Nell’anno in cui la Francia ha riconosciuto legalmente le unioni omoaffettive, il Festival di Cannes ha incoronato un film (francese) a esplicita tematica gay: “La vita di Adele – Capitoli 1 & 2” del maestro franco-tunisino Abdellatif Kechiche, si è aggiudicato la Palma d’oro, che la giuria presieduta da Steven Spielberg ha voluto tripartire, per la prima volta nella storia, tra il regista e le due interpreti principali.
All’origine della pellicola c’è la graphic novel di Julie Maroh “Le Bleu est une couleur chaude”, di cui però il film non è il semplice adattamento cinematografico. La sceneggiatura, firmata dal regista e da Ghalia Lacroix, attinge a piene mani anche da Sartre e da “La vie de Marianne” di Marivaux (come nel precedente “La schivata”) e da molti testi colti, altissimi, più volte citati da Adele e dagli altri personaggi, pur sempre con naturalezza e senza spirito declamatorio.
Occhi sgranati e passo svelto, Adele (Adèle Exarchopoulos) è una spigliata liceale in procinto di affacciarsi alla vita adulta. Come molte sue coetanee, passa le giornate tra le lezioni a scuola, i pranzi in famiglia e le uscite con le amiche, ma le sembra di “fare finta, fare finta su tutto”. Un giorno, mentre sta andando ad incontrare il fidanzatino in centro, Adele incrocia casualmente Emma (Léa Seydoux), studentessa di Belle Arti dallo sguardo felino e dai capelli blu: è l’inizio di una storia d’amore intensa, viscerale e dolorosa che travolgerà le due ragazze e lascerà in loro un segno indelebile.
Kechiche, autore sempre profondo e sensibile, affonda il suo sguardo acuto direttamente nella realtà, nella materia viva della sua narrazione. Quella di Adele ed Emma è una vicenda che potrebbe sorprendere per la sua semplicità: la storia di un’adolescente alla ricerca di sé, dell’incontro col suo primo grande amore, delle sfide e delle delusioni della maturità. Ma quello che sorprende veramente è la rivoluzione dello sguardo che Kechiche impone allo spettatore con la sua estrema e sincera, mai voyeuristica, adesione al reale.
Per tre ore la macchina da presa non lascia quasi mai il viso di Adele, còlto, senza imbarazzi né forzature, mentre dorme, piange, ansima, pensa, gode, mangia, ride. E quando Emma è presente, lo sguardo si apre anche su di lei, ma senza disperdersi sullo sfondo, sull’ambiente, sul contesto. Il regista non si distrae mai, assedia ostinatamente le sue protagoniste alla ricerca della verità di ogni gesto e reazione, valorizzando anche l’imprevisto: nessuna barriera o scappatoia è offerta alle sue interpreti, che non hanno altra scelta se non quella di “essere”, autenticamente, davanti alla pressante macchina da presa. Quella proposta da Kechiche è dunque un’analisi del reale senza filtro alcuno: lo spettatore è spronato verso una “visione nuova” capace di annullare la distanza tra oggetto e soggetto della narrazione e di ridefinire di conseguenza anche il ruolo (attivo) dello spettatore stesso.
Il regista imbastisce così la sua personalissima cronaca di un amore: dilata i tempi del racconto, concede spazio ai silenzi e ai respiri, si sofferma sugli sguardi e le pause, indugia su particolari apparentemente insignificanti per cogliere ogni sfumatura emozionale, ogni ombra emotiva che percorre i volti (e i corpi) delle due protagoniste, restituendo così una concretezza materica alla loro passione profonda e totalizzante. Alfred Hitchcock sosteneva che “il cinema è la vita, con le parti noiose tagliate”. Se questo è vero, allora si potrebbe affermare che in questo film c’è più vita che cinema.
Kechiche non rinuncia ad alcuni dei temi più cari della sua poetica (le dinamiche di gruppo, le tensioni sociali, le contraddizioni della borghesia), ma li lascia suggeriti sottotraccia, preferendo concentrarsi sul percorso amoroso delle due protagoniste, raccontato senza reticenze tra tenerezze e meschinità, slanci erotici e piccolezze quotidiane. La narrazione procede così fluida tra fitte sequenze ed ellissi temporali, scandita da un’immagine ricorrente (la panchina nel parco) che sintetizza con puntualità le fasi della relazione.
Spiccano i ritratti, cesellati con affetto ma senza indulgenza, di Emma e Adele, cui le giovani interpreti prestano letteralmente anima e corpo, con una forza e un’autenticità prorompenti. Se Léa Seydoux, dal fascino magnetico, si rivela capace di eccezionale duttilità e profondità, la semi-debuttante Adèle Exarchopoulos colpisce per la purezza e la vivacità con cui ha saputo fare del suo personaggio la spinta vitale e il cuore pulsante della pellicola: la chioma disordinata e la bocca sempre socchiusa, famelica di vita, la sua Adele non si lascia certo dimenticare quando svolta l’ultima via. Il film è lei.
Stefano Guerini Rocco