalle nuvole, grigie e arruffate dal vento. Mi aggiravo tra le lapidi del cimitero, a quell’ora deserto di persone vive come me. Nonostante ciò, non mi sentivo per niente sola. Avevo l’impressione di essere in mezzo a una folla, tanto sentivo la presenza delle anime di coloro che riposavano sotto quelle lapidi. Mentre osservavo i volti ritratti negli ovali di ceramica, a volte sbiaditi, a volte severi, o corrucciati, mi tornavano in mente com’erano da vivi, quando li avevo conosciuti, tanti anni fa. A molte di quelle persone erano legati ricordi piacevoli, o quantomeno teneri. Da bambina trascorrevo parte dell’estate a casa dei nonni.

Molti di quegli anziani che ora riposano lì, vicino al nonno e alla nonna, li avevo visti tante volte. Non solo per strada o nei negozi del paesino. Alcuni erano amici del nonno e venivano a trovarlo a casa. Capitava che stessero seduti a chiacchierare per ore, nella lolla pavimentata in pietra grigia e circondata da enormi vasi d’aspidistra, felci e filodendri che le conferivano una luce verdastra da giardino tropicale, dei vecchi tempi, specie della guerra, la Prima Guerra Mondiale.

Davanti ai miei occhi è ancora nitida l’immagine di mio nonno, assiso sul suo scranno, intento a succhiare il cannello della pipa, il pollice incastrato nella catena dell’orologio da tasca che attraversava il panciotto.

Quella pipa adesso sta nella nicchia di sinistra del secretaire che è in camera mia. Ogni volta che mi siedo per scrivere qualcosa, la vedo davanti a me e penso al nonno. Quanto all’orologio, al mio fratellino e a me, da piccoli, sembrava magico. Oltre all’affascinante ticchettio, c’era quel misterioso sportellino posteriore, che il nonno richiudeva con un secco clic, su cui spiccavano le sue iniziali, incise artisticamente, tanto che riuscimmo a decifrarle solo dopo aver imparato a leggere molto bene.

L’altro oggetto indissolubilmente legato al ricordo che ho di lui è l’anello da mignolo che portava sempre. È un classico anello d’oro a Chevaliere, con inciso il suo stemma. Dopo la sua morte, lo ha ereditato mia madre, che lo porta spesso, ma non me lo presta mai… Quando il nonno parlava con i suoi amici, mi permetteva di giocare col suo anello. Naturalmente era troppo grande per le mie dita, ma io lo usavo come un sigillo. Fingevo di chiudere con la ceralacca misteriosi plichi, come un’antica dama, o un antico condottiero… secondo la fantasia del momento.

Mentre mi aggiravo tra una tomba e l’altra, mi tornavano in mente le voci degli amici del nonno e le voci delle vicine che andavano ad ossequiare la nonna. Mi pareva quasi di sentire la risata nasale della vecchia zia Milena o la vocina stridula di zia Mariuccia, mentre, sedute in cerchio attorno alla nonna, parlavano dei fatti del giorno, senza smettere di lisciarsi il grembiale nero che portavano sempre, sopra le gonne, sempre e comunque di colore scuro e debitamente plissettate. Tra una frase e l’altra, quel continuo gesto tipico, di risistemare il fazzoletto che portavano sulla testa. Riannodavano strettamente sotto il mento le cocche dei foulard di lana, di colore nero, grigio o marrone, in tinta unita e mai in fantasie a fiori, che indossavano anche in piena estate. Ma la cosa che m’incuriosiva di più era la tasca del grembiale: tutte queste zie avevano la tasca sempre gonfia, piena di chissà che cosa, pensavo io! Si sentiva sempre un festoso tintinnio di chiavi, provenire da quelle tasche, provvidenzialmente chiuse da una spilla da balia. Ciò bastava per stimolare la mia fantasia di bambina. Immaginavo che quelle chiavi, che qualche volta avevo intravisto – di ferro nero, lunghissime, antichissime, vere Chiavi di San Pietro –, aprissero chissà quali misteriosi bauli o cassetti segreti, invece che più prosaici, vetusti portoni di case spesso cadenti.

L’unica, fra tutte queste zie, a differenziarsi un poco era la gigantesca zia Angela. Era più bassa solamente di mia nonna, che svettava, ai suoi tempi, come la più alta del paesino. Zia Angela rimase alta e diritta come un fuso fino in tarda età, nonostante avesse cominciato ad avere problemi agli occhi, fino alla cecità degli ultimi anni. Un ricordo preciso, nitidissimo, mi tornava alla mente. Circa quindici anni fa mio zio tornò in visita al paesino, con la famiglia. Mi aggregai anch’io, per stare un po’ con mia cugina. Arrivammo dalla zia, rimasta sola nella grande casa di pietra dopo la morte dei genitori, che era già buio, non visti. L’indomani mattina, dopo che la zia uscì a fare spese per festeggiare degnamente noi ospiti, mia cugina e io decidemmo di fare una passeggiata.

Stavamo chiudendoci il cancello alle spalle, per non far uscire il cane della zia in strada, quando si precipitò, almeno così ci sembrò, quasi correndo verso di noi, zia Angela. Pur riuscendo a percepire solo le ombre delle figure, il suo udito sensibilissimo le aveva fatto capire quando nostra zia era uscita. Sapendo che vive sola, al cigolio del cancello che noi stavamo richiudendo, pensò subito a dei ladri. Infatti, ci afferrò ciascuna per il gomito, con una presa incredibilmente salda per la sua età, e ci apostrofò piuttosto bruscamente. Ci aveva scambiato per dei ragazzini con cattive intenzioni, evidentemente, perché ci disse: «Piccioccheddus, itta seis fadendi? Boleis furai in dommu de Donna Bice?». (Ragazzini, cosa state facendo? Volete rubare a casa di Donna Bice?).

Vedendola così agitata mi affrettai a chiarire l’equivoco, spiegarle che non eravamo aspiranti ladri e farle capire chi fossimo realmente.

«Nossi, tzia Angela, seus is nettixeddas de Donna Bice, non boleus furai nudda! Ledi, kusta est sa filla de Don Giuanni, e deu seu sa filla de Donna Concetta, seus arribbaus tottus ariseu a su notti.

Est po kustu ca fostei non s’adi intendiu arribbai».(No, zia Angela, siamo le nipotine di Donna Bice, non vogliamo rubare niente! Veda, questa è la figlia di Don Giovanni, ed io sono la figlia di Donna Concetta, siamo arrivati tutti ieri notte. È per questo che lei non ci ha sentito arrivare).

Subito, zia Angela si calmò, mollò la presa sui nostri gomiti, e protese le mani prima verso il volto di mia cugina, poi il mio. Mentre ci sfiorava il viso con molta delicatezza, sorrideva e annuiva. Mia cugina e io ci guardavamo stupite, ma lei non se ne accorgeva e, come fra sé e sé, mormorava seria, seria:

«Sissi, sissi, kusta est sa filla de Don Giuanni: assimbillada a sa tzia, sa cara est simbili a Donna Bice!» (Sì, sì, questa è la figlia di Don Giovanni: assomiglia alla zia, il viso è simile a quello di Donna Bice!).

Poi, sfiorando il mio viso: «E kusta est sa filla de Donna Concetta, sissi, is propius lineamentus delicaus de sa mamma, bella comenti unu frori de arrosa». (E questa è la figlia di Donna Concetta, sì, gli stessi lineamenti delicati della mamma, bella come una rosa).

Le sue parole mi fecero arrossire. Ciò non toglie che aveva perfettamente percepito le somiglianze, col solo tocco delle mani. Con mia cugina ci scambiavamo occhiate di meraviglia, ammirate dalla perspicacia della vecchia signora. Zia Angela non poteva sapere che in famiglia mia cugina era considerata il clone della nostra super zia, la zia per antonomasia, e, per me, anche vice madre. Quanto a me, lì al paesino di mia madre, mi hanno sempre fatto notare la somiglianza con lei, che tutti loro conoscevano da piccola. Invece, dove abito tutti notano che somiglio tantissimo a mio padre. Evidentemente, le somiglianze dipendono dagli occhi di chi guarda. Ma zia Angela non ci vedeva quasi più. Come aveva fatto?

A distanza di tanto tempo, mi trovai senza rendermene conto davanti alla sua tomba. Non sapevo che zia Angela fosse sepolta lì, sotto quel marmo grigio. Possibile che sia stato un caso a portarmi proprio davanti alla sua lapide? Mi fermai, con l’intenzione di recitare una preghiera. Alzando lo sguardo verso la sua foto notai un fiore di zafferano, ancora in boccio, fermato con un pezzo di nastro adesivo sul marmo della lapide. Strano, il vaso in basso, sulla destra, era riempito con un mazzo di fiori freschi… perché quel bocciolo di croco? Era così… incongruo.

Tornando sul vialetto principale, per arrivare alle tombe dei miei cari, riflettevo sulla stranezza della cosa. Era quasi l’ora di chiusura, cominciavo a sentirmi stranamente a disagio e non riuscivo a spiegarmene la ragione.

Oltrepassato il cancello del cimitero, non me la sentii di rientrare subito a casa della zia. Mi diressi verso un ulivo secolare, all’uscita del paese, poco oltre il cimitero. Tra tutti gli ulivi ultracentenari di quella zona, ne amavo uno in particolare, sin da quando ci andavo col nonno, durante le sempre più rare passeggiate che si concedeva, negli ultimi anni della sua vita. Prima di rientrare tra i vivi volevo stare un po’ da sola, per staccarmi dal mondo dei morti dove ero stata fino a quel momento. Carpire un po’ dell’energia vitale di quel maestoso patriarca vegetale mi pareva un ottimo modo per riuscirci. Arrivata al cospetto del patriarca, mi ritrovai senza accorgermene seduta per terra, con la schiena appoggiata al tronco, contorto e a tratti offeso, ma non piegato, dal fuoco e dal vento.

Allungando la mano sopra la testa, strappai qualche foglia dalle fronde grigio argento e cominciai ad annusarle ad occhi chiusi. Ricordai che lo facevo sempre, da piccola, ma non ricordo più il motivo di questo mio rituale. Mentre stavo lì, sotto le fronde, e annusavo le foglie ad occhi chiusi, mi apparve nitida l’immagine del nonno, che cominciò a parlarmi. Ma non era un ricordo d’infanzia: mi parlava di cose che erano successe dopo la sua morte. Avevo solo dodici anni quando lui morì. Invece, il nonno mi stava rimproverando per dei fatti, azioni o pensieri non solo degli ultimi dieci o quindici anni, ma di pochi mesi fa o addirittura del giorno prima. Come poteva saperle? In quel momento, però, mi parve del tutto normale che fossimo lì a parlare e che lui, con lo stesso tono burbero che ricordavo e vestito come sempre: panciotto, camicia bianca immacolata, col solito bastone con cui sottolineare le frasi, mi chiedesse di spiegargli il perché e il percome del mio comportamento in determinate occasioni.

Pur trovando lodevole il fatto che io fossi molto disponibile ad aiutare gli amici, lui riteneva che non dovevo esagerare. E che, comunque, dovessi imparare meglio a distinguere gli amici per i quali valeva la pena farlo. Il nonno m’invitava ad essere un po’ più egoista, perché sapeva che i dispiaceri mi facevano così male che il mio fisico delicato – decisamente non avevo preso da lui, si stizzì, battendo con forza il bastone sul terreno! – ne risentiva e questo non andava bene. Era giusto stare vicino a una persona in difficoltà, ma senza smettere di mangiare per la preoccupazione! E già che parlavamo di mangiare, mi elogiò per la scelta del menù della cena della sera prima. I malloreddus allo zafferano, con ragù di vitella sardo modicana, la carne di agnello allo zafferano e limone, e i tipici dolcetti di formaggio aromatizzato con la buccia di limone e zafferano, avevano la sua approvazione. Piuttosto, gli doleva farmi notare che non avrei dovuto accettare l’invito a cena da parte di quelle persone. Riteneva che dovessi scegliere amicizie adatte al mio carattere riservato, non frequentare gente così chiassosa e vacua. Mi ricordò che lui stesso aveva sempre evitato quel genere di frequentazioni, piuttosto stava a casa, del resto, aggiunse, “Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera”. Mi suggeriva per il futuro di prestare più attenzione e di ricordare i suoi insegnamenti.

Qualora fossi stata ancora in difficoltà, avrei potuto contare sui suoi saggi consigli.

Obiettai che non sapevo come raggiungerlo, se avessi avuto bisogno di un suo parere. Batté un altro stizzoso colpo di bastone sul terreno.

Ma come, protestò, non era chiaro che il segnale da usare per fargli sapere che volevo parlare con lui era lo zafferano? Potevo lasciare un bocciolo sulla sua tomba, come facevano i nipoti di zia Angela e tanti altri giovani sulle lapidi dei loro avi, o circondarmi dell’aroma del croco, come durante quella cena.

Tutto divenne chiaro, e il nonno svanì. Aprii gli occhi, li richiusi, ma il nonno non c’era più.

Aveva assolto il suo compito.

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